giovedì 27 dicembre 2012

Cile, 1988: pressato dalla comunità internazionale, Pinochet è costretto a indire un referendum per chiedere al popolo cileno di prolungare di altri otto anni il suo potere. Per evitare un altro decennio di dittatura, il fronte del «no» affida la campagna d’opinione al giovane e ambizioso pubblicitario René Saavedra: le scarse risorse a disposizione e la sorveglianza della polizia non impediranno a lui e ai suoi collaboratori di progettare la geniale strategia comunicativa che li porterà alla vittoria, assecondando la voglia di libertà di un' intera nazione (dal catalogo del TFF).








Presentato nella sezione Quinzaine des Réalisateurs al 65º Festival di Cannes, dove si è aggiudicato il premio CICAE (Confédération Intenationale des Cinémas d’Art et d’Essai), il quarto lungometraggio di Pablo Larraìn non si limita a riprodurre l’agguerrita, giubilatoria e sorprendente campagna referendaria cilena del 1988, ma, muovendo dalla pièce inedita El Plebiscito di Antonio Skármeta, penetra nelle pieghe della comunicazione persuasiva, nei meccanismi della propaganda televisiva, nei dispositivi del consenso catodico. Rispetto a Tony Manero e Post mortem, in NO il discorso politico si fa più esplicito e frontale: l’impronta allegorica e tangenziale dei due film precedenti - nei quali il protagonista si muoveva sullo sfondo dei tumulti sociali osservandoli/subendoli passivamente - lascia spazio a un approccio letterale e dichiaratamente antagonista. La campagna referendaria anti-Pinochet costituisce il macrotema del film, riassumibile piuttosto banalmente nel proposito di rendere omaggio a chi ha combattuto e sconfitto la tirannia con una strategia comunicativa basata sulla felicità. Ma fermarsi a questo livello significherebbe non cogliere il movimento dialettico di NO, ignorandone la criticità soggiacente e incasellandolo sbrigativamente nella categoria del film a tema.

Al contrario, più la pellicola si spinge in profondità, intrufolandosi nelle regole retoriche della propaganda, più mette in questione il proprio statuto di film su un evento storico, storicizzato e videoarchiviato. Addentrandosi nella promozione del dissenso, NO s’interroga sulla legittimità ideologica di una campagna che combatte il regime di Pinochet affidandosi a una strategia pubblicitaria figlia di un potere ancora più subdolo e inestirpabile, quello del colonialismo culturale di matrice statunitense (ovvero la riduzione del reale a stimolo pavloviano sotto mentite spoglie). Rovesciare il potere equivale a debellare il Potere? Vincere a queste condizioni libera dalla coercizione ideologica? Di dubbio in dubbio il film stesso finisce per essere risucchiato dalla dialettica che apre: l’impiego di telecamere d’epoca con sistema di registrazione U-matic fissa sì una distanza estetico-cronologica tra gli eventi rappresentati e la contemporaneità, ma al contempo crea un’illusione di omogeneità tra i materiali d’archivio e le riprese cinematografiche. Ed è proprio in questa ambiguità tra opposizione politica e compromissione ideologica, tra discontinuità estetica e continuità mimetica che s’indovina il movimento di NO, un movimento che non cessa di negare (persino se stesso) senza rinnegarsi.

Recensione già pubblicata su www.spietati.it

giovedì 20 dicembre 2012

LEONES

Cinque ragazzi camminano in una foresta muovendosi come un branco di leoni, persi nei loro giochi di parole, ma sempre attenti a utilizzare armi di seduzione prese in prestito dal mondo adulto, che ora cercano e ora rifuggono. Il loro vagabondare nella natura è l’estremo tentativo di evitare quello che per loro sembra essere un percorso già scritto (dal catalogo del TFF).





Do you believe in second chance? Do you believe in rapture, babe?

Spoiler in quantità letale.

All’uscita della proiezione di Leones, primo lungometraggio di Jazmín López, ho approfittato della disponibilità della ventottenne regista argentina per domandarle se la mia ricostruzione dei fatti fosse attendibile. In particolare, dopo averle rapidamente illustrato la mia ipotesi (l’incidente avvenuto tra l’auto dei ragazzi e il trattore durante il viaggio verso la casa di Isa), ho chiamato in causa la scena in cui Arturo (Pablo Sigal), recuperato un revolver sul trattore accidentalmente trovato nel bosco, pronuncia questa frase: “Fine intellettuale. Marcia funebre del pensiero”. Non ho avuto modo di precisarle che, a mio avviso, il gioco delle microstorie in sei parole à la Hemingway (“For sale: baby shoes, never worn”) trovava lì la sua massima densità significativa, poiché mi ha interrotto bruscamente, dicendomi che quella frase è la citazione letterale del finale di un libro di Paul Valéry. Sorpreso e incuriosito, anziché simulare familiarità con l’opera di Valéry, le ho apertamente chiesto il titolo del libro, aggiungendo scherzosamente che sarei andato a controllare.

Fin intellectuelle. Marche funèbre de la pensée.

Ebbene, ho recuperato Monsieur Teste: non soltanto si chiude con la succitata frase, ma leggendolo ho avuto la netta impressione che fornisca la chiave interpretativa più adatta per dialogare col cinema di Jazmín López - già autrice di tre rimarchevoli cortometraggi: Parece la pierna de una muñeca (2007), Juego vivo (2008) e Te amo y morite (2009). Un cinema animato da una palpabile tensione mentale coniugata a un’esasperata acutezza sensoriale. Un cinema che scaturisce, citando Valéry, da uno “sguardo estraneo sulle cose, questo sguardo di un uomo che non riconosce, che è fuori da questo mondo, occhio-frontiera tra l’essere e il non essere”. Uno sguardo che appartiene al cinema e che, al contempo, è quello di un “agonizzante, di un uomo che perde il riconoscimento”. Foresta, dizionario e cimitero, Leones oggettiva cinematograficamente la visione straniata e distaccata di Monsieur Teste (“M. Teste è il testimone”) nel punto di vista bifronte di Isa, scindendo il film tra un io empirico immerso nelle correnti dell’affettività e delle sensazioni immediate (fame, freddo, smarrimento, dolore) e un io impersonale che osserva macchinalmente da un luogo liminare.

Je veux n’emprunter au monde (visible) que des forces - non des formes, mais de quoi faire des formes.

Quello che vediamo, insomma, altro non è che la materializzazione dello stato mentale di Isa (Julia Volpato), uno stato tra la vita e la morte, precisamente quell’“occhio-frontiera tra l’essere e il non essere” di cui parla Valéry. I quattro compagni di vagabondaggio rappresentano figure fantasmatiche che Isa recupera immaginariamente, che insegue nella loro sfuggente e raminga evanescenza (si veda la seconda inquadratura, in cui Arturo, Sofia e Niki si sottraggono alla vista nascondendosi dietro i tronchi degli alberi). E il bosco diviene lo scenario immaginario nel quale trasferire, dislocandoli liberamente, oggetti traumatici ed eventi verificatisi durante il viaggio (l’automobile, il trattore, le conversazioni magicamente incise sul nastro): nella visione vi è uno sfasamento, una cesura prodotta dalla reminiscenza. Ancora Monsieur Teste: “Ci si rende conto dei tagli tramite le modificazioni sopraggiunte… che sono rivelate da un vedere che si chiama memoria. La differenza tra il vedere «attuale» e il vedere «ricordo» (...) si attribuisce a un «tempo» intermedio”. In questa visione sensibilmente scissa non è più la storia a contare, ma “il sentimento della materia stessa: roccia, aria, acque, materia vegetale - e le loro virtù elementari”.

Il y a une belle partie de l’âme qui peut jouir sans comprendre, et qui est grande chez moi.

Costato soli quattrocentomila euro e girato con un’impronta fenomenologica che combina qualità astraenti (la luminosità cangiante dei fotogrammi che aprono e chiudono il film) e valori strettamente sensoriali (l’immersione ambientale nel bosco), Leones si ritaglia uno spazio cinematografico autonomo pur non rinunciando a omaggi bressoniani - Il diavolo probabilmente, evocato in un dialogo - e antonioniani - Blow Up, ludicamente riprodotto in uno scambio a pallavolo senza palla. Omaggio, quest’ultimo, che ribadisce, via Cortázar, lo statuto mortuario del soggetto dell’enunciazione (da Le bave del diavolo: “Uno di noi tutti deve scrivere, se tutto ciò deve essere raccontato. Meglio che lo faccia io che sono morto…”). Del resto è Jazmín López stessa a definire il suo primo lungometraggio “un saggio sulla morte, che viene vista da un essere mortale come un paesaggio meraviglioso”. E a citare esplicitamente Borges: “La morte è una vita vissuta. La vita è una morte in arrivo”. Diciannove inquadrature fotografate da Matías Mesa (lo steadicam operator di Gus Van Sant), dilatate indefinitamente e accelerate impercettibilmente, nomadi e verdeggianti, esemplarmente riassunte dal finale di Monsieur Teste: “I sillogismi alterati dall’agonia, il dolore immerso in mille immagini felici, la paura unita ai bei momenti passati. Che tentazione, tuttavia, la morte! Una cosa inimmaginabile che penetra nello spirito sotto le forme, ora del desiderio, ora dell’orrore. Fine intellettuale. Marcia funebre del pensiero”.

