venerdì 26 ottobre 2012

COGAN - KILLING THEM SOFTLY

New Orleans, poco prima delle elezioni presidenziali del 2008. Frankie, un piccolo criminale appena uscito dal carcere, viene coinvolto nel piano ideato da Johnny Amato: rapinare una partita di poker organizzata da Markie Trattman. Per mettere a segno il colpo occorre un terzo uomo e Frankie recluta Russell, un avanzo di galera australiano che si guadagna da vivere rubando cani di razza. La rapina fila liscia, ma il giro delle bische clandestine si ferma improvvisamente con grande perdita di denaro. Per il bene dell’economia locale, l’organizzazione mafiosa che controlla il territorio si rivolge a Jackie Cogan: dovrà scovare i responsabili e ripristinare l’ordine.

Due avvertenze preliminari:
1- Affrontare la lettura di una recensione così smisurata senza aspettarsi degli spoiler sarebbe semplicemente irragionevole. Se lo fate la responsabilità è vostra, noi vi abbiamo avvertito.
2- Quanto il doppiaggio appiattisca il tessuto linguistico del film può risultare chiaro con un solo esempio: durante la rapina Russell non dice una parola, poiché se parlasse tradirebbe le sue origini australiane.

 

The Friends of George V. Higgins

“The fuck, you look like you just got out of jail or something”: queste sono pressappoco le prime parole pronunciate da Johnny Amato nel romanzo Cogan’s Trade (1974) di George V. Higgins, già autore di The Friends of Eddie Coyle (1970), grigio e stradisilluso noir bostoniano portato sullo schermo da Peter Yates nel 1973 con un Robert Mitchum segnatissimo nei panni di Eddie e un Peter Boyle ultraviscido in quelli del barman-killer Dillon. L’universo letterario di Higgins è impregnato di conoscenza diretta dello slang, delle personalità e delle dinamiche criminali: una conoscenza derivante dalla professione di procuratore distrettuale a Boston che marchia a fuoco il suo stile e la sua prospettiva narrativa. Higgins se ne sbatte del folklore e dell’alone leggendario che circonda l’underworld, a tenere banco nei suoi romanzi sono figure di piccoli malavitosi incastrati in traffici più grandi di loro, reietti o marginali che vorrebbero tirarsi fuori dai guai ma che non possiedono né la lungimiranza né l’astuzia per riuscirci. Né eroi né antieroi, insomma, ma personaggi tragicomici, meschini e confusi come qualsiasi common man catapultato nelle medesime circostanze. Solamente più sboccati, sbroccati e logorroici: il loro deficit d’intelligenza si accompagna a un surplus di eloquenza che tradisce la loro insipienza e i loro maneggi, mettendoli nei pasticci per eccesso di sbruffoneria o difetto di prudenza.

E i dialoghi higginsiani, autentici esercizi di mimetismo stilistico (“I don’t Know” si contrae spesso in “I dunno” e “What do you mean?” in “Whaddaya mean?”, giusto per fare un paio di esempi comprensibili), non solo ricalcano fedelmente il parlato malavitoso riproducendone la propensione al turpiloquio ininterrotto, ma dilatano a dismisura l’incontinenza verbale dei personaggi sommergendo l’azione in una loquacità letteralmente straripante. Risultato: l’esposizione dialogica si sostituisce agli eventi o li prefigura/rivisita da angolazioni diverse. Ed è precisamente l’angolo di osservazione (“You got to think of a different angle”, dice Amato a Frankie immediatamente prima di proporgli il colpo) a costituire il propulsore narrativo di Cogan’s Trade: l’“idea” (è con questo termine che la versione italiana del romanzo traduce “angle”) di Johnny consiste nel prevedere le reazioni del milieu alla rapina nella bisca di Trattman (“Keep in mind, I Know how these guys think”, lo rassicura Amato). Di fatto questo massimalismo dialogico, oltre a soffocare le potenzialità cinetiche della crime fiction, sposta l’asse della narrazione verso coordinate soggettive se non apertamente mentali. Pagina dopo pagina, si fa sempre più chiaro che la vera posta in palio non è la riuscita del colpo o la felicità dei personaggi ma l’affermazione di un punto di vista dominante, di un’angolazione reggente: “I see what you mean, the public angle”, riconosce l’autista che fa da intermediario tra Cogan e i boss dell’organizzazione. È la questione del consenso il nodo cruciale del romanzo di Higgins, un consenso necessario al corretto funzionamento degli affari e vincolato a una campagna persuasiva basata più sulle parole che sulla violenza.

