New Orleans, poco prima delle elezioni presidenziali del 2008. Frankie,
un piccolo criminale appena uscito dal carcere, viene coinvolto nel
piano ideato da Johnny Amato: rapinare una partita di poker organizzata
da Markie Trattman. Per mettere a segno il colpo occorre un terzo uomo e
Frankie recluta Russell, un avanzo di galera australiano che si
guadagna da vivere rubando cani di razza. La rapina fila liscia, ma il
giro delle bische clandestine si ferma improvvisamente con grande
perdita di denaro. Per il bene dell’economia locale, l’organizzazione
mafiosa che controlla il territorio si rivolge a Jackie Cogan: dovrà
scovare i responsabili e ripristinare l’ordine.
Due avvertenze preliminari:
1- Affrontare la lettura di una recensione così smisurata senza aspettarsi degli spoiler sarebbe semplicemente irragionevole. Se lo fate la responsabilità è vostra, noi vi abbiamo avvertito.
2- Quanto il doppiaggio appiattisca il tessuto linguistico del film può risultare chiaro con un solo esempio: durante la rapina Russell non dice una parola, poiché se parlasse tradirebbe le sue origini australiane.
1- Affrontare la lettura di una recensione così smisurata senza aspettarsi degli spoiler sarebbe semplicemente irragionevole. Se lo fate la responsabilità è vostra, noi vi abbiamo avvertito.
2- Quanto il doppiaggio appiattisca il tessuto linguistico del film può risultare chiaro con un solo esempio: durante la rapina Russell non dice una parola, poiché se parlasse tradirebbe le sue origini australiane.
The Friends of George V. Higgins
“The
fuck, you look like you just got out of jail or something”: queste sono
pressappoco le prime parole pronunciate da Johnny Amato nel romanzo Cogan’s Trade (1974) di George V. Higgins, già autore di The Friends of Eddie Coyle
(1970), grigio e stradisilluso noir bostoniano portato sullo schermo da
Peter Yates nel 1973 con un Robert Mitchum segnatissimo nei panni di
Eddie e un Peter Boyle ultraviscido in quelli del barman-killer Dillon.
L’universo letterario di Higgins è impregnato di conoscenza diretta
dello slang, delle personalità e delle dinamiche criminali: una
conoscenza derivante dalla professione di procuratore distrettuale a
Boston che marchia a fuoco il suo stile e la sua prospettiva narrativa.
Higgins se ne sbatte del folklore e dell’alone leggendario che circonda
l’underworld, a tenere banco nei suoi romanzi sono figure di
piccoli malavitosi incastrati in traffici più grandi di loro, reietti o
marginali che vorrebbero tirarsi fuori dai guai ma che non possiedono né
la lungimiranza né l’astuzia per riuscirci. Né eroi né antieroi,
insomma, ma personaggi tragicomici, meschini e confusi come qualsiasi common man
catapultato nelle medesime circostanze. Solamente più sboccati,
sbroccati e logorroici: il loro deficit d’intelligenza si accompagna a
un surplus di eloquenza che tradisce la loro insipienza e i loro
maneggi, mettendoli nei pasticci per eccesso di sbruffoneria o difetto
di prudenza.
E
i dialoghi higginsiani, autentici esercizi di mimetismo stilistico (“I
don’t Know” si contrae spesso in “I dunno” e “What do you mean?” in
“Whaddaya mean?”, giusto per fare un paio di esempi comprensibili), non
solo ricalcano fedelmente il parlato malavitoso riproducendone la
propensione al turpiloquio ininterrotto, ma dilatano a dismisura
l’incontinenza verbale dei personaggi sommergendo l’azione in una
loquacità letteralmente straripante. Risultato: l’esposizione dialogica
si sostituisce agli eventi o li prefigura/rivisita da angolazioni
diverse. Ed è precisamente l’angolo di osservazione (“You got to think
of a different angle”, dice Amato a Frankie immediatamente prima di
proporgli il colpo) a costituire il propulsore narrativo di Cogan’s Trade:
l’“idea” (è con questo termine che la versione italiana del romanzo
traduce “angle”) di Johnny consiste nel prevedere le reazioni del milieu
alla rapina nella bisca di Trattman (“Keep in mind, I Know how these
guys think”, lo rassicura Amato). Di fatto questo massimalismo
dialogico, oltre a soffocare le potenzialità cinetiche della crime fiction,
sposta l’asse della narrazione verso coordinate soggettive se non
apertamente mentali. Pagina dopo pagina, si fa sempre più chiaro che la
vera posta in palio non è la riuscita del colpo o la felicità dei
personaggi ma l’affermazione di un punto di vista dominante, di
un’angolazione reggente: “I see what you mean, the public angle”,
riconosce l’autista che fa da intermediario tra Cogan e i boss
dell’organizzazione. È la questione del consenso il nodo cruciale del
romanzo di Higgins, un consenso necessario al corretto funzionamento
degli affari e vincolato a una campagna persuasiva basata più sulle
parole che sulla violenza.