Au bout de l’esprit, le corps. Mais au bout du corps, l’esprit.

Recensione pubblicata su www.spietati.it

mercoledì 14 novembre 2012

LA NAVE DOLCE

"L’8 agosto 1991 una nave albanese, carica di ventimila persone, giunge nel porto di Bari. La nave si chiama Vlora. A chi la guarda avvicinarsi appare come un formicaio brulicante, un groviglio indistinto di corpi aggrappati gli uni agli altri. Le operazioni di attracco sono difficili, qualcuno si butta in mare per raggiungere la terraferma a nuoto, molti urlano in coro “Italia, Italia” facendo il segno di vittoria con le dita. La Vlora è un vecchio e malandato mercantile costruito all’inizio degli anni Sessanta a Genova. Il 7 agosto 1991 la nave, di ritorno da Cuba, arriva al porto di Durazzo, nella stiva diecimila tonnellate di zucchero. Sono in corso le operazioni di scarico quando una folla enorme di migliaia di persone assale improvvisamente il mercantile, costringendo il capitano Halim Malaqi a fare rotta verso l’Italia. È una marea incontenibile di uomini, ragazzi, donne, bambini. C’è Eva che sale arrampicandosi lungo le cime d’ormeggio insieme al marito. C’è Kledi, un ragazzino che si trova in spiaggia con gli amici quando decide di seguire incuriosito la folla che va verso il porto. C’è il piccolo Ali con la sua famiglia, c’è Robert, giovane regista con i suoi compagni di studi. Qualcuno, una volta a bordo, incontra un fratello, un amico. Il motore centrale è in avaria, non c’è cibo, né acqua. Solo zucchero. Il sole di agosto arroventa il pontile. Poi scende la notte, il capitano governa la nave senza poter utilizzare il radar, evita anche una collisione. Il mattino dopo, ad attendere la Vlora c’è una città incredula e stordita e uno stadio di calcio vuoto, dove, dopo lunghissime operazioni di sgombero del porto, gli albanesi vengono rinchiusi prima del rimpatrio. Sono passati ventuno anni da quel giorno. La maggior parte di coloro che salirono sulla nave, carica di zucchero, vennero rispediti in Albania ma gli sbarchi continuarono e qualcuno tentò ancora la traversata. Oggi vivono in Italia quattro milioni e mezzo di stranieri" (dal pressbook).


Dopo il passaggio Fuori Concorso a Venezia, esce in sala La nave dolce di Daniele Vicari, progetto ideato da Luigi De Luca e Silvio Maselli (rispettivamente vice-presidente e direttore della Apulia Film Commission) e cosceneggiato da Antonella Gaeta (presidente della fondazione) insieme a Benedetto Atria e allo stesso Vicari. La presenza di dirigenti della Film Commission nell’ideazione del documentario ha dato vita a una polemica che non mette conto riportare nel dettaglio (è stata loro rimproverata la pratica dell’autofinanziamento), poiché, senza entrare nel merito delle beghe istituzionali, l’incisività de La nave dolce basta e avanza a rispedire al mittente le accuse di conflitto d’interessi o di uso particolaristico del denaro pubblico. Tanto più che la direzione della pellicola è stata affidata a un regista di altra provenienza geografica per deregionalizzare lo sguardo, scongiurare il rischio di un’eccessiva prossimità ai fatti mostrati e sviluppare le risonanze storiche di un evento che, pur radicandosi in una situazione contingente (agosto 1991 tra Albania e Italia), costituì una vera e propria svolta epocale (fino a quel momento il flusso migratorio interessava prevalentemente il porto di Brindisi e le cosiddette “carrette del mare” o “navi della speranza” trasportavano al massimo poche centinaia di uomini).

Fare attenzione: il nucleo del documentario non risiede nell’arrivo a Bari della Vlora, vecchio mercantile appena rientrato a Durazzo con le stive ricolme di zucchero, ma il viaggio degli esseri umani che l’hanno prima occupata, quindi affollata e infine abbandonata, proseguendo il percorso sul molo del porto e nello Stadio della Vittoria. Vivendo in uno status incerto, in condizioni di assoluta precarietà e fisicamente esposti alle risoluzioni delle autorità italiane, totalmente impreparate a fronteggiare l’emergenza. La risposta è quella più scontata: contenimento, maniere forti, trasferimento di massa in un luogo di reclusione. Sospensione dei diritti civili, in una parola. Ecco il nesso con Diaz, nesso accennato dallo stesso Vicari: “La nave dolce si intreccia nella mia coscienza di narratore con Diaz. Non so dire fino in fondo il perché, ma sento che hanno qualcosa in comune. Oltre alla casualità di essere stati realizzati contemporaneamente, parallelamente, entrambi raccontano episodi collettivi che rappresentano una porzione di avvenimenti storico-politici più grandi e complessi. Ma entrambi nell’essere la “pars pro toto” tentano di restituire il senso del tutto attraverso l’esperienza di una molteplicità di persone”.

Eppure tra Diaz e La nave dolce il nesso non si crea all’insegna della continuità, ma della rottura, del rovesciamento, dell’antitesi. Se il primo narrava l’inenarrabile, allineando tra vistosi riavvolgimenti e calcolate divagazioni una materia che nella dimensione del flusso incontenibile aveva la sua portata storica, il secondo disgrega la compattezza, disperde il raccolto, irradia dall’apparente coesione di una massa indistinta una miriade di frammenti che non sono più storie ma schegge di esistenza. Stavolta il punto di partenza è già una matrice narrativa (il grande motivo del viaggio) e la rappresentazione mediatica ha già fornito una versione ufficiale (quando? come? perché? cosa?: sappiamo tutto). Un film che ha già il suo director’s cut. Occorre scavare, interrogarsi sul chi, farsi archeologi del contemporaneo: “disarchiviare” l’immaginario. Interpellare i protagonisti che, posti di fronte a una lavagna luminosa, non sono più testimoni, ma si convertono in vettori individuali e collettivi al tempo stesso. Certo, descrivono la loro esperienza, eppure le loro parole, proprio perché singolari e non intercambiabili, suggeriscono che ogni passeggero della Vlora potrebbe rievocare un’esperienza diversa. La propria.

Vicari e compagni scrostano la superficie del piccolo schermo, scovano reperti immagazzinati negli archivi delle emittenti nazionali e locali, italiane e albanesi. E nel sommerso trovano il giacimento del reale. Un reale già parzialmente ritagliato e articolato dalle inquadrature degli operatori, ma infinitamente più denso e palpitante della visione scottante e allarmata fornita a suo tempo dall’informazione televisiva. Immagini non ancora addomesticate, non ancora imbrigliate nel discorso del reportage, non ancora simbolizzate. È il grande schermo, allora, a farsi carico di strappare la vicenda alla dimensione morta dell’evento e di restituirla a quella vitale dell’avvenimento, ad assumersi la responsabilità di indicare nella conflittualità stessa la verità del reale. Scontri frontali tra le forze dell’ordine e gli albanesi più decisi, strappi istituzionali tra le autorità locali e il governo, reazioni antitetiche dei baresi (chi aiuta i fuggiaschi a seminare la polizia, chi li riconsegna a tradimento ai gendarmi): feritoie su un campo di battaglia. Non più finestre - come i passeggeri della Vlora definiscono le immagini televisive italiane - ma feritoie che non rinunciano alla verità in nome di un malinteso senso dell’obiettività. Non c’è forma narrativa forte che possa disciplinarle, i cinque atti di stampo tragico che strutturano il documentario non soffocano queste immagini formicolanti che assumono pienamente il paradosso di una verità accessibile solo da un punto di vista specifico, parziale, schierato. Una questione d’ingaggio anteriore a ogni narrazione emblematica. Detto altrimenti, questa verità aggredisce La nave dolce nonostante la sua armatura narrativa, nella dimensione del trauma.