 

Oralità, economia, politica

Come Outrage di Kitano, Cogan - Killing Them Softly si colloca a un livello in cui la violenza agita si è sublimata (l’estetizzazione e la distanza con le quali si mettono in scena i pestaggi e le esecuzioni) e rimane a rappresentarne l’essenza crudele un’oralità diaccia ed esasperata. Come Outrage Beyond Cogan scarnifica l’intreccio per portarne alla luce il meccanismo nudo e crudo: coppie di personaggi che si parlano si susseguono senza svelamenti di carattere, puri ingranaggi che manifestano con chiarezza solo il posto che occupano nella struttura gerarchica malavitosa di cui sono parte (e di conseguenza nella costruzione drammatica), ma (quasi) mai ciò che sono (Frankie - Io non so chi cazzo sei! Cogan - Pochissimi lo sanno). È la riduzione del genere a puro congegno di causa ed effetto, il suo svuotamento e la sua ritraduzione  in una glaciale burocratizzazione della violenza, in un’arida ragioneria della morte: così ad ogni evento ne consegue un altro che ne porta ad un altro e così via. Tutto si deve compiere, l’unica tensione risiedendo nell’incertezza del se interverrà un elemento a distrarre dalla sua logica fine questa truce concatenazione, questo cruento stillicidio che procede attraverso la lenta, inesorabile decimazione delle figure in gioco.

La messa a nudo del congegno va di pari passo con l’esplicitazione della componente economico-politica racchiusa nel romanzo: in fase di adattamento Dominik si accorge che Cogan’s Trade racconta in filigrana la storia di una crisi economica, una crisi dovuta a uno scompenso nella regolamentazione di un’economia basata sul gioco d’azzardo e sull’accumulo di capitali. Una sorta di riproduzione in scala della situazione contemporanea. L’attualizzazione dagli anni ’70 alla vigilia delle elezioni presidenziali del 2008 procede dunque lungo un doppio binario: la crisi finanziaria da un lato e la creazione del consenso dall’altro, con l’ausilio del genere cinematografico a garantire l’attendibilità della radiografia (“Credo che i film sulla criminalità trattino del capitalismo, poiché [il crime movie] è il solo genere nel quale è perfettamente accettabile che tutti i personaggi siano motivati esclusivamente dal desiderio di denaro. E penso anche che, in qualche modo, sia il genere americano più onesto”: Andrew Dominik durante la conferenza stampa a Cannes). Detto altrimenti, gli squilibri della crisi economica vengono fronteggiati con la formula del consenso politico: ecco il significato dell’ambientazione in piena campagna elettorale (una delle prime inquadrature del film termina su due cartelloni di identica grandezza che ritraggono i candidati rivali Obama e McCain). Non conta il partito rappresentato o lo schieramento politico, ma il processo persuasivo in atto, il suo insinuarsi più o meno rumorosamente nello scenario di una realtà che sta andando in frantumi (New Orleans, una città sfasciata in quadri irriconoscibili e potenzialmente riferibili a qualsiasi periferia).

