giovedì 11 ottobre 2012

UN SAPORE DI RUGGINE E OSSA


Ali, padre del piccolo Sam, si reca ad Antibes dalla sorella Anna che non vede da anni. Qui, grazie al suo aiuto, tenta di ripartire da zero trovando lavoro come buttafuori in discoteca. Una sera, intervenuto per sedare una rissa, soccorre Stéphanie, una bellissima ragazza che è appena stata malmenata. La accompagna a casa scoprendo che è un’addestratrice di orche e le lascia il numero di telefono in caso di necessità. Le loro vicende sembrano separarsi definitivamente ma, in seguito a un drammatico incidente sul lavoro che le costa l’amputazione delle gambe, Stéphanie chiama Ali: tra i due si instaura un rapporto di crescente intimità non privo di tensioni e incomprensioni.


Gli spoiler non mancano, le considerazioni squisitamente soggettive nemmeno: astenersi puristi della metodologia critica nonché lettori non muniti di apposita visione filmica.

Liberamente ispirato alla raccolta di racconti Rust and Bone (2005) dello scrittore canadese Craig Davidson (pubblicata in Italia da Einaudi nel 2008), Un sapore di ruggine e ossa segna una netta inversione di marcia nel cinema di Jacques Audiard. Dopo lo straordinario successo di Un prophète - Grand Prix della Giuria al 62º Festival di Cannes e vincitore di ben nove César - il cineasta e sceneggiatore francese non teme il cambiamento, al contrario azzarda una brusca variazione di registro rispetto all’universo concentrazionario e prettamente maschile della pellicola precedente. Si tratta di una sterzata che non coinvolge soltanto l’aspetto esteriore (nomadismo anziché reclusione, spazi aperti anziché luoghi di detenzione, presenza di personaggi femminili anziché esclusività virile) o il genere cinematografico di riferimento (mélo vs carcerario), ma interessa anche uno strato più profondo del film. Se finora Audiard, pur in misura diversa, aveva raccontato la storia di individui che, messi con le spalle al muro da eventi fortuiti, scoprivano o esaltavano un talento sconosciuto o sopito, con De rouille et d’os rinuncia a questa dinamica eminentemente maieutica per aprirsi alla libertà dell’occasione. Per quanto vincolanti e immobilizzanti, le circostanze non rappresentano più condizioni assolute che costringono l’individuo-camaleonte a reinventarsi, ma costituiscono occasioni che il soggetto può cogliere per ridefinire se stesso, per riscriversi (si pensi ai tatuaggi sulle cosce di Stéphanie) nonostante le mutilazioni o i traumi subiti.

Del resto è lo stesso metodo di adattamento ad assumersi i rischi della libertà compositiva, a sposare il principio costruttivo dell’episodicità. Audiard e Thomas Bidegain (già cosceneggiatore di Un prophète) prendono la raccolta di Davidson come un giacimento di opportunità e, prelevando frammenti dai racconti “Rocket Ride” e “Rust and Bone”, ricombinano il materiale di partenza impiegando il sentimento amoroso come elemento coesivo. “Se mettessimo una storia d’amore in questo universo di declassati, di crisi?”: è questa la domanda decisiva che si sono posti Audiard e Bidegain per concepire un film che nasce come antidoto alla claustrofobia virile di Un prophète e si interroga sulla forma adatta a rappresentare un universo in cui gli ultimi residui di umanità sopravvivono in personaggi che si nutrono di cibo gettato nella pattumiera o si riducono a corpi maciullati (a proposito di questo legame di fondo tra precarietà e contesto storico, Audiard ha tirato in ballo pellicole americane degli anni ’30 e ’40 quali Freaks di Browning e La fiera delle illusioni di Goulding). Non è affatto fortuito che le prime parole pronunciate dal piccolo Sam (Armand Verdure) siano “Ho fame, ho fame!”: la tela di fondo di Un sapore di ruggine e ossa gronda di riferimenti alle difficoltà economiche dei personaggi (il licenziamento della sorella di Ali, il tentativo fallito di Richard di mettersi in proprio come trasportatore…).