Recensione pubblicata su www.spietati.it.

venerdì 9 novembre 2012

LA VENDETTA DEGLI ANTI-EROI


LA VENDETTA DEGLI ANTI-EROI - Il cinema di Nicolas Winding Refn - a cura di Stefano Giorgi e Fabio Zanello [Edizioni il Foglio – pp. 150 € 14,00]
Nicolas Winding Refn (Copenaghen, 1970), regista, sceneggiatore e produttore, ha esordito nella metà degli anni novanta nel genere noir, per poi maturare nel corso dei decenni successivi fra il vecchio e il nuovo continente revisioni postmoderne e filologiche dei generi più disparati: dall'epica più plumbea al poliziesco a sfondo sociale, dal filone carcerario allo spaccato giovanile.Tutte opere che sono state divulgate in Italia da manifestazioni cinematografiche come il Noir di Courmayeur e il Torinofilmfestival.
Proprio i suoi contributi alla palingenesi di un thriller e poliziesco realistico e antropologico con qualche concessione all'iperrealismo ma non al pulp nell'accezione più completa del termine, mediante accorgimenti nell'uso del montaggio e della colonna sonora, lo hanno imposto sulla scena internazionale come alfiere del cinema nordico contro lo strapotere americano e francese nei generi succitati. Senza però che ciò gli abbia impedito di interrogarsi sulle motivazioni della violenza, sul ruolo dell'invidualismo in un microcosmo corrotto e sull'ansia di redenzione di uomini, che pur operando nella malavita e nell'illegalità, si trovano a combattere contro una crisi d'identità, determinata da un fato inesorabile e beffardo, influenzata anche dalla crisi degli affetti.
Tra i suoi titoli più noti figurano "Pusher"(1996), "Pusher II"(2004), "Pusher III"(2005), "Bronson"(2008), "Valhalla Rising"(2009) e "Drive" (2011) , gran premio al festival di Cannes per la regia.
Il volume, oltre alla prefazione di Laurent Duroche, comprende i saggi di Aurora Auteri, Alessandro Baratti, Luca Biscontini, Marco Cacioppo, Giacomo Calzoni, Francesco Giani, Stefano Giorgi, Domenico Monetti, Michele Raga, Gianluigi Perrone, Mariangela Sansone e Fabio Zanello.

venerdì 26 ottobre 2012

COGAN - KILLING THEM SOFTLY

New Orleans, poco prima delle elezioni presidenziali del 2008. Frankie, un piccolo criminale appena uscito dal carcere, viene coinvolto nel piano ideato da Johnny Amato: rapinare una partita di poker organizzata da Markie Trattman. Per mettere a segno il colpo occorre un terzo uomo e Frankie recluta Russell, un avanzo di galera australiano che si guadagna da vivere rubando cani di razza. La rapina fila liscia, ma il giro delle bische clandestine si ferma improvvisamente con grande perdita di denaro. Per il bene dell’economia locale, l’organizzazione mafiosa che controlla il territorio si rivolge a Jackie Cogan: dovrà scovare i responsabili e ripristinare l’ordine.

Due avvertenze preliminari:
1- Affrontare la lettura di una recensione così smisurata senza aspettarsi degli spoiler sarebbe semplicemente irragionevole. Se lo fate la responsabilità è vostra, noi vi abbiamo avvertito.
2- Quanto il doppiaggio appiattisca il tessuto linguistico del film può risultare chiaro con un solo esempio: durante la rapina Russell non dice una parola, poiché se parlasse tradirebbe le sue origini australiane.

 

The Friends of George V. Higgins

“The fuck, you look like you just got out of jail or something”: queste sono pressappoco le prime parole pronunciate da Johnny Amato nel romanzo Cogan’s Trade (1974) di George V. Higgins, già autore di The Friends of Eddie Coyle (1970), grigio e stradisilluso noir bostoniano portato sullo schermo da Peter Yates nel 1973 con un Robert Mitchum segnatissimo nei panni di Eddie e un Peter Boyle ultraviscido in quelli del barman-killer Dillon. L’universo letterario di Higgins è impregnato di conoscenza diretta dello slang, delle personalità e delle dinamiche criminali: una conoscenza derivante dalla professione di procuratore distrettuale a Boston che marchia a fuoco il suo stile e la sua prospettiva narrativa. Higgins se ne sbatte del folklore e dell’alone leggendario che circonda l’underworld, a tenere banco nei suoi romanzi sono figure di piccoli malavitosi incastrati in traffici più grandi di loro, reietti o marginali che vorrebbero tirarsi fuori dai guai ma che non possiedono né la lungimiranza né l’astuzia per riuscirci. Né eroi né antieroi, insomma, ma personaggi tragicomici, meschini e confusi come qualsiasi common man catapultato nelle medesime circostanze. Solamente più sboccati, sbroccati e logorroici: il loro deficit d’intelligenza si accompagna a un surplus di eloquenza che tradisce la loro insipienza e i loro maneggi, mettendoli nei pasticci per eccesso di sbruffoneria o difetto di prudenza.

E i dialoghi higginsiani, autentici esercizi di mimetismo stilistico (“I don’t Know” si contrae spesso in “I dunno” e “What do you mean?” in “Whaddaya mean?”, giusto per fare un paio di esempi comprensibili), non solo ricalcano fedelmente il parlato malavitoso riproducendone la propensione al turpiloquio ininterrotto, ma dilatano a dismisura l’incontinenza verbale dei personaggi sommergendo l’azione in una loquacità letteralmente straripante. Risultato: l’esposizione dialogica si sostituisce agli eventi o li prefigura/rivisita da angolazioni diverse. Ed è precisamente l’angolo di osservazione (“You got to think of a different angle”, dice Amato a Frankie immediatamente prima di proporgli il colpo) a costituire il propulsore narrativo di Cogan’s Trade: l’“idea” (è con questo termine che la versione italiana del romanzo traduce “angle”) di Johnny consiste nel prevedere le reazioni del milieu alla rapina nella bisca di Trattman (“Keep in mind, I Know how these guys think”, lo rassicura Amato). Di fatto questo massimalismo dialogico, oltre a soffocare le potenzialità cinetiche della crime fiction, sposta l’asse della narrazione verso coordinate soggettive se non apertamente mentali. Pagina dopo pagina, si fa sempre più chiaro che la vera posta in palio non è la riuscita del colpo o la felicità dei personaggi ma l’affermazione di un punto di vista dominante, di un’angolazione reggente: “I see what you mean, the public angle”, riconosce l’autista che fa da intermediario tra Cogan e i boss dell’organizzazione. È la questione del consenso il nodo cruciale del romanzo di Higgins, un consenso necessario al corretto funzionamento degli affari e vincolato a una campagna persuasiva basata più sulle parole che sulla violenza.

 

Oralità, economia, politica

Come Outrage di Kitano, Cogan - Killing Them Softly si colloca a un livello in cui la violenza agita si è sublimata (l’estetizzazione e la distanza con le quali si mettono in scena i pestaggi e le esecuzioni) e rimane a rappresentarne l’essenza crudele un’oralità diaccia ed esasperata. Come Outrage Beyond Cogan scarnifica l’intreccio per portarne alla luce il meccanismo nudo e crudo: coppie di personaggi che si parlano si susseguono senza svelamenti di carattere, puri ingranaggi che manifestano con chiarezza solo il posto che occupano nella struttura gerarchica malavitosa di cui sono parte (e di conseguenza nella costruzione drammatica), ma (quasi) mai ciò che sono (Frankie - Io non so chi cazzo sei! Cogan - Pochissimi lo sanno). È la riduzione del genere a puro congegno di causa ed effetto, il suo svuotamento e la sua ritraduzione  in una glaciale burocratizzazione della violenza, in un’arida ragioneria della morte: così ad ogni evento ne consegue un altro che ne porta ad un altro e così via. Tutto si deve compiere, l’unica tensione risiedendo nell’incertezza del se interverrà un elemento a distrarre dalla sua logica fine questa truce concatenazione, questo cruento stillicidio che procede attraverso la lenta, inesorabile decimazione delle figure in gioco.

La messa a nudo del congegno va di pari passo con l’esplicitazione della componente economico-politica racchiusa nel romanzo: in fase di adattamento Dominik si accorge che Cogan’s Trade racconta in filigrana la storia di una crisi economica, una crisi dovuta a uno scompenso nella regolamentazione di un’economia basata sul gioco d’azzardo e sull’accumulo di capitali. Una sorta di riproduzione in scala della situazione contemporanea. L’attualizzazione dagli anni ’70 alla vigilia delle elezioni presidenziali del 2008 procede dunque lungo un doppio binario: la crisi finanziaria da un lato e la creazione del consenso dall’altro, con l’ausilio del genere cinematografico a garantire l’attendibilità della radiografia (“Credo che i film sulla criminalità trattino del capitalismo, poiché [il crime movie] è il solo genere nel quale è perfettamente accettabile che tutti i personaggi siano motivati esclusivamente dal desiderio di denaro. E penso anche che, in qualche modo, sia il genere americano più onesto”: Andrew Dominik durante la conferenza stampa a Cannes). Detto altrimenti, gli squilibri della crisi economica vengono fronteggiati con la formula del consenso politico: ecco il significato dell’ambientazione in piena campagna elettorale (una delle prime inquadrature del film termina su due cartelloni di identica grandezza che ritraggono i candidati rivali Obama e McCain). Non conta il partito rappresentato o lo schieramento politico, ma il processo persuasivo in atto, il suo insinuarsi più o meno rumorosamente nello scenario di una realtà che sta andando in frantumi (New Orleans, una città sfasciata in quadri irriconoscibili e potenzialmente riferibili a qualsiasi periferia).