Oralità, economia, politica
Come Outrage di Kitano, Cogan - Killing Them Softly
si colloca a un livello in cui la violenza agita si è sublimata
(l’estetizzazione e la distanza con le quali si mettono in scena i
pestaggi e le esecuzioni) e rimane a rappresentarne l’essenza crudele
un’oralità diaccia ed esasperata. Come Outrage Beyond Cogan
scarnifica l’intreccio per portarne alla luce il meccanismo nudo e
crudo: coppie di personaggi che si parlano si susseguono senza
svelamenti di carattere, puri ingranaggi che manifestano con chiarezza
solo il posto che occupano nella struttura gerarchica malavitosa di cui
sono parte (e di conseguenza nella costruzione drammatica), ma (quasi)
mai ciò che sono (Frankie - Io non so chi cazzo sei! Cogan - Pochissimi lo sanno).
È la riduzione del genere a puro congegno di causa ed effetto, il suo
svuotamento e la sua ritraduzione in una glaciale burocratizzazione
della violenza, in un’arida ragioneria della morte: così ad ogni evento
ne consegue un altro che ne porta ad un altro e così via. Tutto si deve
compiere, l’unica tensione risiedendo nell’incertezza del se interverrà
un elemento a distrarre dalla sua logica fine questa truce
concatenazione, questo cruento stillicidio che procede attraverso la
lenta, inesorabile decimazione delle figure in gioco.
La
messa a nudo del congegno va di pari passo con l’esplicitazione della
componente economico-politica racchiusa nel romanzo: in fase di
adattamento Dominik si accorge che Cogan’s Trade racconta in
filigrana la storia di una crisi economica, una crisi dovuta a uno
scompenso nella regolamentazione di un’economia basata sul gioco
d’azzardo e sull’accumulo di capitali. Una sorta di riproduzione in
scala della situazione contemporanea. L’attualizzazione dagli anni ’70
alla vigilia delle elezioni presidenziali del 2008 procede dunque lungo
un doppio binario: la crisi finanziaria da un lato e la creazione del
consenso dall’altro, con l’ausilio del genere cinematografico a
garantire l’attendibilità della radiografia (“Credo che i film sulla
criminalità trattino del capitalismo, poiché [il crime movie] è il solo
genere nel quale è perfettamente accettabile che tutti i personaggi
siano motivati esclusivamente dal desiderio di denaro. E penso anche
che, in qualche modo, sia il genere americano più onesto”: Andrew
Dominik durante la conferenza stampa a Cannes). Detto altrimenti, gli
squilibri della crisi economica vengono fronteggiati con la formula del
consenso politico: ecco il significato dell’ambientazione in piena
campagna elettorale (una delle prime inquadrature del film termina su
due cartelloni di identica grandezza che ritraggono i candidati rivali
Obama e McCain). Non conta il partito rappresentato o lo schieramento
politico, ma il processo persuasivo in atto, il suo insinuarsi più o
meno rumorosamente nello scenario di una realtà che sta andando in
frantumi (New Orleans, una città sfasciata in quadri irriconoscibili e
potenzialmente riferibili a qualsiasi periferia).
Screwball, Struttura Žižek
Eppure non sono i toni drammatici a imporsi: diversamente da Peter Yates, che ne Gli amici di Eddie Coyle
aveva esasperato lo squallore e la meschinità del microcosmo malavitoso
descritto da Higgins, Dominik pone l’accento sulla componente
comico-grottesca che impregna i dialoghi higginsiani. Non si cada
nell’equivoco di considerare tarantiniani i dialoghi di Cogan,
sarebbe il malinteso più gigantesco in cui si potrebbe incappare.