Ricavare una forma dal caos, accentuare le differenze di luminosità e temperatura drammatica tra le sequenze, costruire i personaggi per frammenti che finiscono per ricomporsi: sono questi partiti presi a tracciare le linee guida del film, sia nell’andatura narrativa deliberatamente rapsodica ed ellittica che nella sintassi visiva marcatamente accidentata e sgrammaticata. “Abbiamo voluto un film di contrasti”, afferma il direttore della fotografia Stéphane Fontaine (alla terza collaborazione con Audiard dopo Tutti i battiti del mio cuore e Il profeta). E aggiunge: “Il film va in tutti i sensi. C’è una specie di accompagnamento costante. Sono delle persone a pezzi che si ricostruiscono gradualmente e l’immagine accompagna questi movimenti”. Un percorso di riconfigurazione che investe sia i personaggi rappresentati che lo statuto attoriale dei due protagonisti. Alla lettera nel caso di Stéphanie/Marion Cotillard, in un’operazione di impressionante mutilazione (calze verdi sul set cancellate in postproduzione) satura di risvolti spettacolari: non è solo il personaggio di Stéphanie, la bella arrogante, a perdere le gambe ma anche l’icona Cotillard. La star cade dal suo piedistallo. Metaforicamente per Ali/Matthias Schoenaerts, in un processo di umanizzazione che prende le mosse da Bullhead (2011) di Michael R. Roskam (nel quale Schoenaerts interpreta una figura dai forti tratti bovini) per ridisegnarlo umanamente, per renderlo qualcosa di diverso da un semplice ammasso di carne gonfiata con estrogeni e ormoni steroidei.

Croce e delizia del film, questa estrema consapevolezza progettuale seduce e soffoca al tempo stesso. Cesellatissimo perfino nelle imperfezioni e nell’impianto eccentrico, Un sapore di ruggine e ossa sagoma i cliché e gli stereotipi del dramma sentimentale in modo talvolta quiescente (Ali capisce che cosa significa essere padre solo quando rischia di perdere il figlio), talaltra magniloquente (Stéphanie scende dal furgoncino in slow motion e Ali trova le forze per battere l’avversario). Sono tuttavia pressoché onnipresenti i segni di un’enfasi calcolata (i ralenti durante le evoluzioni delle orche prima dell’incidente), di un abbandono smaliziato (la sequenza di sesso senza baci sulla bocca) e di un patetismo smorzato (la caduta fuori fuoco di Sam nel lago) che impediscono al film di trasfigurare le convenzioni del mélo in discorso emotivamente rigenerato. Le rare volte che questo piccolo miracolo si avvera coincidono coi momenti in cui la pellicola si concede senza remore e formule cautelative alla retorica melodrammatica (la telefonata finale in ospedale) o alla rievocazione spudoratamente pacchiana (Stéphanie che mima gli ordini dati alle orche mentre “Firework” invade lo spazio sonoro con oscena, oltraggiosa efficacia).

Detto altrimenti, De rouille et d’os soffre spesso il regime della libertà vigilata (si pensi agli incastri forzati: Ali fa jogging mentre gli sfrecciano accanto le ambulanze che si recano a soccorrere Stéphanie), delle corrispondenze interne a scoppio ritardato (la bocca spalancata dell’orca che richiama l’incidente, il dente di Ali che richiama i denti dell’orca…) e, se è lecito spingersi a tanto, di una condiscendenza per la tecnica tutto sommato piuttosto stucchevole (difficile, per chi scrive, non sospettare che il profluvio di ralenti sia legato alla prodigiosa facilità con cui la camera Red Epic riesce a girare a 120 e 300 fotogrammi al secondo). Ma, al netto dei supposti limiti, il sesto lungometraggio di Jacques Audiard ci consegna l’ennesima prova di un cineasta di cristallina sensibilità audiovisiva (da “Wash” di Bon Iver al Trentemøller remix della springsteeniana “State Trooper” passando per “Love Shack” dei B-52’s, non vi è scelta musicale pretestuosa o decorativa), animato da un’inesausta tensione esplorativa e tutt’altro che disposto a imbalsamare il suo cinema nel sarcofago del successo.

Recensione pubblicata su www.spietati.it.


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