 

Screwball, Struttura Žižek

Eppure non sono i toni drammatici a imporsi: diversamente da Peter Yates, che ne Gli amici di Eddie Coyle aveva esasperato lo squallore e la meschinità del microcosmo malavitoso descritto da Higgins, Dominik pone l’accento sulla componente comico-grottesca che impregna i dialoghi higginsiani. Non si cada nell’equivoco di considerare tarantiniani i dialoghi di Cogan, sarebbe il malinteso più gigantesco in cui si potrebbe incappare. Higgins è il maestro riconosciuto di Elmore Leonard (“Higgins is my favorite. . . . No, he doesn’t learn from me, I learn from him”), che ha definito più volte The Friends of Eddie Coyle “il miglior romanzo criminale mai scritto” e ha dato alla protagonista di Rum Punch (1992) il nome di Jackie Brown, il personaggio che apre letteralmente il romanzo d’esordio del procuratore distrettuale di Boston (“Jackie Brown, di anni ventisei, senza alcuna espressione in viso, disse che era in grado di procurare delle armi”: questo l’incipit di Gli amici di Eddie Coyle). Rispettando alla lettera la drammaturgia higginsiana, Dominik non può che sfociare in territorio screwball comedy, insomma. Il continuo oscillare tra oscenità gergale, digressioni strampalate, violenza improvvisa e ordinarietà delle figure criminali appartiene interamente al patrimonio letterario di Higgins, Dominik non ha fatto altro che assecondarne la vena comico-realistica (chi ne dubita si procuri Gli amici di Eddie Coyle e, se ne è capace, legga il primo capitolo senza smascellarsi dalle risate).

Dove invece Dominik interviene massicciamente, pur non smantellando l’impianto del romanzo, è nell’assegnazione di valori psicoanalitici ai personaggi principali. Dissodato dal massimalismo dialogico di cui sopra, il terreno è particolarmente adatto ad accogliere una semina simile, dichiaratamente influenzata dalle riflessioni post-freudiane della filo-star Slavoj Žižek (si coglie l’occasione per suggerire la lettura del leggermente datato ma assai illuminante Introduzione a Žižek di Tony Myers, libretto divulgativo pubblicato nel 2003 ed edito recentemente in Italia da il Melangolo). Prendendo spunto dalla teoria esposta dal filosofo sloveno in The Pervert's Guide to Cinema (Sophie Fiennes, 2006), secondo la quale i tre fratelli Marx Groucho, Chico e Harpo rappresenterebbero tre aspetti di una sola personalità (rispettivamente Super-Io, Io ed Es), il cineasta e sceneggiatore neozelandese ha allestito un teatro psichico a sei personaggi riducibili a due personalità scomposte nelle rispettive triadi. Frankie (Scoot McNairy) incarna l’Io della prima, un Io alle prese da una parte con Russell (Ben Mendelsohn), il suo godereccio Es, e dall’altra con Johnny Amato (Vincent Curatola), l’esigente Super-Io. L’incipit del film, con Frankie che esce da un luogo completamente buio venendo letteralmente alla luce, è fin troppo eloquente: siamo in presenza di una nascita simbolica, assistiamo all’apparizione di un’entità dall’identità neonata e indefinita.

Analogamente, Jackie Cogan (Brad Pitt) rappresenta l’altro Io, stretto tra le pretese di un Super-Io portavoce dell’autorità (Richard Jenkins) e gli smodati appetiti erotico-alcolici di Mitch (James Gandolfini), un Es di pantagruelica insaziabilità. Anche l’entrata in scena di Jackie risulta gravida di connotazioni psicoanalitiche: Cogan si presenta come sostituto del ricoverato Dillon (Sam Shepard), suo mentore nonché uomo di fiducia dell’organizzazione. La sua comparsa avviene in concomitanza con la malattia del padre simbolico: Dillon è in ospedale e Jackie irrompe nella finzione quando il suo vecchio Super-Io si sta spegnendo. Proprio come Frankie, Cogan è un homo novus e a segnare la differenza tra i due è esattamente il modo in cui reagiscono alle pressioni dei rispettivi Es e Super-Io: Frankie tenta sciaguratamente di metterli d’accordo, mentre Jackie imprigiona l’Es ed esautora il suo nuovo Super-Io (persino nei piccoli gesti: ignora l’ingiunzione di Jenkins a non fumare in macchina), cavandosela egregiamente. Illustrata da Dominik stesso durante la conferenza stampa a Cannes (visibile su YouTube), questa dinamica non si esaurisce nell’applicazione della “Struttura Žižek” ai personaggi del romanzo, ma produce inoltre una modificazione del finale. Se in Cogan’s Trade Jackie si limita a prendere il posto di Dillon imponendo nuovi prezzi all’organizzazione (“Se capita una rogna, bene, vi serve una persona, qualcuno che sistema la situazione. Ho solo detto che d’ora in poi vi costerà di più. Punto.”), in Cogan - Killing Them Softly Jackie non fa sconti e vuole essere pagato fino all’ultimo dollaro, non c’è scusa che tenga. La differenza è di capitale importanza: il Cogan di Higgins prefigura l’avvento di una nuova generazione criminale più avida e spregiudicata, attirando su di sé la meschinità e la rapacità in circolazione. Il Cogan di Dominik, al contrario, non funge più da neocriminale parafulmine, ma, astenendosi tanto dal cieco edonismo quanto dalla remissiva obbedienza, propone un’esemplare e cinica strategia di sopravvivenza contemporanea.

 

Noir manierista

Indubbiamente il terzo lungometraggio di Dominik intrattiene legami col neonoir di fine anni ’60-prima metà anni ’70. Inevitabile il confronto con la più volte citata pellicola di Yates: la sequenza che precede la rapina di Frankie e Russell possiede un forte sapore yatesiano sia nel fraseggio dei campi/controcampi all’interno dell’abitacolo sia nell’inquadratura dall’alto - una gru - che accompagna l’arrivo della macchina nel parcheggio deserto (nel noir di Yates un’inquadratura dal taglio simile, anche se fissa, compare in uno dei momenti più tetri del film: l’abbandono di una Ford con un cadavere nel parcheggio di un bowling). Più in generale il film di Dominik presuppone costantemente quello di Yates, non soltanto poiché questo costituisce l’unico precedente di adattamento cinematografico higginsiano, ma soprattutto perché la molla che ha spinto il cineasta neozelandese a interessarsi a Higgins e leggere Cogan’s Trade è stata proprio la visione de Gli amici di Eddie Coyle. A un livello più superficiale si registra un’associazione audiovisiva con Il caso Thomas Crown (The Thomas Crown Affair, Norman Jewison, 1968): subito dopo il dialogo eroinico con Russell, Frankie si mette al volante terrorizzato da quanto il suo socio gli ha appena riferito, vale a dire che sulla loro testa pende una condanna a morte. Il brano musicale che accompagna l’angoscioso tragitto di Frankie è The Windmills of Your Mind (celeberrimo leitmotiv del film di Jewison) nella versione di Petula Clark: sullo schermo si materializza uno split-screen diegetico (lo specchietto retrovisore si ritaglia uno spazio visivo autonomo all’interno dell’inquadratura) in una sorta di omaggio estemporaneo alla pellicola jewisoniana, campionessa mondiale della specialità split-screen.

