venerdì 20 dicembre 2013

MATERIA OSCURA

Materia oscura racconta un luogo di guerra in tempo di pace. Lo spazio del film è il Poligono Sperimentale del Salto di Quirra, regione della Sardegna compresa tra le province di Cagliari e Nuoro, dove per oltre cinquanta anni i governi di tutto il mondo hanno testato “armi nuove” e dove il governo italiano ha fatto brillare i vecchi arsenali militari compromettendo inesorabilmente il territorio. All’interno di questo spazio il film compone tre movimenti. Il primo movimento segue l’indagine di un geologo che tenta di rintracciare l’inquinamento causato dalle sperimentazioni militari. Tra terra e mare, tra residui bellici e civili, tra bersagli, condotti, proiettili, cariche, radar, carcasse di carri armati e missili, il film scopre i luoghi muti e ascolta i silenzi di due fratelli pastori che degli effetti della guerra hanno fatto la normalità, malgrado ancora oggi riecheggino tra le valli i rimbombi delle esplosioni. Il secondo movimento mostra una ricerca attraverso gli archivi cinematografici del poligono che hanno visto protagonisti le armi e gli esplosivi di tutto il mondo. Sono immagini incredibili che raccontano oltre cinquanta anni di sperimentazioni belliche. Missili, razzi, bombe, esplosioni, brillamenti: le prove generali della guerra si sono messe in mostra davanti alle cineprese del Poligono. Negativi e positivi, ralenti e accelerazioni: i formati e i colori si susseguono nel buio della sala di montaggio. La terza e ultima parte racconta il lavoro di due allevatori, un padre e un figlio e del loro rapporto con la terra, gli animali e con un passato profondamente segnato dall’attività bellica. Malgrado la cura, la dedizione e l’amore per il proprio lavoro troppo spesso i loro animali nascono malformati e con gli organi interni pieni di sostanze radioattive. L’orrore in una natura all’apparenza incontaminata. Materia oscura racconta questo luogo silenziosamente avvelenato evocandone la tragicità grazie alla forza del racconto per immagini. E tra montagne e mare, passato e presente viene costantemente messa in scena una “guerra immaginaria” che sembra non aver fine (dal pressbook).

Non si cerchi inchiesta giornalistica o illustrazione didascalica in Materia oscura, ché il solo momento informativo dell’extradocumentario di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti coincide con la registrazione, tratta da un’intervista di Radio Radicale, delle parole del Procuratore Domenico Fiordalisi, parole che ascoltiamo mentre le immagini mostrano la dissezione di un topo. Colonna sonora e visiva entrano in collisione, stridono, suggeriscono percorsi divergenti. Una voce descrive inesorabilmente la presenza di torio nelle aree interessate dalle esercitazioni e le attività più o meno lecite praticate nel Poligono del Salto di Quirra, un animale viene sezionato per effettuare ricerche sulla contaminazione diffusa nella zona: l’esposizione verbale dei rilievi scientifici e delle allarmanti anomalie morfologiche viene letteralmente disturbata da immagini che impediscono un ascolto concentrato e confortevole. Si tratta precisamente di scongiurare il semplice effetto indignazione e penetrare nel dominio del surreale. Perché oltre lo sdegno non c’è che il sentimento dell’assurdo, permeato di tristezza, a rendere conto di un luogo dai tratti arcaici devastato da sperimentazioni belliche tecnologicamente avanzatissime. Un sentimento da non confondersi con la rassegnazione o la resa all’esistente, ma, al contrario, da identificare con una presa di posizione morale che si deposita in forme cinematografiche aliene tanto dalla retorica tuonante del reportage quanto dal cinico disincanto del lamento lirico sulle rovine.

Più ci si avvicina al potere e più ci si confronta col vuoto: è questo che sembra dirci Materia oscura, configurando tre movimenti attorno a un nucleo impossibile da rappresentare se non prendendone le distanze, cogliendone le tracce disseminate nei crateri, nelle carcasse di lamiera carbonizzata, nella terra bruciata, in quell’umanità residuale che, analogamente a quanto avveniva in Il castello, continua ostinatamente ad abitare uno spazio teso a respingerla ed eliminarla in favore di un controllo sempre più esasperato, di una sicurezza sempre più aggressiva. Tre movimenti in cui interrogazione del territorio (le ricognizioni geologiche e l'attività pastorizia dei due fratelli), disarchiviazione straniante (prelevate dagli scaffali polverosi del poligono e visionate/rifilmate alla moviola, le pellicole d’archivio assumono connotati marcatamente surreali) e captazione della morte (il piano sequenza di oltre 6’ su un vitello agonizzante) compongono un extradocumentario - lo si accennava sopra e lo si ribadisce con forza qui - al quale non occorre voce narrante, segnaletica didattica o forzatura dimostrativa per dialogare col reale e lo spettatore. Grazie a una distanza/prossimità semplicemente miracolosa che, al di là di ogni sovrastruttura posticcia, restituisce integralmente al cinema la sua capacità esplorativa e trasfigurante: dal macchinico prologo pellicolare al baluginante epilogo spettacolare Materia oscura non fa che parlarci di questo, del cinema come dispositivo di riscrittura ed evocazione, traccia di un fare che può misurarsi ad armi pari con l’orrore, la bellezza e l’inconcepibile.

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PRISONERS

Giorno del Ringraziamento: le famiglie Dover e Birch stanno serenamente festeggiando la ricorrenza quando le piccole Anna e Joy, allontanatesi per pochi minuti dai genitori, spariscono nel nulla. La presenza di un camper nelle vicinanze indirizza i sospetti verso il conducente che, intercettato e condotto in stato di fermo, viene rilasciato per insufficienza di prove e limiti mentali. Alle indagini ufficiali, coordinate dal detective Loki, si affiancheranno le ricerche solitarie di Keller Dover, padre di Anna disperato per la scomparsa della figlia e sempre più diffidente nei confronti dei metodi investigativi della polizia. 







Chi scrive ha coperto l’invero non cospicua filmografia di Denis Villeneuve (classe 1967), dallo stralunato Un 32 août sur terre (1998) allo straziante Incendies (2010), passando per il frastornante Maelström (2000) e il glaciale Polytechnique (2009). Se quest’ultimo si attesta inequivocabilmente come il suo capo d’opera, è possibile tracciare un profilo sommario ma non del tutto inattendibile della produzione del cineasta québécois (escludendo i corti e mediometraggi poiché non particolarmente indicativi, nonostante i riconoscimenti internazionali): i primi due lavori quali prove di elaborazione estetica in bilico tra grottesco e destrutturazione cronologica, le due pellicole successive come messa a punto di un controllo stilistico esercitato sulla materia tragica e, infine, approdo hollywoodiano al servizio di una Major. Si riproporrebbe dunque la consueta parabola del talento straniero precettato da Hollywood per un film di genere, se non fosse che Villeneuve, prima di realizzare Prisoners, ha girato Enemy, adattamento di un romanzo di José Saramago (L’uomo duplicato): arthouse movie interpretato dallo stesso Jake Gyllenhaal, che ha accettato il ruolo del detective Loki grazie alla relazione professionale stabilita con Villeneuve sul set di Enemy, e la cui uscita nelle sale statunitensi è fissata per il febbraio 2014. Non è fortuito che il regista canadese abbia dato la priorità a questo progetto assai più libero e sentito col pretesto ufficiale di considerarlo un laboratorio per perfezionare la direzione attoriale. Non sembra pertanto irragionevole profilare lo schema altrettanto risaputo del film personale seguito dalla pellicola anonima/su commissione.