Higgins è il maestro riconosciuto di Elmore Leonard (“Higgins is my
favorite. . . . No, he doesn’t learn from me, I learn from him”), che ha
definito più volte The Friends of Eddie Coyle “il miglior romanzo criminale mai scritto” e ha dato alla protagonista di Rum Punch
(1992) il nome di Jackie Brown, il personaggio che apre letteralmente
il romanzo d’esordio del procuratore distrettuale di Boston (“Jackie
Brown, di anni ventisei, senza alcuna espressione in viso, disse che era
in grado di procurare delle armi”: questo l’incipit di Gli amici di Eddie Coyle). Rispettando alla lettera la drammaturgia higginsiana, Dominik non può che sfociare in territorio screwball comedy,
insomma. Il continuo oscillare tra oscenità gergale, digressioni
strampalate, violenza improvvisa e ordinarietà delle figure criminali
appartiene interamente al patrimonio letterario di Higgins, Dominik non
ha fatto altro che assecondarne la vena comico-realistica (chi ne dubita
si procuri Gli amici di Eddie Coyle e, se ne è capace, legga il primo capitolo senza smascellarsi dalle risate).
Dove
invece Dominik interviene massicciamente, pur non smantellando
l’impianto del romanzo, è nell’assegnazione di valori psicoanalitici ai
personaggi principali. Dissodato dal massimalismo dialogico di cui
sopra, il terreno è particolarmente adatto ad accogliere una semina
simile, dichiaratamente influenzata dalle riflessioni post-freudiane
della filo-star Slavoj Žižek (si coglie l’occasione per suggerire la
lettura del leggermente datato ma assai illuminante Introduzione a Žižek
di Tony Myers, libretto divulgativo pubblicato nel 2003 ed edito
recentemente in Italia da il Melangolo). Prendendo spunto dalla teoria
esposta dal filosofo sloveno in The Pervert's Guide to Cinema
(Sophie Fiennes, 2006), secondo la quale i tre fratelli Marx Groucho,
Chico e Harpo rappresenterebbero tre aspetti di una sola personalità
(rispettivamente Super-Io, Io ed Es), il cineasta e sceneggiatore
neozelandese ha allestito un teatro psichico a sei personaggi riducibili
a due personalità scomposte nelle rispettive triadi. Frankie (Scoot
McNairy) incarna l’Io della prima, un Io alle prese da una parte con
Russell (Ben Mendelsohn), il suo godereccio Es, e dall’altra con Johnny
Amato (Vincent Curatola), l’esigente Super-Io. L’incipit del film, con
Frankie che esce da un luogo completamente buio venendo letteralmente
alla luce, è fin troppo eloquente: siamo in presenza di una nascita
simbolica, assistiamo all’apparizione di un’entità dall’identità neonata
e indefinita.
Analogamente,
Jackie Cogan (Brad Pitt) rappresenta l’altro Io, stretto tra le pretese
di un Super-Io portavoce dell’autorità (Richard Jenkins) e gli smodati
appetiti erotico-alcolici di Mitch (James Gandolfini), un Es di
pantagruelica insaziabilità. Anche l’entrata in scena di Jackie risulta
gravida di connotazioni psicoanalitiche: Cogan si presenta come
sostituto del ricoverato Dillon (Sam Shepard), suo mentore nonché uomo
di fiducia dell’organizzazione. La sua comparsa avviene in concomitanza
con la malattia del padre simbolico: Dillon è in ospedale e Jackie
irrompe nella finzione quando il suo vecchio Super-Io si sta spegnendo.
Proprio come Frankie, Cogan è un homo novus e a segnare la
differenza tra i due è esattamente il modo in cui reagiscono alle
pressioni dei rispettivi Es e Super-Io: Frankie tenta sciaguratamente di
metterli d’accordo, mentre Jackie imprigiona l’Es ed esautora il suo
nuovo Super-Io (persino nei piccoli gesti: ignora l’ingiunzione di
Jenkins a non fumare in macchina), cavandosela egregiamente. Illustrata
da Dominik stesso durante la conferenza stampa a Cannes (visibile su
YouTube), questa dinamica non si esaurisce nell’applicazione della
“Struttura Žižek” ai personaggi del romanzo, ma produce inoltre una
modificazione del finale. Se in Cogan’s Trade Jackie si limita a
prendere il posto di Dillon imponendo nuovi prezzi all’organizzazione
(“Se capita una rogna, bene, vi serve una persona, qualcuno che sistema
la situazione. Ho solo detto che d’ora in poi vi costerà di più.