Spingendosi più in profondità e non senza una certa audacia, si incontrano passaggi fotografici che collegano gli scatti cadaverici di Weegee (Naked City, 1945) a quelli obitoriali di Andres Serrano (The Morgue, 1991): dal crudo realismo dell’esecuzione di Amato al dolciastro iperrealismo dell’inserimento nei loculi di Johnny e Frankie (avvolto dalla versione flautata di It’s Only a Paper Moon di Cliff “Ukulele Ike” Edwards). Ma a uno strato ancora più profondo e generativo Cogan è geneticamente imparentato ai noir manieristi di fine anni ’50-primi anni ’60: crime movies che mischiano furiosamente sfondo sociale, alienazione metropolitana e sperimentazione formale. Pellicole come Assassinio per contratto (Murder by Contract, Irving Lerner, 1958), La vendetta del gangster (Underworld U.S.A., Samuel Fuller, 1961) o Cronaca di un assassinio (Blast of Silence, Allen Baron, 1961): noir che, fotografando i nuovi assetti della criminalità organizzata, scavano all’interno delle personalità omicide e prediligono le esibite variazioni di tonalità espressiva all’uniformità drammatica del genere classicamente declinato. Sono le clamorose identificazioni tra criminalità e capitalismo, le commistioni tra tragico e grottesco e le ricercatezze estetiche spudoratamente virtuosistiche a renderli testimonianze di un’innocenza perduta per sempre. Ed è esattamente questo che fa Dominik in Cogan: identifica America e Business, amalgama noir e commedia e trasfigura l’omicidio di Markie (Ray Liotta) in una cullante ninnananna sulle note di Love Letters di Kitty Lester. Cogan - Killing Them Softly è un film immenso, di grottesca, imperiale decadenza. Un noir manierista che, abbracciando i codici, lavora sulle forme. E nel manierismo non c’è epica, ma rimpianto per l’armonia perduta. Resterà.

Recensione pubblicata su www.spietati.it




sabato 20 ottobre 2012

Gli anni delle immagini perdute


Gli anni delle immagini perdute delinea il ritratto di Valerio Zurlini, scomparso nell’ottobre 1982, poche settimane dopo aver partecipato come giurato alla 50ª Mostra del Cinema di Venezia. Zurlini sapeva di essere malato e aveva dedicato gli ultimi mesi di vita alla scrittura del proprio testamento spirituale, che uscirà postumo con il titolo Gli anni delle immagini perdute. Un bilancio esistenziale spietato, il racconto di un mondo che cambia in modo irreversibile, un appello struggente in difesa del cinema d’autore. Il regista ripercorre gli episodi più importanti della propria vita, indica le ragioni del suo cinema, ricorda gli artisti che l’hanno formato. Soprattutto: denuncia le “immagini perdute”, i tanti film cioè che egli scrisse e preparò senza riuscire a portarli a compimento. Gli anni delle immagini perdute torna nei luoghi in cui il regista amava ritirarsi, raccoglie le testimonianze di amici e collaboratori, ripropone il repertorio di interviste e conversazioni del regista, nel tentativo di capire le cause di questo forzato e fatale “silenzio” produttivo (dal catalogo della Mostra). 

Accorata e rispettosa riduzione dell’omonimo libro-diario di Valerio Zurlini, Gli anni delle immagini perdute di Adolfo Conti si situa a metà strada tra il documentario di risarcimento e l’illustrazione intima. Un risarcimento che ha per oggetto non tanto la filmografia zurliniana - sparuta e intralciata da mille ostacoli ma in fin dei conti bastante a se stessa - quanto i progetti mai portati a termine dal cineasta bolognese, quelle “immagini perdute” condannate a rimanere allo stato embrionale di progetti interrotti, di sceneggiature pronte a essere tradotte in pellicola ma destinate a ingiallire in un cassetto. E un’illustrazione intima che, pur ricalcando giudiziosamente la scansione diaristica, dà corpo alle pagine scritte cavalcandone le suggestioni atmosferiche (i rigidi e nebbiosi inverni della laguna), intrufolandosi discretamente negli ambienti domestici (la casa veneziana di Wally Toscanini) e dilatandosi maestosamente nella contemplazione pittorica (la rapita ammirazione delle opere di Paolo Veronese nella chiesa di San Sebastiano). Mentre la voce narrante recita fedelmente e sentitamente le parole del diario, il documentario si abbandona alla sensibilità zurliniana nel tentativo di oggettivare visivamente lo spartito letterario cogliendone il sentimento profondo. Del resto non c’è bisogno di scompaginare un testo di per sé rapsodico ed evocativo come il libro di Zurlini, la divagazione e la scioltezza narrativa ne costituiscono il ritmo interno: “La memoria è bizzarra, indulgente, vanitosa, sentimentale, è breve, permalosa, bugiarda anche quando in buona fede, ma i suoi sentieri infiniti sono tracciati sempre da una logica segreta”.

E proprio in questo tentativo di captare e restituire la sensibilità zurliniana risiede il maggior pregio del documentario. Adolfo Conti non assume un atteggiamento distaccato o blandamente descrittivo, ma si immerge nell’universo dell’autore di Cronaca familiare come lo stesso Zurlini si era immerso in quello pratoliniano adattando il romanzo omonimo: rispettandone programmaticamente la lettera e lo spirito. Siamo a un solo passo dal ritratto agiografico, certo, eppure questo slancio di immedesimazione traspare a più riprese e - fatta eccezione per il finale enfaticamente roboante - genera momenti di sincera commozione e rimpianto. Sono le parti dedicate alle tre “sceneggiature morte” (La zattera della Medusa, Verso Damasco e Il sole nero) quelle che colpiscono più a fondo: tre copioni scomodi e gravidi di dubbi esistenziali, colmi di quel senso di irrimediabile sradicamento e dissidio interiore che soltanto Zurlini avrebbe saputo tenere in equilibrio tra confessione privata e riflessione universale, tra allegorie di un mondo in disfacimento e severa autoanalisi. Ciononostante Gli anni delle immagini perdute non si esaurisce nel ricordo mimetico e nella sconfortata amarezza, ma - grazie al gioco di sponda con filmati d’archivio (il Leone d’Oro del 1962 ex-aequo con Tarkovskij, i servizi televisivi sui set di Cronaca familiare e Le soldatesse) e interviste a collaboratori e interpreti (Giulio Questi, Enrico Medioli, Jacques Perrin, Claudia Cardinale) - abbraccia un orizzonte più ampio, quello di un intero periodo del cinema italiano (da metà anni ’50 agli inizi degli ’80). Un cinema sempre più soffocato dalla concorrenza televisiva e sempre meno disposto a dare spazio a un cantore di antiche fragilità come Valerio Zurlini.
Recensione pubblicata su www.spietati.it.

martedì 16 ottobre 2012

Moviement - Speciale 3D

L’ottavo numero di MOVIEMENT è dedicato al cinema 3D Stereoscopico. Con questo numero “Moviement”  ha operato una scelta editoriale precisa, quella di puntare più che su un autore o un genere cinematografico su una modalità di rappresentazione che negli ultimi anni si è imposta in maniera sempre più significativa nella produzione cinematografica: il 3D. Quando parliamo di 3D al cinema indichiamo il 3D Stereoscopico, ovvero la riproduzione degli effetti tridimensionali della visione binoculare attraverso la cinematografia. Il 3D in sé non è una novità nell’ambito della evoluzione dell’apparato tecnologico ma è parte intrinseca del DNA del cinema fin dalle sue origini. La contemporanea configurazione produttiva e l’espansione spettacolativa del 3D nell’industria cinematografica e su altre piattaforme e schermi è dovuta all’incidenza della rivoluzione digitale e all’utilizzo più sofisticato in senso narrativo del medium. Attraverso i saggi presenti in questo “Speciale” si è cercato di fornire un quadro abbastanza esauriente sui vari aspetti che investono la riflessione sul 3D, da quelli di natura metodologica (Atkinson), storica (Antermite, Del Valle, Botelho,) o estetica (Huhtamo, Menduni), passando attraverso la strutturazione tecnologica (Neri, Piazza, Tornimbeni), l’uso del suono (Callarello), le possibilità del 3D in campo autoriale (Catolfi, Menduni, Nencioni, Thompson, Zazzara) e del cinema di animazione (Lanzo). A completare il quadro le interviste a Lilliwood/Xilostudios, Zapruder e Joshua Hollander, un Glossario a cura di Antonello Satta e la riproduzione di un articolo “storico” sul 3D di Mario Verdone a cura di Eusebio Ciccotti.

Collana: Moviement
Formato: 21 x 29,7
Pagine: 160
Prezzo: 15 euro
ISBN: 978-88-97670-05-6
Uscita: Ottobre 2012

giovedì 11 ottobre 2012

UN SAPORE DI RUGGINE E OSSA


Ali, padre del piccolo Sam, si reca ad Antibes dalla sorella Anna che non vede da anni. Qui, grazie al suo aiuto, tenta di ripartire da zero trovando lavoro come buttafuori in discoteca. Una sera, intervenuto per sedare una rissa, soccorre Stéphanie, una bellissima ragazza che è appena stata malmenata. La accompagna a casa scoprendo che è un’addestratrice di orche e le lascia il numero di telefono in caso di necessità. Le loro vicende sembrano separarsi definitivamente ma, in seguito a un drammatico incidente sul lavoro che le costa l’amputazione delle gambe, Stéphanie chiama Ali: tra i due si instaura un rapporto di crescente intimità non privo di tensioni e incomprensioni.