Professionalmente irreprensibile (il coeniano Roger Deakins alla fotografia, il duo eastwoodiano Joel Cox e Gary Roach al montaggio), Prisoners è imperniato sul faccia a faccia tra il già menzionato Gyllenhaal nel ruolo del detective a capo delle indagini e Hugh Jackman nei panni del padre disperato e agguerrito. Faccia a faccia dal quale, vuoi per esigenze di copione vuoi per tonalità espressive, il primo ha gioco facile nell’imporsi grazie a una recitazione meno caricaturale ed esteriorizzata. Ma al di là di queste gratificazioni performative, tra le quali si segnala l’interpretazione in underplay di Melissa Leo nella parte della torva zia del minus habens Alex (Paul Dano), la prima pellicola hollywoodiana di Villeneuve non offre supplementari motivi d’interesse o scandaglio interpretativo, ostentando simbolismi ingombranti (disseminazione di preghiere e prediche, crocifissi ciondolanti o tatuati), sciorinando escamotage visivi piuttosto grossolani (la sostituzione metaforica del rapimento delle bambine con un movimento di macchina in avanti sulla corteccia di un albero) e allestendo un’allegoria sull’illiceità morale della tortura (la necessità di una terza figura istituzionale per scongiurare l’uso privato e indiscriminato della violenza) che articola la spinosa questione in termini brutalmente dicotomici. Artificiosità simili non risparmiano il piano narrativo (limite ben più inficiante, tenuto conto del grado di tensione richiesto dal genere di riferimento), l’intreccio dipanandosi faticosamente tra cantine degli orrori, pendagli labirintici e serpeggianti apparizioni votate al suicidio, per culminare infine nella rivelazione di un movente diabolicamente macchinoso. Su tutto incombe il plurale multifunzionale del titolo Prisoners: ciascuno è prigioniero delle proprie ossessioni, complessivamente rubricabili sotto la voce Caso (da intendersi come casualità e destino), macrocategoria che, fin dal primo film e in forme sempre variate (incidenti in agosto, gravidanze involontarie, misoginia delirante, testamenti inaspettati ed escursioni in camper), governa dall’alto le narrazioni di Villeneuve.

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giovedì 10 ottobre 2013

LA JALOUSIE


Il trentenne Louis lascia Clothilde, dalla quale ha avuto la piccola Charlotte, per Claudia e si trasferisce con lei in un piccolo appartamento in affitto. Attore teatrale privo di risorse economiche affidabili, l’uomo è follemente innamorato della nuova compagna che, una volta attrice promettente, non riceve più offerte di lavoro. Louis si adopera per procurarle un ruolo, ma i provini non vanno a buon fine. Complici l’insoddisfazione professionale e le misere condizioni di vita, la loro relazione si degrada progressivamente, spingendo Claudia ad allontanarsi dall’inconsolabile compagno.
Durante i sei mesi della scrittura della sceneggiatura c’era questo titolo sul manoscritto, era posato sul mio comodino, mi sono addormentato e svegliato con questo titolo ogni sera e ogni mattina. Dunque ho pensato che fosse possibile conservarlo. Un giorno avevo provato a chiamare un film La Discorde e molto presto ho rifiutato il titolo, o il titolo mi ha rifiutato. Tuttavia la gelosia è peggio della discordia, ma è anche qualcosa che tutte le persone hanno provato e si rimproverano.

Difficile ed entusiasmante al tempo stesso parlare di un film come La Jalousie. Difficile poiché ci troviamo di fronte a una pellicola ad anni luce dalle migliori opere di Garrel: senza risalire spocchiosamente all’altero purismo degli anni ’60 e ’70, è più che sufficiente pescare a piacimento alcuni titoli dal ventennio successivo come Elle a passé tant d’heures sous les sunlights (1985), J’entends plus la guitare (1991) o il sottostimato Le vent de la nuit (1993) per rendersi conto dell’abissale differenza che li separa da quest’ultima fatica. Se il raffronto è tanto ingeneroso quanto grossolano (sono passati troppi anni, il cinema di Garrel è in continua trasformazione, paragonare questo film alle opere precedenti è fuorviante, bla bla bla…), resta il fatto che La Jalousie ha il sapore di un Garrel infiacchito, svanito, sprovvisto di quel mordente che anche pellicole più vicine cronologicamente possono vantare (senza scomodare Les amants réguliers, basti pensare a La frontière de l’aube).

Quando faccio un film non sono nella volontà o nell’espletamento di un progetto che l’avrebbe preceduto. Non c’è un fantasma del film seguito dalla sua realizzazione, non c’è che la pratica. Scrivendo, filmando, qualcosa si disegna, qualcosa appare nell’atto di fare.

Entusiasmante perché, pur smorzato e in qualche misura pacificato, si tratta di un cinema di una scioltezza assoluta, un cinema che dà l’impressione di farsi sotto i tuoi occhi con disarmante naturalezza. Un cinema che genera filmitudine, sentimento di squisita cinematograficità. E non importa che questo sentimento rievochi concetti triti, vetusti e vieti come lo specifico filmico, il cinema puro e altre anticaglie simili: di fatto La Jalousie, situata come ogni altra pellicola di Garrel nel punto di confluenza tra cinema e vita, si smarca da qualsiasi riferimento alla prassi cinematografica contemporanea per dialogare con quella di Bresson (le ellissi o la collocazione fuori campo degli eventi salienti), Pialat (il contributo alla sceneggiatura di Arlette Langmann, Yann Dedet al montaggio), Godard (la struttura narrativa non dominata dai nessi causali), Truffaut (le modulazioni di registro tra leggerezza e gravità che caratterizzano la sequenza del tentato suicidio) e persino col cinema muto (i primi piani insistenti in funzione espressiva, le idee visive cariche di valenze iconografiche come l’abluzione dei piedi fatta da Claudia al vecchio scrittore).

Ho fatto dei film muti, adoro il cinema muto, ne conservo le tracce anche se so bene che oggi non avrò più la possibilità di girare un film muto. […] Per alcuni primi piani utilizzo degli obbiettivi particolari, delle ottiche concepite per filmare molto da vicino e che permettono di dare un’espressività incredibile ai volti.

Frutto di una sceneggiatura scritta da Garrel con la collaborazione della già menzionata Arlette Langmann, dell’attuale compagna Caroline Deruas e di Mark Cholodenko (cosceneggiatore-dialoghista fisso a partire da Les baisers de secours, 1989), La Jalousie traspone un evento avvenuto quando il cineasta aveva all’incirca la stessa età della piccola Charlotte e suo padre Maurice quella di Louis: “Anche se è un film contemporaneo, è la storia d’amore che mio padre ha vissuto con una donna (ammirando questa donna ho potuto rendere mia madre gelosa senza volerlo). E io ero un bambino allevato da mia madre (nel racconto per il cinema sono la ragazzina)”. Su questa base autobiografica, la sceneggiatura si è articolata alternando scene scritte da un uomo a scene scritte da una donna, dando al film una continua diversità di tono e timbro affettivo: alla fase delle riprese (“écriture à la caméra”, secondo le parole di Garrel) il compito di assicurare l’unità della narrazione, lasciando ampio margine all’improvvisazione e rispettando il più possibile il partito preso del “buona la prima” (partito preso che del resto fa parte del DNA garrelliano).
Per me è importante che lo script sia il risultato di apporti molto diversi. La sceneggiatura finale è un collage dei contributi dei quattro partecipanti. Si parte da un canovaccio molto semplice, ognuno sceglie delle scene, le scrive da solo e poi le mettiamo insieme per vedere il risultato, se abbiamo abbastanza perché l’insieme della storia sia comprensibile.

Scandito dalle due didascalie a tutto schermo J’ai gardé les anges (Ho tenuto gli angeli) e Feu aux poudres (Fuoco alle polveri), La Jalousie non tratta direttamente del sentimento indicato dal titolo, ma, concentrandosi più sugli effetti dell’abbandono e dell’infedeltà che sul timore ossessivo del tradimento, sembra rimandare da una parte agli squilibri che complicavano la relazione tra François e Lille in Les amants réguliers e dall’altra alla loi des essuie-glaces (“legge dei tergicristallo”) enunciata in La frontière de l’aube. Legge formulata in questi termini: “L’amour, c’est comme les essuie-glaces. Quand il y en a un qui s’approche de l’autre, l’autre s’en va. Et quand l’autre fait demi-tour et se rapproche du premier, c’est celui-là qui recule et qui s’en va” (L’amore è come la legge dei tergicristallo. Quando uno si avvicina all’altro, l’altro se ne va. E quando l’altro torna indietro e si riavvicina al primo, è questo che indietreggia e se ne va). Ma se è vero che, nonostante la breve durata (77’), questa incessante altalena amorosa alla lunga pecca d’incisività, è altrettanto vero che a esserne esaltate sono le striature emotive (angosce improvvise, sfioramenti furtivi, le insidie del non detto) e le sfumature interpretative (con la voce di Anna Mouglalis su tutte) che il bianco e nero di Willy Kurant valorizza morbidamente.