 

Screwball, Struttura Žižek

Eppure non sono i toni drammatici a imporsi: diversamente da Peter Yates, che ne Gli amici di Eddie Coyle aveva esasperato lo squallore e la meschinità del microcosmo malavitoso descritto da Higgins, Dominik pone l’accento sulla componente comico-grottesca che impregna i dialoghi higginsiani. Non si cada nell’equivoco di considerare tarantiniani i dialoghi di Cogan, sarebbe il malinteso più gigantesco in cui si potrebbe incappare. Higgins è il maestro riconosciuto di Elmore Leonard (“Higgins is my favorite. . . . No, he doesn’t learn from me, I learn from him”), che ha definito più volte The Friends of Eddie Coyle “il miglior romanzo criminale mai scritto” e ha dato alla protagonista di Rum Punch (1992) il nome di Jackie Brown, il personaggio che apre letteralmente il romanzo d’esordio del procuratore distrettuale di Boston (“Jackie Brown, di anni ventisei, senza alcuna espressione in viso, disse che era in grado di procurare delle armi”: questo l’incipit di Gli amici di Eddie Coyle). Rispettando alla lettera la drammaturgia higginsiana, Dominik non può che sfociare in territorio screwball comedy, insomma. Il continuo oscillare tra oscenità gergale, digressioni strampalate, violenza improvvisa e ordinarietà delle figure criminali appartiene interamente al patrimonio letterario di Higgins, Dominik non ha fatto altro che assecondarne la vena comico-realistica (chi ne dubita si procuri Gli amici di Eddie Coyle e, se ne è capace, legga il primo capitolo senza smascellarsi dalle risate).

Dove invece Dominik interviene massicciamente, pur non smantellando l’impianto del romanzo, è nell’assegnazione di valori psicoanalitici ai personaggi principali. Dissodato dal massimalismo dialogico di cui sopra, il terreno è particolarmente adatto ad accogliere una semina simile, dichiaratamente influenzata dalle riflessioni post-freudiane della filo-star Slavoj Žižek (si coglie l’occasione per suggerire la lettura del leggermente datato ma assai illuminante Introduzione a Žižek di Tony Myers, libretto divulgativo pubblicato nel 2003 ed edito recentemente in Italia da il Melangolo). Prendendo spunto dalla teoria esposta dal filosofo sloveno in The Pervert's Guide to Cinema (Sophie Fiennes, 2006), secondo la quale i tre fratelli Marx Groucho, Chico e Harpo rappresenterebbero tre aspetti di una sola personalità (rispettivamente Super-Io, Io ed Es), il cineasta e sceneggiatore neozelandese ha allestito un teatro psichico a sei personaggi riducibili a due personalità scomposte nelle rispettive triadi. Frankie (Scoot McNairy) incarna l’Io della prima, un Io alle prese da una parte con Russell (Ben Mendelsohn), il suo godereccio Es, e dall’altra con Johnny Amato (Vincent Curatola), l’esigente Super-Io. L’incipit del film, con Frankie che esce da un luogo completamente buio venendo letteralmente alla luce, è fin troppo eloquente: siamo in presenza di una nascita simbolica, assistiamo all’apparizione di un’entità dall’identità neonata e indefinita.

Analogamente, Jackie Cogan (Brad Pitt) rappresenta l’altro Io, stretto tra le pretese di un Super-Io portavoce dell’autorità (Richard Jenkins) e gli smodati appetiti erotico-alcolici di Mitch (James Gandolfini), un Es di pantagruelica insaziabilità. Anche l’entrata in scena di Jackie risulta gravida di connotazioni psicoanalitiche: Cogan si presenta come sostituto del ricoverato Dillon (Sam Shepard), suo mentore nonché uomo di fiducia dell’organizzazione. La sua comparsa avviene in concomitanza con la malattia del padre simbolico: Dillon è in ospedale e Jackie irrompe nella finzione quando il suo vecchio Super-Io si sta spegnendo. Proprio come Frankie, Cogan è un homo novus e a segnare la differenza tra i due è esattamente il modo in cui reagiscono alle pressioni dei rispettivi Es e Super-Io: Frankie tenta sciaguratamente di metterli d’accordo, mentre Jackie imprigiona l’Es ed esautora il suo nuovo Super-Io (persino nei piccoli gesti: ignora l’ingiunzione di Jenkins a non fumare in macchina), cavandosela egregiamente. Illustrata da Dominik stesso durante la conferenza stampa a Cannes (visibile su YouTube), questa dinamica non si esaurisce nell’applicazione della “Struttura Žižek” ai personaggi del romanzo, ma produce inoltre una modificazione del finale. Se in Cogan’s Trade Jackie si limita a prendere il posto di Dillon imponendo nuovi prezzi all’organizzazione (“Se capita una rogna, bene, vi serve una persona, qualcuno che sistema la situazione. Ho solo detto che d’ora in poi vi costerà di più. Punto.”), in Cogan - Killing Them Softly Jackie non fa sconti e vuole essere pagato fino all’ultimo dollaro, non c’è scusa che tenga. La differenza è di capitale importanza: il Cogan di Higgins prefigura l’avvento di una nuova generazione criminale più avida e spregiudicata, attirando su di sé la meschinità e la rapacità in circolazione. Il Cogan di Dominik, al contrario, non funge più da neocriminale parafulmine, ma, astenendosi tanto dal cieco edonismo quanto dalla remissiva obbedienza, propone un’esemplare e cinica strategia di sopravvivenza contemporanea.