Gli spoiler non mancano, le considerazioni squisitamente soggettive nemmeno: astenersi puristi della metodologia critica nonché lettori non muniti di apposita visione filmica.

Liberamente ispirato alla raccolta di racconti Rust and Bone (2005) dello scrittore canadese Craig Davidson (pubblicata in Italia da Einaudi nel 2008), Un sapore di ruggine e ossa segna una netta inversione di marcia nel cinema di Jacques Audiard. Dopo lo straordinario successo di Un prophète - Grand Prix della Giuria al 62º Festival di Cannes e vincitore di ben nove César - il cineasta e sceneggiatore francese non teme il cambiamento, al contrario azzarda una brusca variazione di registro rispetto all’universo concentrazionario e prettamente maschile della pellicola precedente. Si tratta di una sterzata che non coinvolge soltanto l’aspetto esteriore (nomadismo anziché reclusione, spazi aperti anziché luoghi di detenzione, presenza di personaggi femminili anziché esclusività virile) o il genere cinematografico di riferimento (mélo vs carcerario), ma interessa anche uno strato più profondo del film. Se finora Audiard, pur in misura diversa, aveva raccontato la storia di individui che, messi con le spalle al muro da eventi fortuiti, scoprivano o esaltavano un talento sconosciuto o sopito, con De rouille et d’os rinuncia a questa dinamica eminentemente maieutica per aprirsi alla libertà dell’occasione. Per quanto vincolanti e immobilizzanti, le circostanze non rappresentano più condizioni assolute che costringono l’individuo-camaleonte a reinventarsi, ma costituiscono occasioni che il soggetto può cogliere per ridefinire se stesso, per riscriversi (si pensi ai tatuaggi sulle cosce di Stéphanie) nonostante le mutilazioni o i traumi subiti.

Del resto è lo stesso metodo di adattamento ad assumersi i rischi della libertà compositiva, a sposare il principio costruttivo dell’episodicità. Audiard e Thomas Bidegain (già cosceneggiatore di Un prophète) prendono la raccolta di Davidson come un giacimento di opportunità e, prelevando frammenti dai racconti “Rocket Ride” e “Rust and Bone”, ricombinano il materiale di partenza impiegando il sentimento amoroso come elemento coesivo. “Se mettessimo una storia d’amore in questo universo di declassati, di crisi?”: è questa la domanda decisiva che si sono posti Audiard e Bidegain per concepire un film che nasce come antidoto alla claustrofobia virile di Un prophète e si interroga sulla forma adatta a rappresentare un universo in cui gli ultimi residui di umanità sopravvivono in personaggi che si nutrono di cibo gettato nella pattumiera o si riducono a corpi maciullati (a proposito di questo legame di fondo tra precarietà e contesto storico, Audiard ha tirato in ballo pellicole americane degli anni ’30 e ’40 quali Freaks di Browning e La fiera delle illusioni di Goulding). Non è affatto fortuito che le prime parole pronunciate dal piccolo Sam (Armand Verdure) siano “Ho fame, ho fame!”: la tela di fondo di Un sapore di ruggine e ossa gronda di riferimenti alle difficoltà economiche dei personaggi (il licenziamento della sorella di Ali, il tentativo fallito di Richard di mettersi in proprio come trasportatore…).

Ricavare una forma dal caos, accentuare le differenze di luminosità e temperatura drammatica tra le sequenze, costruire i personaggi per frammenti che finiscono per ricomporsi: sono questi partiti presi a tracciare le linee guida del film, sia nell’andatura narrativa deliberatamente rapsodica ed ellittica che nella sintassi visiva marcatamente accidentata e sgrammaticata. “Abbiamo voluto un film di contrasti”, afferma il direttore della fotografia Stéphane Fontaine (alla terza collaborazione con Audiard dopo Tutti i battiti del mio cuore e Il profeta). E aggiunge: “Il film va in tutti i sensi. C’è una specie di accompagnamento costante. Sono delle persone a pezzi che si ricostruiscono gradualmente e l’immagine accompagna questi movimenti”. Un percorso di riconfigurazione che investe sia i personaggi rappresentati che lo statuto attoriale dei due protagonisti. Alla lettera nel caso di Stéphanie/Marion Cotillard, in un’operazione di impressionante mutilazione (calze verdi sul set cancellate in postproduzione) satura di risvolti spettacolari: non è solo il personaggio di Stéphanie, la bella arrogante, a perdere le gambe ma anche l’icona Cotillard. La star cade dal suo piedistallo. Metaforicamente per Ali/Matthias Schoenaerts, in un processo di umanizzazione che prende le mosse da Bullhead (2011) di Michael R. Roskam (nel quale Schoenaerts interpreta una figura dai forti tratti bovini) per ridisegnarlo umanamente, per renderlo qualcosa di diverso da un semplice ammasso di carne gonfiata con estrogeni e ormoni steroidei.

Croce e delizia del film, questa estrema consapevolezza progettuale seduce e soffoca al tempo stesso. Cesellatissimo perfino nelle imperfezioni e nell’impianto eccentrico, Un sapore di ruggine e ossa sagoma i cliché e gli stereotipi del dramma sentimentale in modo talvolta quiescente (Ali capisce che cosa significa essere padre solo quando rischia di perdere il figlio), talaltra magniloquente (Stéphanie scende dal furgoncino in slow motion e Ali trova le forze per battere l’avversario). Sono tuttavia pressoché onnipresenti i segni di un’enfasi calcolata (i ralenti durante le evoluzioni delle orche prima dell’incidente), di un abbandono smaliziato (la sequenza di sesso senza baci sulla bocca) e di un patetismo smorzato (la caduta fuori fuoco di Sam nel lago) che impediscono al film di trasfigurare le convenzioni del mélo in discorso emotivamente rigenerato. Le rare volte che questo piccolo miracolo si avvera coincidono coi momenti in cui la pellicola si concede senza remore e formule cautelative alla retorica melodrammatica (la telefonata finale in ospedale) o alla rievocazione spudoratamente pacchiana (Stéphanie che mima gli ordini dati alle orche mentre “Firework” invade lo spazio sonoro con oscena, oltraggiosa efficacia).

Detto altrimenti, De rouille et d’os soffre spesso il regime della libertà vigilata (si pensi agli incastri forzati: Ali fa jogging mentre gli sfrecciano accanto le ambulanze che si recano a soccorrere Stéphanie), delle corrispondenze interne a scoppio ritardato (la bocca spalancata dell’orca che richiama l’incidente, il dente di Ali che richiama i denti dell’orca…) e, se è lecito spingersi a tanto, di una condiscendenza per la tecnica tutto sommato piuttosto stucchevole (difficile, per chi scrive, non sospettare che il profluvio di ralenti sia legato alla prodigiosa facilità con cui la camera Red Epic riesce a girare a 120 e 300 fotogrammi al secondo). Ma, al netto dei supposti limiti, il sesto lungometraggio di Jacques Audiard ci consegna l’ennesima prova di un cineasta di cristallina sensibilità audiovisiva (da “Wash” di Bon Iver al Trentemøller remix della springsteeniana “State Trooper” passando per “Love Shack” dei B-52’s, non vi è scelta musicale pretestuosa o decorativa), animato da un’inesausta tensione esplorativa e tutt’altro che disposto a imbalsamare il suo cinema nel sarcofago del successo.

Recensione pubblicata su www.spietati.it.


martedì 25 settembre 2012

Coen Brothers

 Più di due anni fa, recensendo il volume dedicato a Malick, definivo la pubblicazione Moviement una notevole sorpresa nel campo dell’editoria cinematografica, mettendone in rilievo l’eccellenza dei contenuti e la produttività dell’approccio multidisciplinare. Ebbene, oggi la collana è giunta al settimo titolo, ha svariati progetti in cantiere (imminente l’uscita di un nuovo volume) e da sorpresa si è trasformata in evidenza, confermando di numero in numero (Kira Muratova, Horror Made in Italy, Quentin Tarantino, Jan Švankmajer) la qualità degli approfondimenti e l’ampiezza di vedute metodologiche su autori e generi presi in esame.
Come di consueto, il volume Coen Brothers è aperto da Costanzo Antermite e Gemma Lanzo con un Editoriale che, oltre a tracciare sinteticamente le coordinate critiche del numero, precisa efficacemente il movimento interno del cinema dei Coen. Un cinema inizialmente basato su premesse noir, ma che nel corso del tempo “ha allargato via via i propri orizzonti tematici operando nel corpus dei generi cinematografici tradizionali quella ‘decostruzione narrativa’ che, senza imparentarla più di tanto alla moda filosofica del ‘postmoderno’, è stata il loro più evidente marchio di fabbrica”.