Per il film precedente, Un été brûlant, che era a colori, avevo domandato a Willy Kurant che le immagini somigliassero alla pittura a tempera e non a olio come praticamente tutte le immagini a colori al cinema. Qui gli ho chiesto che il bianco e nero somigliasse al carboncino. E non al gesso nero.

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sabato 28 settembre 2013

IN ANOTHER COUNTRY



Uno spartito che si ripete tre volte con variazioni, piccoli cambiamenti. Protagonista Anne, una cinquantenne francese, il palcoscenico in cui si muove è Mohang, una cittadina balneare coreana. Gli episodi sono collegati dalla sceneggiatura improvvisata dalla giovane Woon-jo che, assieme alla madre indebitata, è costretta a soggiornare in una guesthouse per un periodo imprecisato (finché lo zio non avrà risolto i problemi economici).

Non si può certo rimproverare incoerenza a Hong Sang-soo. Il suo cinema, da sempre, orbita attorno alle medesime ossessioni, declinate nelle forme della variazione ludica e sferzante. Complicazioni erotiche iscritte nella figura del triangolo instabile (che l’oggetto del doppio desiderio sia maschile - The Day a Pig Fell into the Well - o femminile - Virgin Stripped Bare by Her Bachelors - non risulta decisivo), protagonisti appartenenti alla categoria dei registi/sceneggiatori, attori, scrittori o pittori (The Day He Arrives, Turning Gate, Night and Day), ambientazioni itineranti (Lost in the Mountains, episodio del Jeonju Digital Project 2009) e il passato che, complici abbondanti irrorazioni di soju, torna a graffiare l’apparente serenità del presente (The Woman Is the Future of Man): tutto ciò, e altro ancora ovviamente, osservato con sguardo limpidamente disincantato, come se tra l’obiettivo della macchina da presa e le vicende rappresentate ci fosse una distanza insormontabile, una superficie vitrea che neppure gli zoom, immancabilmente in controtempo emotivo, sono in grado di perforare o scalfire.

Scandita da episodiche interferenze tra vita e produzione artistica (Woman on the Beach), una ricorsività simile si presta a molteplici letture (sociologiche in prima istanza: frequenti le stilettate alle convenzioni coreane permeate di maschilismo e settarismo), ma è opinione di chi scrive che la poetica di Hong impieghi il repertorio di stereotipi culturali come semplice pretesto per allestire carillon cinematografici in bilico tra il drammatico, il sarcastico e il grottesco. In questo senso il mosaico di ipotesi narrative squadernato da Virgin Stripped Bare by Her Bachelors costituisce il vertice della sua produzione: il gioco di rifrazioni che contraddistingue le due parti della pellicola (stessa storia, stessi personaggi, inquadrature pressoché identiche ma dinamiche sottilmente e sensibilmente differenti) configura una destabilizzante riflessione sulla volubilità delle relazioni sentimentali, sulla casualità delle combinazioni erotiche e sull’inaffidabilità delle forme chiamate a rappresentarle in modo apparentemente definitivo. Qui, detto altrimenti, il capriccio si trasforma in principio d’incertezza cinematografica e il cristallino bianco e nero ne esalta causticamente l’arbitrarietà.

In Another Country non fa altro che riproporre lo schema ampiamente sperimentato da Hong, inquadrando le tre variazioni finzionali all’interno di una cornice esemplarmente evasiva: costretta a soggiornare insieme alla madre indebitata in una località balneare (Mohang), Woon-jo (Jung Yoo-mi) scrive una sceneggiatura tripartita per distendere i nervi, ambientando gli episodi nello stesso luogo in cui, suo malgrado, è obbligata a restare per un periodo indeterminato. Protagonista indiscussa del trittico è Anne (Isabelle Huppert), un’affascinante turista francese. Nel primo pannello veste i panni di una regista di successo simile a quella vista da Woon-jo al Jeonju Film Festival (con ogni probabilità Claire Denis, autrice dell’episodio Aller au diable del Jeonju Digital Project 2011), nel secondo quelli di una moglie fedifraga approdata a Mohang per incontrare l’amante coreano e nel terzo, infine, quelli di una donna lasciata dal marito che si reca nella quieta cittadina insieme a un’amica professoressa per risollevarsi dalla recente delusione matrimoniale. Attorno a lei si dispongono figure più o meno ricorrenti (tra le quali la stessa Woon-ju) che, di volta in volta, la accompagnano in coppia, si fanno attendere, la corteggiano (il bagnino, presente in ciascun segmento con variabile coefficiente di insistenza).

Tra luoghi (il faro, giusto per menzionare il più eclatante), oggetti (l’ombrello prestato ad Anne da Woon-ju) e biforcazioni narrative (il bivio tra il residence e la spiaggia) che tornano a punteggiare i tre esercizi di scrittura distensiva, Hong allestisce l’ennesima ronde all’insegna dell’incontro fugace, dell’infedeltà, della gelosia e della convivialità acidula, incastonando nel primo frammento una breve discussione sulla responsabilità (fare che cosa dobbiamo o cosa possiamo fare?), nel secondo una doppia parentesi fantastico-onirica (materializzazioni dell’uomo atteso e desiderato) e nel terzo una sorta di disputa filosofica con un monaco buddista sulla menzogna, la paura, l’amore, il sesso e il cambiamento (dalla quale Anne ricava svariate tautologie e una penna stilografica). Andare all’affannosa ricerca di un senso stabile al quale ancorare la narrazione o di un appiglio sicuro per arrestare il continuo slittamento sulla levigata aleatorietà delle immagini (nessun ritorno finale sulla giovane sceneggiatrice, nessuna chiusura del cerchio) significherebbe non soltanto negare a In Another Country l’inafferrabilità che ostenta tanto sfacciatamente, ma soprattutto sradicare il cinema di Hong dal cinismo postmoderno (chiedo scusa per l’aggettivo) in cui pare saldamente, corrosivamente piantato.

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mercoledì 4 settembre 2013

COMPLICES


Lione. La polizia rinviene nel fiume il corpo del poco più che diciottenne Vincent, deceduto per strangolamento: spetta ai detective Cagan e Mangin indagare sull’omicidio. Concentrata sugli ultimi due mesi di vita del ragazzo, l’inchiesta rivela non solo la sua vita al margine come membro di una gang di coetanei dedita a piccoli traffici e prostituzione, ma anche l’inizio della storia d’amore con Rebecca, incontrata casualmente in un cybercafè (mentre Vincent adesca un cliente via chat). I due scelgono di vivere una storia simbiotica, favorita da un’analoga solitudine (lui ha lasciato la madre e la sorella per abitare da solo in una roulotte in un bosco, la ragazza è figlia unica con una madre spesso assente per lavoro). Su suggerimento di Rebecca, spinta da curiosità e gelosia nonché dal desiderio di complicità e condivisione, Vincent la coinvolge nella sua attività clandestina.
Esordio al lungometraggio del cineasta elvetico Fréderic Mermoud, classe 1969, Complices testimonia la spiccata duttilità del polar contemporaneo, la sua propensione a farsi contenitore di aggregazioni tematiche ad ampio spettro e veicolo di elaborazione espressiva tutt’altro che incistato nella logora riproposizione di moduli sclerotizzati (si pensi, giusto a titolo di esempio, al più recente Une nuit di Philippe Lefebvre, concentratissima riscrittura della materia noir per eccellenza: la notte). In Complices, film sollecitato da un fatto di cronaca non troppo dissimile da quello messo in scena, la flessibilità del poliziesco si presta addirittura ad accogliere l’ossessione cardine di Mermoud, cineasta che fin dai primi cortometraggi (L’Escalier, Rachel) ha fatto delle “petites transgressions” l’oggetto privilegiato del suo cinema: “Con Complices volevo una nuova volta sondare la questione del desiderio amoroso tra i giovani; e mi sono detto che sarebbe stato interessante iscrivere questo tema in un genere codificato come il polar” (dal pressbook). Ciò che preme a Mermoud, insomma, è precisamente l’attrito tra le convenzioni culturali e la pressione di un desiderio che tende a forzarle, a incrinarle. Questo, di fatto, l’autentico nucleo della pellicola: la complicità del titolo rappresenta la spinta coesiva che permette ai personaggi l’uscita dai tracciati convenzionali, tanto dal punto di vista erotico-sentimentale (per Vincent e Rebecca) quanto da quello deontologico-professionale (per Cagan e Mangin).