 

Noir manierista

Indubbiamente il terzo lungometraggio di Dominik intrattiene legami col neonoir di fine anni ’60-prima metà anni ’70. Inevitabile il confronto con la più volte citata pellicola di Yates: la sequenza che precede la rapina di Frankie e Russell possiede un forte sapore yatesiano sia nel fraseggio dei campi/controcampi all’interno dell’abitacolo sia nell’inquadratura dall’alto - una gru - che accompagna l’arrivo della macchina nel parcheggio deserto (nel noir di Yates un’inquadratura dal taglio simile, anche se fissa, compare in uno dei momenti più tetri del film: l’abbandono di una Ford con un cadavere nel parcheggio di un bowling). Più in generale il film di Dominik presuppone costantemente quello di Yates, non soltanto poiché questo costituisce l’unico precedente di adattamento cinematografico higginsiano, ma soprattutto perché la molla che ha spinto il cineasta neozelandese a interessarsi a Higgins e leggere Cogan’s Trade è stata proprio la visione de Gli amici di Eddie Coyle. A un livello più superficiale si registra un’associazione audiovisiva con Il caso Thomas Crown (The Thomas Crown Affair, Norman Jewison, 1968): subito dopo il dialogo eroinico con Russell, Frankie si mette al volante terrorizzato da quanto il suo socio gli ha appena riferito, vale a dire che sulla loro testa pende una condanna a morte. Il brano musicale che accompagna l’angoscioso tragitto di Frankie è The Windmills of Your Mind (celeberrimo leitmotiv del film di Jewison) nella versione di Petula Clark: sullo schermo si materializza uno split-screen diegetico (lo specchietto retrovisore si ritaglia uno spazio visivo autonomo all’interno dell’inquadratura) in una sorta di omaggio estemporaneo alla pellicola jewisoniana, campionessa mondiale della specialità split-screen.

Spingendosi più in profondità e non senza una certa audacia, si incontrano passaggi fotografici che collegano gli scatti cadaverici di Weegee (Naked City, 1945) a quelli obitoriali di Andres Serrano (The Morgue, 1991): dal crudo realismo dell’esecuzione di Amato al dolciastro iperrealismo dell’inserimento nei loculi di Johnny e Frankie (avvolto dalla versione flautata di It’s Only a Paper Moon di Cliff “Ukulele Ike” Edwards). Ma a uno strato ancora più profondo e generativo Cogan è geneticamente imparentato ai noir manieristi di fine anni ’50-primi anni ’60: crime movies che mischiano furiosamente sfondo sociale, alienazione metropolitana e sperimentazione formale. Pellicole come Assassinio per contratto (Murder by Contract, Irving Lerner, 1958), La vendetta del gangster (Underworld U.S.A., Samuel Fuller, 1961) o Cronaca di un assassinio (Blast of Silence, Allen Baron, 1961): noir che, fotografando i nuovi assetti della criminalità organizzata, scavano all’interno delle personalità omicide e prediligono le esibite variazioni di tonalità espressiva all’uniformità drammatica del genere classicamente declinato. Sono le clamorose identificazioni tra criminalità e capitalismo, le commistioni tra tragico e grottesco e le ricercatezze estetiche spudoratamente virtuosistiche a renderli testimonianze di un’innocenza perduta per sempre. Ed è esattamente questo che fa Dominik in Cogan: identifica America e Business, amalgama noir e commedia e trasfigura l’omicidio di Markie (Ray Liotta) in una cullante ninnananna sulle note di Love Letters di Kitty Lester. Cogan - Killing Them Softly è un film immenso, di grottesca, imperiale decadenza. Un noir manierista che, abbracciando i codici, lavora sulle forme. E nel manierismo non c’è epica, ma rimpianto per l’armonia perduta. Resterà.

