Kang-do, scagnozzo di un boss che concede prestiti a usura con
vertiginosi tassi d’interesse, ha un metodo tutto suo per riscuotere i
crediti: rende invalidi i debitori per intascare il milionario
indennizzo dell’assicurazione. La sua cruenta routine è però
scombussolata da un evento del tutto inaspettato: gli si para dinanzi
una donna di mezza età sostenendo di essere sua madre. Dapprima
respingente e profondamente diffidente, giorno dopo giorno Kang-do si
persuade che la donna pentita e servizievole sia davvero sua madre.
È indubbio che in qualità di parabola, ossia di racconto esemplare/paradigmatico, Pietà
risulti in gran parte riuscito. La critica al conflittuale
‘denarocentrismo’ (“Cosa sono i soldi? L’inizio e la fine di tutte le
cose”) della società sudcoreana e per estensione di tutte le realtà
economicamente e criticamente sviluppate, seppur di natura semplicistica
e tutto sommato incompleta, possiede una centralità indiscutibile. Non
suona dunque come trascurabile civetteria autoriale l’affermazione di
Kim Ki-duk a proposito del denaro quale terzo personaggio del suo
diciottesimo lungometraggio: l’impietoso esattore Kang-do (Lee Jung-jin)
non fa che estremizzare e imbarbarire quella logica economica che, in
forme socialmente legittimate, persegue i debitori insolventi fino a
metterne a repentaglio la sopravvivenza. A dire il vero l’esponente
creditizio è addirittura al cubo: il prestito a usura ne rappresenta già
un’elevazione al quadrato e il fratturante sistema di riscossione
escogitato da Kang-do ne costituisce un’addizione esponenziale (il suo
boss giunge persino a rimproverargli l’eccessiva ferocia, chiamandolo
‘macellaio’).
L’implacabilità
di Kang-do, che respinge le accuse dei debitori rinfacciando loro di
aver chiesto soldi in prestito sapendo di non poterli restituire, altro
non è che l’inattaccabile e schiacciante logica del capitale: ecco che
cosa, a chiare lettere, dice Pietà. Kang-do è
personaggio emblematico, insomma, così come emblematica appare la figura
femminile di Mi-seon (Cho Min-soo): è forse il caso di ricordare che
nella cinematografia coreana i soggetti femminili recano nel loro corpo
un’analogia con l’intera nazione (è il profilo geografico della
penisola, tra le altre cose, ad aver in qualche modo suggerito e
incentivato l’assimilazione tra figura femminile e identità nazionale).
Sicché, di allegoria in analogia, Pietà sviluppa un
discorso tutt’altro che inedito o ideologicamente stratificato (il
progetto punitivo non abbandona mai i confini della prospettiva
individuale per farsi coscienza dialettica), ma non per questo rinuncia a
sostanziarlo drammaticamente e oggettivarlo cinematograficamente. In
altri termini, non basta dire che il cinema di Kim ha già affrontato
tematiche e dinamiche affini con esiti migliori (Bad Guy e Address Unknown sono i primi titoli che vengono in mente), ma occorre osservare concretamente ciò che è cambiato rispetto ai film degli esordi.
Nel corso degli anni - indicativamente tra Samaria, Primavera… e Ferro 3 - Kim è andato smaterializzando il suo cinema, letteralmente ‘disincarnandolo’ (si veda proprio Ferro 3)
e tramutandolo in un gigantesco contenitore di simboli privi di base
materiale e non necessitati dal punto di vista narrativo (sprovvisti
cioè di quella che Jean Mitry chiama ‘logica di implicazione’, processo
di arricchimento semantico che si attualizza nel corso del film). È
convinzione di chi scrive, dunque opinabilissima, che solo il ricorso a
una sorta di pensiero magico sia in grado di restituire a questo
repertorio autoreferenziale le proprietà espressive necessarie
all’articolazione di un dialogo con lo spettatore, sia pur su basi
squisitamente poetiche. Non si tratta di immagini o situazioni chiave
che condensano, come il nucleo incandescente di una sfera, il senso
disseminato e riflesso per lampi in tutto il testo (cosa che, al
contrario, succedeva in Address Unknown, dove un corpo
conficcato nel terreno esprimeva fisicamente la lacerazione serpeggiante
nell’intero film), ma di simboli araldici, blasoni di rappresentanza
che attestano la nobiltà del titolo.