Due, talvolta disomogenei tra loro, i piani narrativi di Complices: da un lato l’inchiesta poliziesca, dall’altro la contrapposizione tra dimensioni speculari e distinte, quella dell’adolescenza e quella dell’età adulta. Su questa investigazione parallela, l’indagine dei sentimenti e delle relazioni umane, Mermoud getta uno sguardo rassegnato, uno sguardo che si pacifica solo in parte - e non senza alcune forzature - alla fine del film. L’adolescenza è sì raffigurata nel suo bisogno di sogni e fusione (Vincent vive in una roulotte, una sorta di casa nel bosco, e qui hanno quasi sempre luogo i momenti più teneri e privi di malizia tra i due ragazzi, privi del disincanto e della freddezza con cui vive la sua esistenza di prostituto), ma anche nella perdita brusca e violenta dell’innocenza (dal momento in cui i due entrano in comunicazione con il mondo degli adulti, governato dal principio del piacere momentaneo, dell’appropriazione famelica e oggettuale dei corpi alla ricerca di un godimento univoco). Del mondo degli adulti e del suo deserto rimane poco altro, se non la coppia dei due poliziotti, uniti, oltre che a livello lavorativo, da un’amicizia permeata di lievi sfumature erotiche (Cagan vive da solo in un appartamento asettico e moderno, protetto da un guscio impermeabile persino alle vicende dei più vicini familiari, Mangin cerca l’amore o una gravidanza da infruttuosi incontri su internet).

Scremata la drammaturgia dai residui cronachistici e dai cascami sociologici (“Volevo piuttosto esplorare un certo modo d’essere dei due giovani innamorati, la loro maniera di giocare col loro desiderio, i loro corpi, di trasgredire delle norme sociali e provare una sorta di presente puro”), Mermoud oggettiva cinematograficamente i due piani narrativi differenziandoli in termini di durata, composizione del quadro e valori cromatici. Se le sequenze dedicate ai detective Cagan e Mangin (Gilbert Melki ed Emmanuelle Devos) si sviluppano secondo durate sostanzialmente lineari e compatte, procedono prevalentemente per inquadrature larghe o piani americani e sono fotografate con colori piuttosto freddi e desaturati, quelle consacrate a Vincent e Rebecca (Cyril Descours e Nina Meurisse) si articolano invece su una temporalità frammentaria ed ellittica, sono girate quasi esclusivamente con camera a spalla e immagini ravvicinate e, infine, risaltano per tonalità cromatiche sensibilmente sature e accese. Ne risulta un impianto stilistico altalenante tra poliziesco procedurale e concitazione romanzesca che, pur senza stravolgere il genere di riferimento o spingersi nell’estremismo formale (il pensiero va qui allo splendido giallo/thriller dello stesso anno Amer di Hélène Cattet e Bruno Forzani), trasforma progressivamente i due universi rappresentati in riflessi capovolti di un’affine complicità trasgressiva. Niente di realmente eversivo o radicalmente destabilizzante, beninteso, ma l’ennesima riprova della vitalità del polar contemporaneo nonché l’affermazione di un cineasta che tre anni dopo dirigerà, in collaborazione con Fabrice Gobert, gli ultimi quattro episodi della fortunatissima serie prodotta da Canal + Les Revenants, adattamento dell’omonimo film di Robin Campillo del 2004.

Un ringraziamento a Elisa Schiavi per il contributo.

Recensione pubblicata su www.spietati.it.

sabato 17 agosto 2013

Classifica film dell'anno 2012/2013




Holy Motors
“Ici, au cul du monde, c’est la fête. On est tous ivres, ivres et morts”.

Solo Dio perdona
Triadi tailandesi. Castrazioni in nero.

Camille Claudel 1915
Relazioni e privazioni. Assenza. Vuoto. Cinema.

Post Tenebras Lux
Well here comes Lucifer.

La quinta stagione
Billi disse tutto.

The Pervert’s Guide to Ideology
Inforca gli occhiali, Nada, there is no big Other.

Leones
Fin intellectuelle. Marche funèbre de la pensée.

Leviathan
Senza storia, senza igiene, senza pedagogia.

To the Wonder
“I write on water what I dare not say”.

The Master
“If you leave me now, in the next life you will be my sworn enemy. And I will show you no mercy“.

Cogan - Killing Them Softly
Dominik in conferenza stampa a Cannes: “I’m really into this guy, Žižek”.

Killer Joe
“If you insult me again, I will cut your face off and wear it over my own”.

Spring Breakers
“Just pretend it’s a video game. Like you’re in a fucking movie“.

No - I giorni dell’arcobaleno
Dialettica del mimetismo. Par poco?

Le streghe di Salem
"On a rare occasion, a special child appears".

Zero Dark Thirty
“I’m the motherfucker that found this place. Sir”.

Passion
Se non m’inganno.

Gebo e l'ombra
Comment peut-on expliquer la vie? La vie n’a pas d’explication, elle se déroule.

In Their Room London
Intimità, misura, sfumature.

L’âge atomique
La jeunesse est bien plus ancienne que son âge.

Nella casa
“C’est comment la maison d’une famille normale?”

Les Invisibles/Bambi
L'arte del ritratto. Non vi è trucco, non vi è ricatto.

sabato 20 luglio 2013

TO THE WONDER

Dopo aver visitato, all’apice del loro amore, Mont Saint Michel - in passato conosciuta in Francia come “La Meraviglia” - Marina e Neil arrivano in Oklahoma, dove presto nascono i primi problemi. Marina incontra un prete, anche lui in esilio (Javier Bardem) in lotta per la sua vocazione. Neil ritrova il legame con l’amica d’infanzia Jane (Rachel McAdams). Un’esplorazione dell’amore nelle sue svariate forme. (dal pressbook) 












“Neonata. Apro gli occhi. Fondo. Nella notte eterna. Una scintilla”: sono le prime parole pronunciate dalla voce interiore di Marina (Olga Kurylenko). Parole che rimandano esplicitamente alle dolenti invocazioni di Jack (Sean Penn) in The Tree of Life (“Come ti ho perduto? Mi sono allontanato, ti ho dimenticato”), riattivandone poderosamente il sostrato gnostico. Per la gnosi, dottrina antichissima dalle ramificazioni straordinariamente estese, l’essere umano è caduto nel mondo, gettato nella prigione terrestre, addormentato, ignaro della propria reclusione nella vita mortale e dimentico della scintilla divina che, sopita, dimora in lui. Venire al mondo significa dunque precipitare nell’oscurità della materia, nell’inconsapevolezza della propria origine, nella perdizione. La creazione non è opera della bontà divina, ma il prodotto di una divinità malvagia (Demiurgo): è tenebra, divisione, incompletezza, corruzione del Pleroma (la luminosa pienezza originaria). Creazione sta per catastrofe, in una parola. È forse casuale che in The Tree of Life la cosmogenesi sia accompagnata dal Lacrimosa di Zbigniew Presner (parte del Requiem scritto per l’amico Krzysztof Kieślowski)? Si tratta di un dramma immane e incontrollabile di fronte al quale non si può che piangere.