Recensione pubblicata su www.spietati.it




sabato 20 ottobre 2012

Gli anni delle immagini perdute


Gli anni delle immagini perdute delinea il ritratto di Valerio Zurlini, scomparso nell’ottobre 1982, poche settimane dopo aver partecipato come giurato alla 50ª Mostra del Cinema di Venezia. Zurlini sapeva di essere malato e aveva dedicato gli ultimi mesi di vita alla scrittura del proprio testamento spirituale, che uscirà postumo con il titolo Gli anni delle immagini perdute. Un bilancio esistenziale spietato, il racconto di un mondo che cambia in modo irreversibile, un appello struggente in difesa del cinema d’autore. Il regista ripercorre gli episodi più importanti della propria vita, indica le ragioni del suo cinema, ricorda gli artisti che l’hanno formato. Soprattutto: denuncia le “immagini perdute”, i tanti film cioè che egli scrisse e preparò senza riuscire a portarli a compimento. Gli anni delle immagini perdute torna nei luoghi in cui il regista amava ritirarsi, raccoglie le testimonianze di amici e collaboratori, ripropone il repertorio di interviste e conversazioni del regista, nel tentativo di capire le cause di questo forzato e fatale “silenzio” produttivo (dal catalogo della Mostra). 

Accorata e rispettosa riduzione dell’omonimo libro-diario di Valerio Zurlini, Gli anni delle immagini perdute di Adolfo Conti si situa a metà strada tra il documentario di risarcimento e l’illustrazione intima. Un risarcimento che ha per oggetto non tanto la filmografia zurliniana - sparuta e intralciata da mille ostacoli ma in fin dei conti bastante a se stessa - quanto i progetti mai portati a termine dal cineasta bolognese, quelle “immagini perdute” condannate a rimanere allo stato embrionale di progetti interrotti, di sceneggiature pronte a essere tradotte in pellicola ma destinate a ingiallire in un cassetto. E un’illustrazione intima che, pur ricalcando giudiziosamente la scansione diaristica, dà corpo alle pagine scritte cavalcandone le suggestioni atmosferiche (i rigidi e nebbiosi inverni della laguna), intrufolandosi discretamente negli ambienti domestici (la casa veneziana di Wally Toscanini) e dilatandosi maestosamente nella contemplazione pittorica (la rapita ammirazione delle opere di Paolo Veronese nella chiesa di San Sebastiano). Mentre la voce narrante recita fedelmente e sentitamente le parole del diario, il documentario si abbandona alla sensibilità zurliniana nel tentativo di oggettivare visivamente lo spartito letterario cogliendone il sentimento profondo. Del resto non c’è bisogno di scompaginare un testo di per sé rapsodico ed evocativo come il libro di Zurlini, la divagazione e la scioltezza narrativa ne costituiscono il ritmo interno: “La memoria è bizzarra, indulgente, vanitosa, sentimentale, è breve, permalosa, bugiarda anche quando in buona fede, ma i suoi sentieri infiniti sono tracciati sempre da una logica segreta”.