Punto.”), in Cogan - Killing Them Softly Jackie non fa
sconti e vuole essere pagato fino all’ultimo dollaro, non c’è scusa che
tenga. La differenza è di capitale importanza: il Cogan di Higgins
prefigura l’avvento di una nuova generazione criminale più avida e
spregiudicata, attirando su di sé la meschinità e la rapacità in
circolazione. Il Cogan di Dominik, al contrario, non funge più da
neocriminale parafulmine, ma, astenendosi tanto dal cieco edonismo
quanto dalla remissiva obbedienza, propone un’esemplare e cinica
strategia di sopravvivenza contemporanea.
Noir manierista
Indubbiamente
il terzo lungometraggio di Dominik intrattiene legami col neonoir di
fine anni ’60-prima metà anni ’70. Inevitabile il confronto con la più
volte citata pellicola di Yates: la sequenza che precede la rapina di
Frankie e Russell possiede un forte sapore yatesiano sia nel fraseggio
dei campi/controcampi all’interno dell’abitacolo sia nell’inquadratura
dall’alto - una gru - che accompagna l’arrivo della macchina nel
parcheggio deserto (nel noir di Yates un’inquadratura dal taglio simile,
anche se fissa, compare in uno dei momenti più tetri del film:
l’abbandono di una Ford con un cadavere nel parcheggio di un bowling).
Più in generale il film di Dominik presuppone costantemente quello di
Yates, non soltanto poiché questo costituisce l’unico precedente di
adattamento cinematografico higginsiano, ma soprattutto perché la molla
che ha spinto il cineasta neozelandese a interessarsi a Higgins e
leggere Cogan’s Trade è stata proprio la visione de Gli amici di Eddie Coyle. A un livello più superficiale si registra un’associazione audiovisiva con Il caso Thomas Crown (The Thomas Crown Affair,
Norman Jewison, 1968): subito dopo il dialogo eroinico con Russell,
Frankie si mette al volante terrorizzato da quanto il suo socio gli ha
appena riferito, vale a dire che sulla loro testa pende una condanna a
morte. Il brano musicale che accompagna l’angoscioso tragitto di Frankie
è The Windmills of Your Mind (celeberrimo leitmotiv del film di
Jewison) nella versione di Petula Clark: sullo schermo si materializza
uno split-screen diegetico (lo specchietto retrovisore si ritaglia uno
spazio visivo autonomo all’interno dell’inquadratura) in una sorta di
omaggio estemporaneo alla pellicola jewisoniana, campionessa mondiale
della specialità split-screen.
Spingendosi
più in profondità e non senza una certa audacia, si incontrano passaggi
fotografici che collegano gli scatti cadaverici di Weegee (Naked City, 1945) a quelli obitoriali di Andres Serrano (The Morgue,
1991): dal crudo realismo dell’esecuzione di Amato al dolciastro
iperrealismo dell’inserimento nei loculi di Johnny e Frankie (avvolto
dalla versione flautata di It’s Only a Paper Moon di Cliff “Ukulele Ike” Edwards). Ma a uno strato ancora più profondo e generativo Cogan è geneticamente imparentato ai noir manieristi di fine anni ’50-primi anni ’60: crime movies che mischiano furiosamente sfondo sociale, alienazione metropolitana e sperimentazione formale. Pellicole come Assassinio per contratto (Murder by Contract, Irving Lerner, 1958), La vendetta del gangster (Underworld U.S.A., Samuel Fuller, 1961) o Cronaca di un assassinio (Blast of Silence,
Allen Baron, 1961): noir che, fotografando i nuovi assetti della
criminalità organizzata, scavano all’interno delle personalità omicide e
prediligono le esibite variazioni di tonalità espressiva all’uniformità
drammatica del genere classicamente declinato. Sono le clamorose
identificazioni tra criminalità e capitalismo, le commistioni tra
tragico e grottesco e le ricercatezze estetiche spudoratamente
virtuosistiche a renderli testimonianze di un’innocenza perduta per
sempre. Ed è esattamente questo che fa Dominik in Cogan:
identifica America e Business, amalgama noir e commedia e trasfigura
l’omicidio di Markie (Ray Liotta) in una cullante ninnananna sulle note
di Love Letters di Kitty Lester. Cogan - Killing Them Softly
è un film immenso, di grottesca, imperiale decadenza. Un noir
manierista che, abbracciando i codici, lavora sulle forme. E nel
manierismo non c’è epica, ma rimpianto per l’armonia perduta. Resterà.
Recensione pubblicata su www.spietati.it
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