Ma se The Tree of Life indicava una via di liberazione e risveglio dall’agnosia - l’ignoranza del divino - tramite la figura del fratello prematuramente scomparso (“Seguimi”, sussurrava la voce over del piccolo L.R. a Jack poco prima di condurlo alla spiaggia spirituale del finale), To the Wonder esibisce con derisoria iperbolicità gli ostacoli che si frappongono tra l’uomo e la salvezza. In altri termini, se The Tree of Life era un film soteriologico, To the Wonder è titolo letteralmente ironico: l’amorosa meraviglia evocata e raffigurata non è che un ininterrotto e seducente catalogo di errori. Che cos’è l’amore per un altro essere umano se non l’ennesimo miraggio di felicità terrena? Che cosa se non l’ingannevole, chimerica illusione di una merveille irrimediabilmente compromessa con la materia? Credere nell’incorruttibilità della relazione sentimentale significa consacrarsi alla menzogna, scambiare l’ignoranza per conoscenza, l’apparenza per verità: “Questa certezza è così forte che ti appartengo”, mormora enfaticamente quella stessa Marina che presto tradirà il marito Neil (Ben Affleck), scoprendo dentro di sé l’esistenza di nature conflittuali (“Dio mio, che guerra crudele. Ci sono due donne dentro di me. Una piena di amore per te, l’altra mi tira verso la terra”). Oppure equivale consegnarsi all’arbitrio dell’amato con un’ingenuità tanto vulnerabile quanto sconsiderata: “Ragazza. Ragazzina. Pazza. Eccomi qui. Sì”, bisbiglia Jane (Rachel McAdams) nella gioia caduca del sentimento per Neil, salvo poi trovarsi costretta a pentirsene amaramente (“Pensavo di conoscerti. Ora non credo che tu sia mai stato chi credevo che tu fossi. Tutto quello che avevamo era niente. Tu l’hai reso niente”).

Capriccioso e puerile, in breve umano, l’amor profano rappresentato in To the Wonder attrae e distrae, lusinga e assoggetta a questo mondo, destinando gli individui allo spaesamento e all’angoscia (Marina a Parigi: “Mi sento messa a nudo. Non so dove vado. Torno al mio appartamento e crollo”). E analogamente all’amor profano, l’amor sacro raffigurato in To the Wonder persevera nell’errore inconsapevole: pur striato di venature gnostiche (“Risvegliate l’amore, la presenza divina che dorme in ogni uomo e in ogni donna”), il cristianesimo di Padre Quintana (Javier Bardem) è pesantemente condizionato dall‘appartenenza al clero, vincolato ai suoi vuoti cerimoniali, guidato dalle sue dislocanti esigenze logistiche (il trasferimento nel Kansas occidentale). Il dissidio interiore di Quintana nasce insomma dallo stesso ammonimento che il sacerdote indirizza ai fedeli (“Vogliamo vivere dentro la sicurezza delle leggi. Abbiamo paura di scegliere”): una rassicurante prudenza che lo conduce all’insensibilità spirituale (“Sei presente ovunque, eppure non riesco a vederti. Sei dentro di me, attorno a me e non ho alcuna esperienza di te”) e lo dirotta verso una concezione coercitiva del sentimento amoroso (“L’amore non è solo un sentimento. L’amore è un dovere”).

La ragione di questo incessante errare è piuttosto palese: diversamente da The Tree of Life, in To the Wonder è assente una figura salvifica in grado di trasformare lo spaesamento in occasione di risveglio, l’angoscia in opportunità di conoscenza. In assenza di un salvatore che porti con sé il messaggio di risveglio e liberazione (nella tradizione gnostica il testo esemplare è l’Inno della perla contenuto negli Atti di Tommaso: una lettera affidata a un’aquila che col suo grido e il frullare delle ali desta dal sonno il dimentico destinatario), i personaggi di To the Wonder sono condannati all’errore. Non soltanto Quintana, costretto a dibattersi tra crisi spirituale e disperazione (“Perché ci volti le spalle? Tutto quello che vedo è distruzione. Fallimento. Rovina”), ma anche Marina, talvolta proiettata in celestiali afflati panteistici (“Che cos’è questo amore che ci ama? Che viene dal nulla. Da tutt’intorno. Il cielo. Tu, nuvola, anche tu mi ami”), talaltra impastoiata in paludosi dubbi esistenziali (“Dove siamo quando siamo là? Perché non sempre? Qual è la verità? Ciò che noi sappiamo lassù? O qui in basso?”). L’aquila che compare all’improvviso accanto a lei, evidentemente e ironicamente, non ha recato alcuna lettera.

Da questo punto di vista, posto che sia un punto di vista passabilmente plausibile, The Tree of Life e To the Wonder sono davvero film complementari: non tanto nel senso di una banale e generica consequenzialità/anteriorità (sequel/prequel a seconda dei gusti), quanto e più precisamente nel senso che le due pellicole compongono un dittico di stampo gnostico-cristiano effigiante, nel primo pannello, il percorso di risveglio e conoscenza che porta alla consapevolezza e alla rinascita, mentre, nel secondo, l’impossibilità della liberazione della scintilla imprigionata nel corpo senza l’intervento di un intermediario portatore del richiamo rivelatore. Non sorprende dunque che l’impronta stilistica delle due pellicole sia sostanzialmente la stessa. Ciononostante, se in The Tree of Life l’andamento rapsodico e magnificente possedeva una solennità trionfante, in To the Wonder l’irrequieto e brancolante movimento della camera comunica un desiderio di trascendenza tanto assillante quanto inappagato. Il visibile, stavolta, non è che mera apparenza, seduzione ingannevole, sdrucciolevole ostacolo materiale. Un’esca attraente e letale che si oggettiva filmicamente anche nel deliberato e crescente disordine compositivo: dopo la prima ora scandita da segmenti di 20’ in cui campeggiano i personaggi principali (Marina e Neil; Padre Quintana; Jane), l’impaginazione del film intreccia e confonde le vicende fino a sfrangiarle e riavvolgerle, lasciando sempre più spazio alle assetate implorazioni del sacerdote (“Inonda le nostre anime col tuo spirito e la tua vita così completamente che le nostre vite possano essere solo un riflesso della tua. Splendi attraverso di noi. Mostraci come cercarti. Siamo stati creati per vederti”).

Postilla cautelativa d’obbligo. La lettura qui proposta non pretende di esaurire la materia narrativa del dittico malickiano né illuminarne le anfrattuosità più nascoste, ma, più ragionevolmente, intende suggerire un’ipotesi interpretativa che chi scrive, consapevole delle semplificazioni implicate, ritiene legittimata dalle pellicole. Pur disambiguando il supposto dittico in termini radicalmente questionabili e a tal punto didattici da renderlo una sorta di prontuario didascalico-allegorico, pare nondimeno ovvio che Malick operi in tutt‘altra maniera. In modo non dissimile da Marina (“Scrivo sull’acqua quello che non oso dire”), il sessantanovenne regista di Waco scrive cripticamente sulla pellicola ciò che non oserebbe proclamare apertamente: a noi entusiastici spettatori e infervorati esegeti la libertà di formulare interpretazioni (o sovrainterpretazioni) con le risorse intellettuali, grandi o piccole che siano, di cui disponiamo.

Pubblicata su www.spietati.it.

martedì 9 luglio 2013

OPERAZIONE DIABOLICA

Arthur Hamilton, cinquantenne dirigente di banca, è perfettamente inserito nella routine metropolitana: viaggia in treno da Scarsdale a New York per recarsi al lavoro e al ritorno lo attende la premurosa moglie Emily. La figlia Sally è sposata con un dottore e vive felicemente altrove. Questa monotona e rassicurante quotidianità è tuttavia sconvolta da alcune telefonate notturne di Charlie, vecchio amico che egli crede morto da tempo. Persuaso lo scettico dirigente con prove schiaccianti, il redivivo Charlie invita l’amico a presentarsi il giorno dopo presso un misterioso indirizzo con lo pseudonimo Wilson, alludendo alla possibilità di cambiare radicalmente vita. Ad accogliere il signor Wilson è una compagnia segreta che, dietro cospicuo compenso, si preoccupa di fornire ai clienti una nuova identità, una nuova professione e una nuova residenza. Vinte le iniziali remore, firmato il contratto con la società segreta e sottoposto a un intervento di chirurgia plastica integrale, l’ex dirigente di banca rinasce come Antiochus “Tony” Wilson, pittore affermato residente a Malibu, solo al mondo e sollevato da ogni responsabilità nei confronti dell’esistenza precedente. Ma la rinascita si rivelerà meno appagante del previsto.