E proprio in questo tentativo di captare e restituire la sensibilità zurliniana risiede il maggior pregio del documentario. Adolfo Conti non assume un atteggiamento distaccato o blandamente descrittivo, ma si immerge nell’universo dell’autore di Cronaca familiare come lo stesso Zurlini si era immerso in quello pratoliniano adattando il romanzo omonimo: rispettandone programmaticamente la lettera e lo spirito. Siamo a un solo passo dal ritratto agiografico, certo, eppure questo slancio di immedesimazione traspare a più riprese e - fatta eccezione per il finale enfaticamente roboante - genera momenti di sincera commozione e rimpianto. Sono le parti dedicate alle tre “sceneggiature morte” (La zattera della Medusa, Verso Damasco e Il sole nero) quelle che colpiscono più a fondo: tre copioni scomodi e gravidi di dubbi esistenziali, colmi di quel senso di irrimediabile sradicamento e dissidio interiore che soltanto Zurlini avrebbe saputo tenere in equilibrio tra confessione privata e riflessione universale, tra allegorie di un mondo in disfacimento e severa autoanalisi. Ciononostante Gli anni delle immagini perdute non si esaurisce nel ricordo mimetico e nella sconfortata amarezza, ma - grazie al gioco di sponda con filmati d’archivio (il Leone d’Oro del 1962 ex-aequo con Tarkovskij, i servizi televisivi sui set di Cronaca familiare e Le soldatesse) e interviste a collaboratori e interpreti (Giulio Questi, Enrico Medioli, Jacques Perrin, Claudia Cardinale) - abbraccia un orizzonte più ampio, quello di un intero periodo del cinema italiano (da metà anni ’50 agli inizi degli ’80). Un cinema sempre più soffocato dalla concorrenza televisiva e sempre meno disposto a dare spazio a un cantore di antiche fragilità come Valerio Zurlini.
Recensione pubblicata su www.spietati.it.

martedì 16 ottobre 2012

Moviement - Speciale 3D

L’ottavo numero di MOVIEMENT è dedicato al cinema 3D Stereoscopico. Con questo numero “Moviement”  ha operato una scelta editoriale precisa, quella di puntare più che su un autore o un genere cinematografico su una modalità di rappresentazione che negli ultimi anni si è imposta in maniera sempre più significativa nella produzione cinematografica: il 3D. Quando parliamo di 3D al cinema indichiamo il 3D Stereoscopico, ovvero la riproduzione degli effetti tridimensionali della visione binoculare attraverso la cinematografia. Il 3D in sé non è una novità nell’ambito della evoluzione dell’apparato tecnologico ma è parte intrinseca del DNA del cinema fin dalle sue origini. La contemporanea configurazione produttiva e l’espansione spettacolativa del 3D nell’industria cinematografica e su altre piattaforme e schermi è dovuta all’incidenza della rivoluzione digitale e all’utilizzo più sofisticato in senso narrativo del medium. Attraverso i saggi presenti in questo “Speciale” si è cercato di fornire un quadro abbastanza esauriente sui vari aspetti che investono la riflessione sul 3D, da quelli di natura metodologica (Atkinson), storica (Antermite, Del Valle, Botelho,) o estetica (Huhtamo, Menduni), passando attraverso la strutturazione tecnologica (Neri, Piazza, Tornimbeni), l’uso del suono (Callarello), le possibilità del 3D in campo autoriale (Catolfi, Menduni, Nencioni, Thompson, Zazzara) e del cinema di animazione (Lanzo). A completare il quadro le interviste a Lilliwood/Xilostudios, Zapruder e Joshua Hollander, un Glossario a cura di Antonello Satta e la riproduzione di un articolo “storico” sul 3D di Mario Verdone a cura di Eusebio Ciccotti.