Il saggio Joel e Ethan Coen di Paul Coughlin, già apparso su “Senses of Cinema” nel 2003, prende le mosse dalla constatazione che “I Coen sono attratti da due modelli espressivi apparentemente incompatibili: il regionalismo etnografico e la costruzione artificiale”. A partire da questo assunto, Coughlin ripercorre la vicenda biografico-cinematografica dei due fratelli del Minnesota evidenziandone i tratti distintivi (l’interesse per il linguaggio, l’attenzione al localismo, il sovvertimento delle convenzioni di genere, l’esibizione dei processi di costruzione testuale) e valorizzandone il portato sarcasticamente provocatorio: “I fratelli Coen conoscono benissimo il cinema, lo conoscono abbastanza da ravvisarne le idee alla base dei suoi procedimenti e da trovare i valori che tali sistemi hanno progettato e sostenuto”.

In Bloody Coen, buon sangue (non) mente, scritto da me medesimo, ho circoscritto l’analisi alla produzione coeniana di matrice noir (Blood Simple - Sangue facile, Crocevia della morte, Fargo, L’uomo che non c’era e Non è un paese per vecchi) con brevi cenni ai titoli che col crime movie intrattengono un dialogo più o meno episodico o dissimulato (Barton Fink, Il grande Lebowski). Seguendo la scia di sangue che attraversa le pellicole nere dei Coen, nei rivoli di questo fil rouge ho rintracciato un progressivo svuotamento di senso che ha trascinato con sé la concezione coeniana del genere dal gusto per l’inganno alla contemplazione dell’assurdità. Per sfociare infine, col noir terminale No Country for Old Men, in inarginabile nichilismo.

Non è un paese per vecchi e la filosofia morale di Douglas McFarland - già pubblicato nel volume curato nel 2009 da Mark T. Conrad The Philosophy of the Coen Brothers - focalizza l’attenzione sulle implicazioni etiche deducibili dai comportamenti dei personaggi principali. Se le azioni dello sceriffo Ed Tom Bell (Tommy Lee Jones) lo collocano in una difficile situazione post-kantiana, ovvero in una condizione altalenante tra il rispetto della legge come imperativo morale e il giudizio della propria condotta alla luce dei risultati ottenuti, quelle di Llewelyn (Josh Brolin) sembrano inizialmente designarlo come un eroe esistenziale che tenta di creare un significato autonomo in un mondo senza significato, ma successivamente lo connotano come un eroe tragico kierkegaardiano (“incapace di sospendere la decisione etica per affermare il proprio insieme di significati in un contesto che sembra assurdo”). La riflessione di McFarland si appunta poi sulle figura di Chigurh (Javier Bardem), definito “uomo paradossale”, e sulla riluttanza finale di Carla Jean (Kelly MacDonald) ad assecondare il perverso lancio della monetina, insistendo sulla responsabilità soggettiva di Chigurh e restituendo così alle circostanze il giudizio morale.

Gemma Lanzo, con Commedia alla Coen, scandaglia i fondali della produzione beffardamente umoristica dei Coen, rinvenendo nei meccanismi della screwball e della sophisticated comedy alcuni procedimenti (dialoghi accelerati, situazioni ingarbugliate, fraintendimenti e disavventure) da loro liberamente e felicemente reinterpretati. Individuando in Preston Sturges il maggiore referente classico (“Fratello, dove sei? è proprio un omaggio al film-manifesto di Sturges I dimenticati”) e rifacendosi all’osservazione di Kierkegaard sul comico come rappresentazione delle contraddizioni non mediate della condizione umana, il saggio mette in luce la comicità latente che impregna l’intera filmografia coeniana. Una comicità che, articolandosi sulla relazione causa-effetto scatenata dai comportamenti involontari dei personaggi e sul contrasto tra mondi completamente diversi, propone un punto di vista teso a “sdrammatizzare l’ineluttabilità della condizione umana e dei suoi risvolti”.

Dopo il personale intervento di David Del Valle Drugo, dov’è il mio tappeto?, affettuosa rievocazione che definisce Il grande Lebowski un “noir losangelino postmoderno” nonché il capolavoro dei fratelli Coen, Elena Dagrada e Gabriele Gimmelli si addentrano - con Il tempo ci sfugge. A proposito de “Il Grinta” - nell’analisi del quindicesimo lungometraggio coeniano. Rilevato lo svarione di alcuni commentatori che hanno definito la pellicola un remake dell’omonimo western del 1969 di Henry Hathaway e ristabilita la corretta prospettiva critica (un’altra versione cinematografica del romanzo del 1968 True Grit di Charles Portis), Dagrada e Gimmelli si insinuano agilmente negli ingranaggi testuali e intertestuali. Muovendo dalla fondamentale e tipica operazione di svuotamento/riempimento effettuata dai Coen sul genere frequentato, la loro analisi si spinge nelle pieghe del film mostrando come “gli aspetti più interessanti (…) sono forse quelli meno tipici dei nostri autori”: la netta oscillazione tra visione crudamente oggettiva e deformazione fortemente soggettiva, la rimarchevole/rimarcata età della giovane protagonista e l’inedito avvicinamento dei fratelli Coen al racconto di formazione. Infine l’indagine si allarga di nuovo per porre l’accento sulle suggestive assonanze con La morte corre sul fiume (1955) di Charles Laughton e per inquadrare l’ambientazione baracconesca del Wild West Show conclusivo nell’ottica complessiva di un film che “guarda meno al western classico di Ford (…) di quanto non affondi lo sguardo dentro gli spettacoli di Buffalo Bill”.

Completano il volume due vivaci interviste (Gli angeli custodi dei fratelli Coen di Alex Simon e I fratelli Coen parlano de “Il Grinta” di Cole Haddison), un gustoso florilegio di citazioni, una snella filmografia e una mirata bibliografia (cui segue l’elenco delle edizioni in Dvd). 

Recensione pubblicata su www.spietati.it

venerdì 21 settembre 2012

PIETÀ


Kang-do, scagnozzo di un boss che concede prestiti a usura con vertiginosi tassi d’interesse, ha un metodo tutto suo per riscuotere i crediti: rende invalidi i debitori per intascare il milionario indennizzo dell’assicurazione. La sua cruenta routine è però scombussolata da un evento del tutto inaspettato: gli si para dinanzi una donna di mezza età sostenendo di essere sua madre. Dapprima respingente e profondamente diffidente, giorno dopo giorno Kang-do si persuade che la donna pentita e servizievole sia davvero sua madre.
È indubbio che in qualità di parabola, ossia di racconto esemplare/paradigmatico, Pietà risulti in gran parte riuscito. La critica al conflittuale ‘denarocentrismo’ (“Cosa sono i soldi? L’inizio e la fine di tutte le cose”) della società sudcoreana e per estensione di tutte le realtà economicamente e criticamente sviluppate, seppur di natura semplicistica e tutto sommato incompleta, possiede una centralità indiscutibile. Non suona dunque come trascurabile civetteria autoriale l’affermazione di Kim Ki-duk a proposito del denaro quale terzo personaggio del suo diciottesimo lungometraggio: l’impietoso esattore Kang-do (Lee Jung-jin) non fa che estremizzare e imbarbarire quella logica economica che, in forme socialmente legittimate, persegue i debitori insolventi fino a metterne a repentaglio la sopravvivenza. A dire il vero l’esponente creditizio è addirittura al cubo: il prestito a usura ne rappresenta già un’elevazione al quadrato e il fratturante sistema di riscossione escogitato da Kang-do ne costituisce un’addizione esponenziale (il suo boss giunge persino a rimproverargli l’eccessiva ferocia, chiamandolo ‘macellaio’).

L’implacabilità di Kang-do, che respinge le accuse dei debitori rinfacciando loro di aver chiesto soldi in prestito sapendo di non poterli restituire, altro non è che l’inattaccabile e schiacciante logica del capitale: ecco che cosa, a chiare lettere, dice Pietà. Kang-do è personaggio emblematico, insomma, così come emblematica appare la figura femminile di Mi-seon (Cho Min-soo): è forse il caso di ricordare che nella cinematografia coreana i soggetti femminili recano nel loro corpo un’analogia con l’intera nazione (è il profilo geografico della penisola, tra le altre cose, ad aver in qualche modo suggerito e incentivato l’assimilazione tra figura femminile e identità nazionale). Sicché, di allegoria in analogia, Pietà sviluppa un discorso tutt’altro che inedito o ideologicamente stratificato (il progetto punitivo non abbandona mai i confini della prospettiva individuale per farsi coscienza dialettica), ma non per questo rinuncia a sostanziarlo drammaticamente e oggettivarlo cinematograficamente. In altri termini, non basta dire che il cinema di Kim ha già affrontato tematiche e dinamiche affini con esiti migliori (Bad Guy e Address Unknown sono i primi titoli che vengono in mente), ma occorre osservare concretamente ciò che è cambiato rispetto ai film degli esordi.