 

IL REGISTA

Solido regista d’azione e inseguimenti automobilistici? Fantasioso cantore della Cold War Paranoia? Cineasta d’impegno civile? Professionista televisivo con frequenti e altalenanti escursioni cinematografiche? Provate ad appiccicare una di queste etichette alla figura di John Frankenheimer e vedrete che si staccherà immediatamente: se c’è un regista che sfugge all’incasellamento critico e alla storicizzazione pacifica, ebbene questo è proprio l’autore di The Manchurian Candidate (1962) e Seven Days in May. Nato a New York nel 1930 e deceduto a Los Angeles nel 2002, in più di cinquant’anni d’attività Frankenheimer ha accumulato un corpus letteralmente impressionante: più di 150 lavori televisivi, numerosi commercial e 35 lungometraggi cinematografici. L’imprinting è inconfondibilmente televisivo: dopo una breve esperienza nella Air Force’s Motion Picture Squadron (la divisione cinematografica dell’aeronautica), durante la quale si appropria dei rudimenti tecnici girando documentari e filmati d’esercitazione, nel 1953 Frankenheimer entra avventurosamente nella scuderia CBS (Columbia Broadcasting System) in qualità di associate director, coadiuvando, tra gli altri, Sidney Lumet nel popolare programma You Are There. Rivelatosi affidabile e intraprendente, nella primavera del 1954 viene promosso a director con una fulminea investitura sul campo: nel bel mezzo di un episodio della serie Danger, il regista ufficiale abbandona il set in preda a un attacco d’ansia e il ventiquattrenne Frankenheimer si vede costretto a prendere in mano le redini della situazione per portare a termine la trasmissione. Il giorno seguente il neopromosso regista è invitato a rimpiazzare proprio Sidney Lumet in partenza per Hollywood.

È l’inizio di una carriera televisiva che lo vedrà attivo per i successivi sei anni sui set di programmi quali i già citati Danger, You Are There e specialmente Climax! e Playhouse 90: “Those two shows represent most of my work”, dichiarò nel 1969 al critico Gerald Pratley, che diverrà in seguito il suo biografo ufficiale (cfr. The Films of Frankenheimer: Forty Years in Film, Lehigh University Press, 1998). Ed è soprattutto l’inaugurazione di un cantiere espressivo in cui elaborerà e metterà a punto un linguaggio di straordinaria spregiudicatezza visiva, capace di mescolare fluidità di movimento della camera, concentrazione drammatica delle inquadrature e fraseggio nervoso del montaggio (“Ho scoperto che potevo iniziare a visualizzare queste cose nella mia testa quasi immediatamente e credo che lo stile a cui sono pervenuto, qualunque esso sia, derivi dal mio lavoro televisivo”). Un’irrequietezza stilistica che non si sedimenterà mai in repertorio di espedienti, ma manterrà inalterata quella proprietà di rigenerazione e riconfigurazione che è davvero il tratto distintivo del cinema frankenheimeriano. In altri termini, l’impronta televisiva, con la sua frenetica esigenza di reinventarsi continuamente e immediatamente, segna in profondità la prassi registica di Frankenheimer, impedendo al suo stile di fossilizzarsi in calchi più o meno consapevolmente riciclati e assicurandogli al contrario una base dinamica sulla quale ripensarsi e ridisegnarsi a seconda delle occasioni. E se è vero che alcune figure compositive si ripresenteranno puntualmente nel corso degli anni (le inquadrature con un volto in primo piano su un lato dello schermo e il resto della scena che si sviluppa in profondità, giusto per citare l’esempio più eclatante), è altrettanto vero che ogni volta Frankenheimer avvertirà il bisogno di forgiare un’immagine chiave in grado di sintetizzare visivamente il film: “Non mi sento mai sicuro di un film finché, nella mia mente, non so come apparirà. E non è inquadratura per inquadratura, è un’immagine di base”.

Derivante dall’esperienza televisiva, una vitalità simile potrebbe suonare paradossale allo spettatore contemporaneo: non si rimprovera forse al linguaggio catodico, oggi, l’inerzia espressiva, la riproposizione a oltranza di logore convenzioni? La replica storicamente appropriata la offre lo stesso Frankenheimer parlando della serie Playhouse 90: “Una volta qualcuno mi ha chiesto, ‘Come riuscivi a fare lavori di tale qualità allora, paragonati a ciò che fa la televisione adesso?’ La risposta è che la maggior parte delle persone non possedeva un televisore in quei giorni. Possedere un televisore era una cosa di élite e noi avevamo un pubblico di élite.” Televisione come laboratorio linguistico particolarmente vivace e innovativo, dunque, che, insieme a quello teatrale, finirà inevitabilmente per contaminare il contiguo universo cinematografico. Come ricordano Bordwell e Thompson (chiedo clemenza per la citazione manualistica), “La generazione più giovane che iniziò a fare film alla metà degli anni Cinquanta, aveva spesso cominciato dalla televisione. John Frankenheimer, Sidney Lumet, Martin Ritt e Arthur Penn arrivarono al cinema dopo aver fatto la regia di sceneggiati trasmessi in diretta e portarono sul grande schermo un’estetica “televisiva” di grandi primi piani, set claustrofobici, profondità di campo e sceneggiature molto parlate (…)”.

Fatta eccezione per Colpevole innocente (1957), lungometraggio d’esordio tempestato da inconvenienti di lavorazione, e L’uomo di Alcatraz (1962), pellicola d'impegno civile limitata dall'impossibilità di girare nel vero penitenziario di San Francisco, la produzione cinematografica degli anni ’60 di Frankenheimer rappresenta un imponente blocco che intacca il canone della tarda classicità hollywoodiana. Ricorrendo a procedimenti espressivi messi a punto nell’officina televisiva e avvalendosi di cast di assoluta eccellenza (Burt Lancaster, Karl Malden, Angela Lansbury, Janet Leigh) nonché di apporti tecnici di indiscusso valore (Lionel Lindon e James Wong Howe come direttori della fotografia, Richard Sylbert e Ted Haworth alle scenografie, Saul Bass quale visual consultant), il cineasta newyorkese sgretolerà film dopo film le regole visive e produttive del cinema americano degli anni ’50, prediligendo riprese on location e svecchiando moduli rappresentativi ormai incapaci di fare presa sulla realtà.

E se è innegabile che dopo la straordinaria stagione degli anni ’60 - da Il giardino della violenza (1961) a I temerari (1969), passando per Il treno (1964) e Grand Prix (1966) - il cinema di Frankenheimer attraverserà periodi di tumultuosa disomogeneità (peraltro aggravata dai problemi di alcolismo che porteranno il cineasta al ricovero ospedaliero e a un successivo programma di disintossicazione), è altrettanto innegabile che, approssimando per difetto, partorirà almeno un titolo rimarchevole a decennio. Si pensi a Il braccio violento della legge II (1975), eroinico sequel marsigliese dell’ineguagliabile The French Connection (1971) di William Friedkin, a 52 gioca o muori (1986), violentissimo thriller losangelino tratto dal romanzo omonimo di Elmore Leonard e a Ronin (1998), noir crepuscolare di stampo mametiano/melvilliano camuffato da action infarcito di sequenze automobilistiche.

Occorre infine segnalare, tralasciando gli ultimi cinque lavori televisivi - Against the Wall (1994), The Burning Season (1994), Andersonville (1996) George Wallace (1997) e Path to War (2002), tutti premiati con Best Directing Emmy nella loro categoria - la piccola perla Ambush (2001), corto girato per la campagna pubblicitaria The Hire. Commissionata dalla BMW alla Anonymous Content, compagnia di produzione specializzata in online advertising, la serie consta di cinque cortometraggi action-adventure (diventati otto con la seconda stagione) assegnati ad altrettanti registi - oltre a Frankenheimer, Ang Lee, Wong Kar-wai, Guy Pierce e Alejandro González Iñárritu. Provvisto di tutto il necessario dalla casa automobilistica tedesca (budget generoso, comodo programma di dieci giorni di riprese e vetture da maltrattare a piacimento), il settantunenne cineasta americano gira sei minuti che distillano la quintessenza dinamica del suo cinema: tavolozza desaturata e accentuata profondità di campo (alla fotografia Newton Thomas Sigel, futuro cinematographer di Drive), primissimi piani deformati dal grandangolo, rinuncia agli effetti digitali per le stunt scenes e camere agganciate ai veicoli. Cinema così ferreo e padroneggiato da trasfigurare in sfrecciante e crepitante coreografia metallica.