Collana: Moviement
Formato: 21 x 29,7
Pagine: 160
Prezzo: 15 euro
ISBN: 978-88-97670-05-6
Uscita: Ottobre 2012

giovedì 11 ottobre 2012

UN SAPORE DI RUGGINE E OSSA


Ali, padre del piccolo Sam, si reca ad Antibes dalla sorella Anna che non vede da anni. Qui, grazie al suo aiuto, tenta di ripartire da zero trovando lavoro come buttafuori in discoteca. Una sera, intervenuto per sedare una rissa, soccorre Stéphanie, una bellissima ragazza che è appena stata malmenata. La accompagna a casa scoprendo che è un’addestratrice di orche e le lascia il numero di telefono in caso di necessità. Le loro vicende sembrano separarsi definitivamente ma, in seguito a un drammatico incidente sul lavoro che le costa l’amputazione delle gambe, Stéphanie chiama Ali: tra i due si instaura un rapporto di crescente intimità non privo di tensioni e incomprensioni.


Gli spoiler non mancano, le considerazioni squisitamente soggettive nemmeno: astenersi puristi della metodologia critica nonché lettori non muniti di apposita visione filmica.

Liberamente ispirato alla raccolta di racconti Rust and Bone (2005) dello scrittore canadese Craig Davidson (pubblicata in Italia da Einaudi nel 2008), Un sapore di ruggine e ossa segna una netta inversione di marcia nel cinema di Jacques Audiard. Dopo lo straordinario successo di Un prophète - Grand Prix della Giuria al 62º Festival di Cannes e vincitore di ben nove César - il cineasta e sceneggiatore francese non teme il cambiamento, al contrario azzarda una brusca variazione di registro rispetto all’universo concentrazionario e prettamente maschile della pellicola precedente. Si tratta di una sterzata che non coinvolge soltanto l’aspetto esteriore (nomadismo anziché reclusione, spazi aperti anziché luoghi di detenzione, presenza di personaggi femminili anziché esclusività virile) o il genere cinematografico di riferimento (mélo vs carcerario), ma interessa anche uno strato più profondo del film. Se finora Audiard, pur in misura diversa, aveva raccontato la storia di individui che, messi con le spalle al muro da eventi fortuiti, scoprivano o esaltavano un talento sconosciuto o sopito, con De rouille et d’os rinuncia a questa dinamica eminentemente maieutica per aprirsi alla libertà dell’occasione. Per quanto vincolanti e immobilizzanti, le circostanze non rappresentano più condizioni assolute che costringono l’individuo-camaleonte a reinventarsi, ma costituiscono occasioni che il soggetto può cogliere per ridefinire se stesso, per riscriversi (si pensi ai tatuaggi sulle cosce di Stéphanie) nonostante le mutilazioni o i traumi subiti.

Del resto è lo stesso metodo di adattamento ad assumersi i rischi della libertà compositiva, a sposare il principio costruttivo dell’episodicità. Audiard e Thomas Bidegain (già cosceneggiatore di Un prophète) prendono la raccolta di Davidson come un giacimento di opportunità e, prelevando frammenti dai racconti “Rocket Ride” e “Rust and Bone”, ricombinano il materiale di partenza impiegando il sentimento amoroso come elemento coesivo. “Se mettessimo una storia d’amore in questo universo di declassati, di crisi?”: è questa la domanda decisiva che si sono posti Audiard e Bidegain per concepire un film che nasce come antidoto alla claustrofobia virile di Un prophète e si interroga sulla forma adatta a rappresentare un universo in cui gli ultimi residui di umanità sopravvivono in personaggi che si nutrono di cibo gettato nella pattumiera o si riducono a corpi maciullati (a proposito di questo legame di fondo tra precarietà e contesto storico, Audiard ha tirato in ballo pellicole americane degli anni ’30 e ’40 quali Freaks di Browning e La fiera delle illusioni di Goulding). Non è affatto fortuito che le prime parole pronunciate dal piccolo Sam (Armand Verdure) siano “Ho fame, ho fame!”: la tela di fondo di Un sapore di ruggine e ossa gronda di riferimenti alle difficoltà economiche dei personaggi (il licenziamento della sorella di Ali, il tentativo fallito di Richard di mettersi in proprio come trasportatore…).