Nel corso degli anni - indicativamente tra Samaria, Primavera… e Ferro 3 - Kim è andato smaterializzando il suo cinema, letteralmente ‘disincarnandolo’ (si veda proprio Ferro 3) e tramutandolo in un gigantesco contenitore di simboli privi di base materiale e non necessitati dal punto di vista narrativo (sprovvisti cioè di quella che Jean Mitry chiama ‘logica di implicazione’, processo di arricchimento semantico che si attualizza nel corso del film). È convinzione di chi scrive, dunque opinabilissima, che solo il ricorso a una sorta di pensiero magico sia in grado di restituire a questo repertorio autoreferenziale le proprietà espressive necessarie all’articolazione di un dialogo con lo spettatore, sia pur su basi squisitamente poetiche. Non si tratta di immagini o situazioni chiave che condensano, come il nucleo incandescente di una sfera, il senso disseminato e riflesso per lampi in tutto il testo (cosa che, al contrario, succedeva in Address Unknown, dove un corpo conficcato nel terreno esprimeva fisicamente la lacerazione serpeggiante nell’intero film), ma di simboli araldici, blasoni di rappresentanza che attestano la nobiltà del titolo.

Con Arirang, videoconfessione che mescola autocommiserazione, narcisismo e arroganza addobbata di rinunce, qualcosa è effettivamente cambiato. Pur prescindendo dalla visione di Amen, lavoro che, stando alle poche immagini e notizie in circolazione, si candida a operatore di passaggio tra il minimale solipsismo di Arirang e la rinnovata vitalità di Pietà, il film vincitore del Leone d’Oro presenta numerosi elementi di rigenerazione cinematografica. Sarebbe troppo facile affermare che Kim è tornato alle origini, a un cinema di stordente violenza e lacerante dolcezza: l’esperienza maturata nel frattempo, associata alla visibilità internazionale, ha profondamente spostato le coordinate della sua poetica. Eppure nell’uso istintivo e convulso della camera digitale s’indovina il tentativo di ridisegnare un’estetica barbara, ancorata alla materialità delle cose. Lo stesso timbro cromatico-luministico delle immagini, di una cupezza opprimente che si schiarisce episodicamente in abbacinante candore (soprattutto nel prefinale), segna una brusca inversione di marcia rispetto alle tavolozze tenui o sgargianti delle pellicole precedenti, riversando la livida oscurità di Arirang su una tela nuovamente solida e resistente agli strappi sintattici.

 Per quanto il tentativo di riallacciarsi all’estetica dei film degli esordi (da Crocodile a The Coast Guard per intenderci) trovi riscontro anche nella rappresentazione del quartiere residuale e fatiscente di Cheonggyecheon dove il giovane Kim ha lavorato come operaio, lo slancio rigenerativo di Pietà deve tuttavia fare i conti col precipitato del periodo calligrafico (da Ferro 3 a Dream, con Primavera… e La samaritana a fare da titoli di transizione). Sotto l’opaco involucro digitale si intravede insomma un’artificiosità drammaturgica scaltramente ammiccante (la revisione del film in questo senso è determinante): dialoghi programmatici e capziosi (l’elencazione in crescendo sui significati del denaro), parabola espiatoria (la disperante via crucis di Kang-do), costruzione narrativa a sorpresa (illustrata esplicitamente allo spettatore in una situazione di stridente inverosimiglianza). Ancora: il personaggio di Mi-seon opera da auctrix/spectatrix in fabula (oltre a manipolare e dirigere Kang-do, ne osserva scrupolosamente le reazioni), il maglione preparato all’uncinetto funge da correlativo oggettivo del progredire della trama vendicativa (non solo la accompagna, ma la porta metonimicamente a compimento), i rari riflessi della donna sull’acquario nell’appartamento di Kang-do alludono alla doppiezza della sedicente madre (doppiezza che l’ultimo terzo di film si premurerà di sfrondare da ogni ambiguità).

Infine la camera saetta zoom e si agita convulsamente in corrispondenza dei momenti di maggiore tensione o delle esplosioni di violenza, una violenza relegata tatticamente e sistematicamente fuori campo con stacchi calcolati ed ellissi grafiche (particolare su una punta ruotante di acciaio, stacco sul pavimento irrigato di sangue). Stilizzazione, ovvero caricatura dello stile: leggibile, convenzionale e facilmente apprezzabile/riconoscibile. Persino l’epilogo, in cui Kim ritrova la potenza visiva primigenia, viene sovraccaricato da un implorante e sublimante Kyrie che ne attutisce sonoramente l’incidenza espressiva. Alla luce di ciò, non sorprende più di tanto l’affermazione veneziana di Pietà: nel migliore dei mondi possibili La cinquième saison di Peter Brosens e Jessica Woodworth si sarebbe aggiudicato il Leone d’Oro all’unanimità. In questo il maggior riconoscimento va a una pellicola interlocutoria che, pur dicendoci di una poetica non più totalmente schiava di un simbolismo evanescente e parzialmente ricondotta alla dimensione concreta, costituisce un film di passaggio e non un punto d’arrivo.

Recensione pubblicata su www.spietati.it

lunedì 10 settembre 2012

Film dell'anno 2011-2012

Ripartiti per coppie rigorosamente arbitrarie, i miei film della stagione 2011-2012. Gli ultimi due non mi parevano assimilabili, sicché li ho lasciati così, liberi e scoppiati.
 

Drive/Faust: due pellicole che, a latitudini e temperature drammatiche pressoché opposte, affermano il potere mitopoietico del cinema. Refn sublima il noir metropolitano d’impronta anni ’80 innestandolo su una struttura fiabesca. Sokurov trasfigura la parabola mefistofelica di ascendenza letteraria scaraventandola nel pantano del grottesco. In Drive il cinema feticizza la nobiltà d’animo dell’eroe, in Faust magnifica il sordo ribollire del caos.



Melancholia/Take Shelter: i due volti della catastrofe. Von Trier ne mostra l’aspetto esteriore, il profilo misurabile; Nichols ne materializza il risvolto interiore, l’angoscia imponderabile. Nel primo uno stato d’animo si fa pianeta, nel secondo un cataclisma si fa stato mentale.


C’era una volta in Anatolia/Le paludi della morte: Anatolia o Texas non fa differenza, quelli di Nuri Bilge Ceylan e Ami Canaan Mann sono polizieschi che si smarriscono, perdersi nelle relazioni e sfrangiarsi nelle trasformazioni è la loro vocazione. Dissezione della solitudine professionale (Ceylan), scomposizione della serialità omicida (Mann): nello smarrimento il nichilismo si converte in compassione, il cinismo in adesione.

Polisse/La guerra è dichiarata: non film sulla pedofilia e la malattia ma film sulla vitalità e la solidità, soggetti più rari di quanto sembri. Maïwenn Le Besco graffia il realismo quotidiano della Brigade de protection des mineurs con brucianti frizioni sentimentali, Valérie Donzelli intacca l’amour fou di Juliette e Roméo con sfibranti sedute chemioterapiche. Ma, in entrambi i casi, i colpi ricevuti non radono al suolo. Anzi. Polisse: “Voici venu le temps des rires et des chants/Dans l’île aux enfants”. La guerre est déclarée: “Face à l’immense épreuve qu’ils traversaient, ils sont restés solides. Détruits, certes, mais solides”.

Il buono, il matto e il cattivo : distribuito con tre anni di ritardo rispetto all’uscita in Corea, il film record di Kim Jee-woon (film sudcoreano più costoso fino al 2008, campione d’incassi dell’anno e vincitore di ben quattro Blue Dragon Awards) inverte la tendenza americanizzante che ha contraddistinto la stagione dei blockbuster sudcoreani a partire da Shiri (Kang Je-gyu, 1999). Non più un blockbuster che adotta il linguaggio hollywoodiano adattandolo alla sensibilità coreana, ma un film ad altissimo budget e vertiginosa densità spettacolare che mostra al mondo intero l’emancipazione linguistica del cinema nazionale.

A Dangerous Method : language is a virus.








Nel frattempo, altrove, il cinema canta e incanta.

Hors Satan, Dumont

L'Apollonide - Souvenirs de la maison close, Bonello 
Post tenebras lux, Reygadas

Killer Joe, Friedkin

Tyrannosaur, Considine

Livide, Bustillo & Maury
 
 
NOÉ(NTER): prova a prenderlo.