Ultima considerazione sull’ossessione etica del cinema frankenheimeriano, un’ossessione che nella sua semplicità ha innervato tutta la sua produzione. Scomparso nel luglio 2002, Frankenheimer si è sempre contraddistinto per il peso assegnato all’ideale della libertà, principio costantemente messo in pericolo dalla bestialità degli istinti da una parte e dalla repressività dei codici comportamentali dall’altra. Un cineasta irrinunciabilmente umanista, insomma, che nei personaggi rappresentati e nelle vicende messe in scena ha trovato una sponda esemplare per difendere una concezione dell’autonomia individuale come equidistanza dallo spontaneismo irrazionale e dal conformismo intransigente. Ma se dal punto di vista tematico Frankenheimer è stato un liberal in qualche modo moderato, stilisticamente ha manifestato una spregiudicatezza e un’aggressività assolutamente radicali: nelle sue pellicole il regista newyorkese ha innestato la grammatica televisiva sul linguaggio cinematografico tradizionale, svecchiando i codici della classicità e anticipando il rinnovamento estetico della New Hollywood.

 

LA SCENEGGIATURA

Adattamento dell’omonimo romanzo di David Ely pubblicato nel 1963, lo script di Seconds è opera di Lewis John Carlino, un giovane sceneggiatore newyorkese coinvolto nel progetto da Frankenheimer ed Edward Lewis, produttore col quale negli anni ’60 il cineasta stabilisce un sodalizio che frutterà la realizzazione di Seven Days in May, Seconds, Grand Prix, The Fixer, The Extraordinary Seaman e The Gypsy Moths. La procedura seguita da Lewis e Frankenheimer è la stessa di Sette giorni a maggio: i due scoprono il romanzo, acquistano personalmente i diritti di adattamento e assumono lo sceneggiatore. Di fatto, la lavorazione di Seconds sarebbe dovuta iniziare subito dopo Seven Days in May, ma l’improvvisa chiamata di Frankenheimer sul set francese di The Train per rimpiazzare Arthur Penn, licenziato da Burt Lancaster dopo due settimane di riprese, la fece slittare di più di un anno.
Di ritorno dall’Europa, forte dell’avventurosa esperienza delle riprese on location di The Train, Frankenheimer ha tuttavia le idee più chiare: “Mi ero reso conto che girare film on location era davvero la sola cosa da fare ed ero più che mai convinto che il contenuto del soggetto dovesse essere qualcosa che mi interessava profondamente, poiché, dopotutto, che volessi ammetterlo o meno, avevo passato più di un anno della mia vita su Il treno e non era un soggetto che mi premesse così tanto. Giurai a me stesso che questo non sarebbe più successo”. E nel progetto Seconds Frankenheimer crede fermamente, al punto di coprodurlo e seguire nel dettaglio il suo sviluppo a stretto contatto con Lewis John Carlino, lo scenografo Ted Haworth e il direttore della fotografia James Wong Howe. Il lavoro di condensazione drammatica svolto dal giovane sceneggiatore ha sostanzialmente due linee guida: smascherare la natura illusoria del sogno americano (“la convinzione che tutto ciò che serve nella vita è avere successo economico”) e mantenere intatta la qualità surreale del romanzo per lasciare al cineasta la libertà di concentrarsi su una resa visiva in bilico tra verismo, umori fantascientifici e risvolti orrorifici.

 

GLI ATTORI

Entusiasta del romanzo di Ely e soddisfatto dello script di Carlino, Frankenheimer si trova tuttavia di fronte a spinose difficoltà di casting: l’idea iniziale è quella di utilizzare lo stesso attore per interpretare il protagonista nel doppio ruolo di Artur Hamilton e Tony Wilson. La prima scelta è Kirk Douglas, tuttavia, a causa dei ritardi di lavorazione, l’ipotesi salta. Frankenheimer pensa allora a Laurence Olivier, ma la Paramount, lo studio coinvolto nel finanziamento del film, si oppone poiché ritiene il maturo attore britannico poco attraente per il grande pubblico. Offerta invano a Marlon Brando, la parte viene infine assegnata a Rock Hudson, una delle star hollywoodiane più popolari del periodo. In realtà il retroscena dell’assegnazione è molto meno impersonale di quanto sembri: “Un amico, a mia insaputa, aveva dato la sceneggiatura a Rock Hudson e Rock mi ha chiamato chiedendomi se potevamo incontrarci. Voleva interpretare il ruolo più di ogni altra cosa. Ero molto colpito da quello che diceva e pensai, ‘Perché no? Credo che potrebbe funzionare’”. Preoccupato dalla difficoltà del doppio ruolo (“I’m not that good an actor to be able to make the transformation”, confessò umilmente al regista), Hudson spinse Frankenheimer a cambiare idea: “All’improvviso realizzai che questo era il modo per fare il film, che lo stesso attore non poteva interpretare entrambe le parti”.

Il problema assume dunque un’altra fisionomia: non più come rendere credibile la trasformazione (occorre ricordare che nel film c’è una sequenza in cui Wilson fa visita alla vedova Hamilton), ma trovare un attore sconosciuto sulla cinquantina per interpretare la prima parte della pellicola. Il colpo di genio di Frankenheimer consiste nello scritturare l’amico John Randolph, attore inserito nella lista nera a partire dal 1955 per essersi rifiutato di collaborare col Comitato per le attività antiamericane (House Committee on Un-American Activities) e praticamente scomparso dagli schermi. Sarcasticamente, la rinascita inscenata nel film coincide con la sua rinascita cinematografica, dal momento che Randolph è l’ultimo attore blacklisted a riguadagnare l’impiego a Hollywood. Tuttavia Randolph non è il solo interprete che Frankenheimer pesca tra le figure inserite dalla lista nera: anche Jeff Corey (Mr. Ruby, il primo funzionario della compagnia incontrato da Hamilton) e Will Geer (The Old Man, il vecchio capo dell’organizzazione) si erano rifiutati di cooperare con l’HUAC nei primi anni ’50: in questo senso Seconds si configura come occasione di riabilitazione professionale per attori colpiti dalla proscrizione maccartista.

 

GLI ALTRI

I titoli di testa di Saul Bass, che lo stesso anno collaborerà nuovamente con Frankenheimer in Grand Prix con la più consistente qualifica di visual consultant, sono ovviamente il primo contributo da segnalare: oltre a creare un’atmosfera oscuramente destabilizzante, introducono l’ossessione centrale del film, vale a dire la distorsione operata sull’individuo dagli apparati sociali (“In Seconds la distorsione era terribilmente importante. Come la società ha distorto quest’uomo, che cosa la compagnia lo ha fatto diventare e infine, quando sta andando a morte, la completa distorsione della realtà - il fatto che è tutto totalmente insensato”). Plasticamente destrutturanti ed estremamente ravvicinate, le immagini di un volto non troppo dissimile da quello di Hamilton vennero create nella camera tramite il ricorso a lenti macro e a uno specchio flessibile.

Impossibile non menzionare gli straordinari set allestiti dall’art director Ted Haworth: scenografie pensate e arrangiate in funzione espressiva sotto la supervisione del regista in strettissima collaborazione col direttore della fotografia James Wong Howe. Alcuni set furono disegnati con deformazioni prospettiche e fotografati con lenti normali, mentre altri furono assemblati senza alterare le proporzioni ma in vista di riprese con grandangoli estremi che ne curvassero le superfici. Frutto dell’inventiva di Haworth sono ovviamente gli uffici della compagnia (uno spazio labirintico attraversato da un corridoio lungo il quale si affacciano stanze comunicanti, una sala d’attesa e una camera operatoria) e la stanza da letto nella quale Arthur Hamilton, circondato da una scenografia in bilico tra caligarismo e surrealismo, molesta una donna in camicia da notte. Tra prospettive impossibili e ondulazioni marcatissime, la scena del presunto stupro, insieme alla sequenza finale, rappresenta il culmine psichedelico-allucinatorio dell’intero film (“I designed the hallucination set because it had to be almost psychedelic”).
Jerry Goldsmith, incontrato durante il periodo CBS nelle serie di Climax! e Playhouse 90 e già autore del tambureggiante score di Seven Days in May, compone per Seconds una partitura essenzialmente giocata su opprimenti sonorità organistiche che tendono ad avvolgere le immagini in un’atmosfera incubica (amplificata dalle risonanze del vibrafono). Una coltre musicale che tuttavia non disdegna sporadiche aperture orchestrali all’insegna di morbidi pizzicati o intrecci tra archi ariosamente malinconici e cristallini acuti pianistici. Se la nota dominante è quella dell’incubo grave, il tema secondario si insinua con straziante dolcezza nelle pieghe dell’elegia dolente e disperata.