Ricavare una forma dal caos, accentuare le differenze di luminosità e temperatura drammatica tra le sequenze, costruire i personaggi per frammenti che finiscono per ricomporsi: sono questi partiti presi a tracciare le linee guida del film, sia nell’andatura narrativa deliberatamente rapsodica ed ellittica che nella sintassi visiva marcatamente accidentata e sgrammaticata. “Abbiamo voluto un film di contrasti”, afferma il direttore della fotografia Stéphane Fontaine (alla terza collaborazione con Audiard dopo Tutti i battiti del mio cuore e Il profeta). E aggiunge: “Il film va in tutti i sensi. C’è una specie di accompagnamento costante. Sono delle persone a pezzi che si ricostruiscono gradualmente e l’immagine accompagna questi movimenti”. Un percorso di riconfigurazione che investe sia i personaggi rappresentati che lo statuto attoriale dei due protagonisti. Alla lettera nel caso di Stéphanie/Marion Cotillard, in un’operazione di impressionante mutilazione (calze verdi sul set cancellate in postproduzione) satura di risvolti spettacolari: non è solo il personaggio di Stéphanie, la bella arrogante, a perdere le gambe ma anche l’icona Cotillard. La star cade dal suo piedistallo. Metaforicamente per Ali/Matthias Schoenaerts, in un processo di umanizzazione che prende le mosse da Bullhead (2011) di Michael R. Roskam (nel quale Schoenaerts interpreta una figura dai forti tratti bovini) per ridisegnarlo umanamente, per renderlo qualcosa di diverso da un semplice ammasso di carne gonfiata con estrogeni e ormoni steroidei.

Croce e delizia del film, questa estrema consapevolezza progettuale seduce e soffoca al tempo stesso. Cesellatissimo perfino nelle imperfezioni e nell’impianto eccentrico, Un sapore di ruggine e ossa sagoma i cliché e gli stereotipi del dramma sentimentale in modo talvolta quiescente (Ali capisce che cosa significa essere padre solo quando rischia di perdere il figlio), talaltra magniloquente (Stéphanie scende dal furgoncino in slow motion e Ali trova le forze per battere l’avversario). Sono tuttavia pressoché onnipresenti i segni di un’enfasi calcolata (i ralenti durante le evoluzioni delle orche prima dell’incidente), di un abbandono smaliziato (la sequenza di sesso senza baci sulla bocca) e di un patetismo smorzato (la caduta fuori fuoco di Sam nel lago) che impediscono al film di trasfigurare le convenzioni del mélo in discorso emotivamente rigenerato. Le rare volte che questo piccolo miracolo si avvera coincidono coi momenti in cui la pellicola si concede senza remore e formule cautelative alla retorica melodrammatica (la telefonata finale in ospedale) o alla rievocazione spudoratamente pacchiana (Stéphanie che mima gli ordini dati alle orche mentre “Firework” invade lo spazio sonoro con oscena, oltraggiosa efficacia).

Detto altrimenti, De rouille et d’os soffre spesso il regime della libertà vigilata (si pensi agli incastri forzati: Ali fa jogging mentre gli sfrecciano accanto le ambulanze che si recano a soccorrere Stéphanie), delle corrispondenze interne a scoppio ritardato (la bocca spalancata dell’orca che richiama l’incidente, il dente di Ali che richiama i denti dell’orca…) e, se è lecito spingersi a tanto, di una condiscendenza per la tecnica tutto sommato piuttosto stucchevole (difficile, per chi scrive, non sospettare che il profluvio di ralenti sia legato alla prodigiosa facilità con cui la camera Red Epic riesce a girare a 120 e 300 fotogrammi al secondo). Ma, al netto dei supposti limiti, il sesto lungometraggio di Jacques Audiard ci consegna l’ennesima prova di un cineasta di cristallina sensibilità audiovisiva (da “Wash” di Bon Iver al Trentemøller remix della springsteeniana “State Trooper” passando per “Love Shack” dei B-52’s, non vi è scelta musicale pretestuosa o decorativa), animato da un’inesausta tensione esplorativa e tutt’altro che disposto a imbalsamare il suo cinema nel sarcofago del successo.

Recensione pubblicata su www.spietati.it.