Più di due anni fa, recensendo il volume dedicato a Malick, definivo la
pubblicazione Moviement una notevole sorpresa nel campo dell’editoria
cinematografica, mettendone in rilievo l’eccellenza dei contenuti e la
produttività dell’approccio multidisciplinare. Ebbene, oggi la collana è
giunta al settimo titolo, ha svariati progetti in cantiere (imminente
l’uscita di un nuovo volume) e da sorpresa si è trasformata in evidenza,
confermando di numero in numero (Kira Muratova, Horror Made in Italy,
Quentin Tarantino, Jan Švankmajer) la qualità degli approfondimenti e
l’ampiezza di vedute metodologiche su autori e generi presi in esame.
Come di consueto, il volume Coen Brothers è aperto da Costanzo Antermite e Gemma Lanzo con un Editoriale che, oltre a tracciare sinteticamente le coordinate critiche del numero, precisa efficacemente il movimento interno del cinema dei Coen. Un cinema inizialmente basato su premesse noir, ma che nel corso del tempo “ha allargato via via i propri orizzonti tematici operando nel corpus dei generi cinematografici tradizionali quella ‘decostruzione narrativa’ che, senza imparentarla più di tanto alla moda filosofica del ‘postmoderno’, è stata il loro più evidente marchio di fabbrica”.
Come di consueto, il volume Coen Brothers è aperto da Costanzo Antermite e Gemma Lanzo con un Editoriale che, oltre a tracciare sinteticamente le coordinate critiche del numero, precisa efficacemente il movimento interno del cinema dei Coen. Un cinema inizialmente basato su premesse noir, ma che nel corso del tempo “ha allargato via via i propri orizzonti tematici operando nel corpus dei generi cinematografici tradizionali quella ‘decostruzione narrativa’ che, senza imparentarla più di tanto alla moda filosofica del ‘postmoderno’, è stata il loro più evidente marchio di fabbrica”.
Il saggio Joel e Ethan Coen di Paul Coughlin, già apparso su
“Senses of Cinema” nel 2003, prende le mosse dalla constatazione che “I
Coen sono attratti da due modelli espressivi apparentemente
incompatibili: il regionalismo etnografico e la costruzione
artificiale”. A partire da questo assunto, Coughlin ripercorre la
vicenda biografico-cinematografica dei due fratelli del Minnesota
evidenziandone i tratti distintivi (l’interesse per il linguaggio,
l’attenzione al localismo, il sovvertimento delle convenzioni di genere,
l’esibizione dei processi di costruzione testuale) e valorizzandone il
portato sarcasticamente provocatorio: “I fratelli Coen conoscono
benissimo il cinema, lo conoscono abbastanza da ravvisarne le idee alla
base dei suoi procedimenti e da trovare i valori che tali sistemi hanno
progettato e sostenuto”.
In Bloody Coen, buon sangue (non) mente, scritto da me medesimo, ho circoscritto l’analisi alla produzione coeniana di matrice noir (Blood Simple - Sangue facile, Crocevia della morte, Fargo, L’uomo che non c’era e Non è un paese per vecchi) con brevi cenni ai titoli che col crime movie intrattengono un dialogo più o meno episodico o dissimulato (Barton Fink, Il grande Lebowski).
Seguendo la scia di sangue che attraversa le pellicole nere dei Coen,
nei rivoli di questo fil rouge ho rintracciato un progressivo
svuotamento di senso che ha trascinato con sé la concezione coeniana del
genere dal gusto per l’inganno alla contemplazione dell’assurdità. Per
sfociare infine, col noir terminale No Country for Old Men, in inarginabile nichilismo.