Con Arirang,
videoconfessione che mescola autocommiserazione, narcisismo e arroganza
addobbata di rinunce, qualcosa è effettivamente cambiato. Pur
prescindendo dalla visione di Amen, lavoro che, stando
alle poche immagini e notizie in circolazione, si candida a operatore di
passaggio tra il minimale solipsismo di Arirang e la rinnovata vitalità di Pietà,
il film vincitore del Leone d’Oro presenta numerosi elementi di
rigenerazione cinematografica. Sarebbe troppo facile affermare che Kim è
tornato alle origini, a un cinema di stordente violenza e lacerante
dolcezza: l’esperienza maturata nel frattempo, associata alla visibilità
internazionale, ha profondamente spostato le coordinate della sua
poetica. Eppure nell’uso istintivo e convulso della camera digitale
s’indovina il tentativo di ridisegnare un’estetica barbara, ancorata
alla materialità delle cose. Lo stesso timbro cromatico-luministico
delle immagini, di una cupezza opprimente che si schiarisce
episodicamente in abbacinante candore (soprattutto nel prefinale), segna
una brusca inversione di marcia rispetto alle tavolozze tenui o
sgargianti delle pellicole precedenti, riversando la livida oscurità di Arirang su una tela nuovamente solida e resistente agli strappi sintattici.
Per quanto il tentativo di riallacciarsi all’estetica dei film degli esordi (da Crocodile a The Coast Guard
per intenderci) trovi riscontro anche nella rappresentazione del
quartiere residuale e fatiscente di Cheonggyecheon dove il giovane Kim
ha lavorato come operaio, lo slancio rigenerativo di Pietà deve tuttavia fare i conti col precipitato del periodo calligrafico (da Ferro 3 a Dream, con Primavera… e La samaritana
a fare da titoli di transizione). Sotto l’opaco involucro digitale si
intravede insomma un’artificiosità drammaturgica scaltramente ammiccante
(la revisione del film in questo senso è determinante): dialoghi
programmatici e capziosi (l’elencazione in crescendo sui significati del
denaro), parabola espiatoria (la disperante via crucis di Kang-do),
costruzione narrativa a sorpresa (illustrata esplicitamente allo
spettatore in una situazione di stridente inverosimiglianza). Ancora: il
personaggio di Mi-seon opera da auctrix/spectatrix in fabula
(oltre a manipolare e dirigere Kang-do, ne osserva scrupolosamente le
reazioni), il maglione preparato all’uncinetto funge da correlativo
oggettivo del progredire della trama vendicativa (non solo la
accompagna, ma la porta metonimicamente a compimento), i rari riflessi
della donna sull’acquario nell’appartamento di Kang-do alludono alla
doppiezza della sedicente madre (doppiezza che l’ultimo terzo di film si
premurerà di sfrondare da ogni ambiguità).
Infine
la camera saetta zoom e si agita convulsamente in corrispondenza dei
momenti di maggiore tensione o delle esplosioni di violenza, una
violenza relegata tatticamente e sistematicamente fuori campo con
stacchi calcolati ed ellissi grafiche (particolare su una punta ruotante
di acciaio, stacco sul pavimento irrigato di sangue). Stilizzazione,
ovvero caricatura dello stile: leggibile, convenzionale e facilmente
apprezzabile/riconoscibile. Persino l’epilogo, in cui Kim ritrova la
potenza visiva primigenia, viene sovraccaricato da un implorante e
sublimante Kyrie che ne attutisce sonoramente l’incidenza espressiva. Alla luce di ciò, non sorprende più di tanto l’affermazione veneziana di Pietà: nel migliore dei mondi possibili La cinquième saison
di Peter Brosens e Jessica Woodworth si sarebbe aggiudicato il Leone
d’Oro all’unanimità. In questo il maggior riconoscimento va a una
pellicola interlocutoria che, pur dicendoci di una poetica non più
totalmente schiava di un simbolismo evanescente e parzialmente
ricondotta alla dimensione concreta, costituisce un film di passaggio e
non un punto d’arrivo.
Recensione pubblicata su www.spietati.it
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