Non è un paese per vecchi e la filosofia morale di Douglas McFarland - già pubblicato nel volume curato nel 2009 da Mark T. Conrad The Philosophy of the Coen Brothers
- focalizza l’attenzione sulle implicazioni etiche deducibili dai
comportamenti dei personaggi principali. Se le azioni dello sceriffo Ed
Tom Bell (Tommy Lee Jones) lo collocano in una difficile situazione
post-kantiana, ovvero in una condizione altalenante tra il rispetto
della legge come imperativo morale e il giudizio della propria condotta
alla luce dei risultati ottenuti, quelle di Llewelyn (Josh Brolin)
sembrano inizialmente designarlo come un eroe esistenziale che tenta di
creare un significato autonomo in un mondo senza significato, ma
successivamente lo connotano come un eroe tragico kierkegaardiano
(“incapace di sospendere la decisione etica per affermare il proprio
insieme di significati in un contesto che sembra assurdo”). La
riflessione di McFarland si appunta poi sulle figura di Chigurh (Javier
Bardem), definito “uomo paradossale”, e sulla riluttanza finale di Carla
Jean (Kelly MacDonald) ad assecondare il perverso lancio della
monetina, insistendo sulla responsabilità soggettiva di Chigurh e
restituendo così alle circostanze il giudizio morale.
Gemma Lanzo, con Commedia alla Coen, scandaglia i fondali della produzione beffardamente umoristica dei Coen, rinvenendo nei meccanismi della screwball e della sophisticated comedy
alcuni procedimenti (dialoghi accelerati, situazioni ingarbugliate,
fraintendimenti e disavventure) da loro liberamente e felicemente
reinterpretati. Individuando in Preston Sturges il maggiore referente
classico (“Fratello, dove sei? è proprio un omaggio al film-manifesto di Sturges I dimenticati”)
e rifacendosi all’osservazione di Kierkegaard sul comico come
rappresentazione delle contraddizioni non mediate della condizione
umana, il saggio mette in luce la comicità latente che impregna l’intera
filmografia coeniana. Una comicità che, articolandosi sulla relazione
causa-effetto scatenata dai comportamenti involontari dei personaggi e
sul contrasto tra mondi completamente diversi, propone un punto di vista
teso a “sdrammatizzare l’ineluttabilità della condizione umana e dei
suoi risvolti”.
Dopo il personale intervento di David Del Valle Drugo, dov’è il mio tappeto?, affettuosa rievocazione che definisce Il grande Lebowski
un “noir losangelino postmoderno” nonché il capolavoro dei fratelli
Coen, Elena Dagrada e Gabriele Gimmelli si addentrano - con Il tempo ci sfugge. A proposito de “Il Grinta”
- nell’analisi del quindicesimo lungometraggio coeniano. Rilevato lo
svarione di alcuni commentatori che hanno definito la pellicola un
remake dell’omonimo western del 1969 di Henry Hathaway e ristabilita la
corretta prospettiva critica (un’altra versione cinematografica del
romanzo del 1968 True Grit di Charles Portis), Dagrada e Gimmelli
si insinuano agilmente negli ingranaggi testuali e intertestuali.
Muovendo dalla fondamentale e tipica operazione di
svuotamento/riempimento effettuata dai Coen sul genere frequentato, la
loro analisi si spinge nelle pieghe del film mostrando come “gli aspetti
più interessanti (…) sono forse quelli meno tipici dei nostri autori”:
la netta oscillazione tra visione crudamente oggettiva e deformazione
fortemente soggettiva, la rimarchevole/rimarcata età della giovane
protagonista e l’inedito avvicinamento dei fratelli Coen al racconto di
formazione. Infine l’indagine si allarga di nuovo per porre l’accento
sulle suggestive assonanze con La morte corre sul fiume (1955) di Charles Laughton e per inquadrare l’ambientazione baracconesca del Wild West Show
conclusivo nell’ottica complessiva di un film che “guarda meno al
western classico di Ford (…) di quanto non affondi lo sguardo dentro gli
spettacoli di Buffalo Bill”.
Completano il volume due vivaci interviste (Gli angeli custodi dei fratelli Coen di Alex Simon e I fratelli Coen parlano de “Il Grinta”
di Cole Haddison), un gustoso florilegio di citazioni, una snella
filmografia e una mirata bibliografia (cui segue l’elenco delle edizioni
in Dvd).
Recensione pubblicata su www.spietati.it
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