Ma l’apporto senza ombra di dubbio più determinante è quello del sessantasettenne direttore della fotografia James Wong Howe. Maestro del chiaroscuro e del deep focus con dieci anni buoni d’anticipo sul più celebre Gregg Toland, il blasonato Howe (già vincitore di un Oscar nel 1955 grazie alla fotografia di The Rose Tattoo) fu fortemente voluto da Frankenheimer per le comprovate qualità tecniche e soprattutto per l’inesauribile vena sperimentale. Il terreno d’intesa tra i due si stabilì subito nell’impiego massiccio ed esteticamente determinante del fisheye (9.7mm fisheye lens), un obbiettivo grandangolare in grado di coprire un campo visivo estremamente ampio, producendo accentuate curvature laterali. Alternando ottiche da 9,7mm, 18 e 24mm, Howe e Frankenheimer impressero al film quel coefficiente di deformazione figurativa che sconcertò gli spettatori del periodo decretandone l’immediata sottovalutazione, ma che nel corso degli anni ha fatto di Seconds un classico a pieno titolo: “People think it‘s a classic now. So, no, I don’t think it was underrated”.

 

IL FILM

Presentato al festival di Cannes del 1966 tra fischi e ululati di disapprovazione, Seconds venne bollato come un film crudele e inumano: le reazioni furono così ostili che Frankenheimer si rifiutò di lasciare Monte Carlo (dove stava girando Grand Prix) per partecipare alla conferenza stampa. Fu soprattutto la critica francese/europea a scagliarsi contro la pellicola, mentre la stampa britannica/americana rispose in modo più sfumato. Gerald Pratley riporta, senza citare la fonte, la lungimirante osservazione di un critico che si espresse in termini assai perentori: “nell’arco di dieci anni, la Cinémathèque di Parigi organizzerà una retrospettiva sull’opera di Frankenheimer e Seconds sarà definito un capolavoro”. Ma, al netto di questa voce fuori dal coro, l’accoglienza cannense si rivelò così deludente che la Paramount si guardò bene dal promuovere adeguatamente l’uscita americana del film, destinandolo a una rapida scomparsa dalle sale. L’insuccesso critico e commerciale della pellicola, che Frankenheimer aveva fortemente voluto a Cannes, colpì molto duramente il regista: “For me Seconds was a terrible failure. It was a commercial disaster. And that’s with the biggest star in the business at the time, Rock Hudson, in it”.

Assai curiosamente è Frankenheimer stesso a rimproverare al suo ottavo lungometraggio cinematografico, uscito in Italia nel febbraio del 1967 col discutibile titolo Operazione diabolica, un limite strutturale di carattere drammatico: “Credo che il problema del film fosse la mancanza del secondo atto. In altri termini non abbiamo chiarito perché [Wilson] non apprezzasse la nuova vita. E penso che gli spettatori confondano questo con l’idea della trasformazione di John Randolph in Rock Hudson. Se fossimo riusciti a drammatizzare sufficientemente il secondo atto, nessuno si sarebbe posto questo interrogativo; ma non lo abbiamo fatto, perciò il film è risultato oscuro”. Eppure, al di là delle dichiarazioni frankenheimeiriane, il prefinale di Seconds fornisce tutti gli elementi necessari a comprendere l’insoddisfazione conseguente alla rinascita. All’amico Charlie (Murray Hamilton) incontrato nella sala d’attesa della compagnia, Wilson dice a chiare note: “The years I've spent trying to get all the things I was told were important… That I was supposed to want! Things! Not people or meaning. Just things. And California was the same. They made the same decisions for me all over again and they were the same things, really.” Lo scontento deriva dalla mancanza di autonomia: tanto nella vita di Hamilton quanto in quella di Wilson, i desideri e le aspirazioni sono stati fissati da entità esterne e presuppongono l’adesione a codici di comportamento prestabiliti.

In entrambi i casi la supposta felicità è vincolata a protocolli normativi: adattamento sociale nella prima vita, edonismo coercitivo nella seconda. Il sogno di Wilson, inevitabilmente condannato a schiantarsi contro le regole economiche della compagnia, è avere una terza chance per decidere liberamente e vivere un’esistenza finalmente significativa: “A new face and a name. I’ll do the rest. I know it's going to be different”. Ma, rifiutandosi di fornire un nuovo cliente all’organizzazione e credendo di avere diritto a una nuova opportunità, Wilson fraintende la natura esclusivamente economica dell’organizzazione e firma inconsapevolmente la propria condanna a morte. L’ideologia affaristica non contempla sprechi o scrupoli morali: pretendere un’alternativa significa essere liquidati. In questo senso il proposito frankenheimeriano (“I wanted to make a matter-of-fact yet horrifying portrait of big business”) è pienamente riuscito e non è fortuito che Slavoj Žižek, in The Pervert’s Guide to Ideology, dedichi ampio spazio a Seconds, facendo dell’ingenua pretesa di Wilson il perfetto esempio della richiesta sbagliata da rivolgere all’ideologia. A tenere banco, come già osservato, è l’ossessione frankenheimeriana della libertà individuale, costantemente messa a repentaglio dalla bestialità degli istinti da una parte e dal conformismo intransigente dall’altra: in Seconds è proprio quest’ultima stortura a intrappolare il protagonista, tanto nell’illusione del benessere economico quanto nel rigenerante miraggio escapista.

Ma l’aspetto di gran lunga più importante di Operazione diabolica è di ordine storico-estetico: detto molto chiaramente, chi scrive ritiene Seconds il film che inaugura la stagione neohollywoodiana con un anno d’anticipo rispetto al canonico The Graduate (1967). Non tanto per motivi produttivi (partnership tra una major e una casa di produzione indipendente con partecipazione del regista stesso) o contenutistico-narrativi (antieroismo, alienazione, incertezza, fragile coerenza della narrazione), quanto per ragioni squisitamente espressive. In quest’ottica, la collaborazione tra Frankenheimer e James Wong Howe si rivelò davvero cruciale: se il sessantasettenne direttore della fotografia garantì la riuscita tecnica delle spericolate riprese, il regista trentaseienne dette libero sfogo alla sua incontenibile aggressività visiva, portando l’equilibrio del film al punto di rottura. Non sorprende che Todd Rainsberg, nella monografia James Wong Howe: Cinematographer, si spinga ad affermare che Seconds "pecca spesso di controllo artistico; riflette una cinepresa impazzita, senza freni. Un tale eccesso non era tra le peculiarità fotografiche di Howe”. Non si tratta di calcolate prodezze tecniche, insomma, ma di vere e proprie torsioni espressive che sconfinano in innovazione linguistica.

Se elencarle una per una sarebbe irragionevole, passare in rassegna le principali può aiutare a valutarne l’entità. In primo luogo occorre menzionare l’uso di numerose Arriflex, cineprese più leggere e maneggevoli delle macchine da presa tradizionali. Per la sequenza d’apertura ambientata nella Grand Central Station di Manhattan, ne vennero utilizzate sette, all’insaputa dei passanti, nascoste e sparpagliate tra edicole, chioschi per le informazioni e ufficio del capostazione. Alcune cineprese furono alloggiate in valigie per ottenere braccanti inquadrature dal basso (valigia in pugno, l’operatore tallonava Randolph attraverso la stazione). Una Arriflex da 18mm fu addirittura agganciata con un telaio semirigido al corpo di un agente della compagnia (Frank Campanella) alle calcagna di Hamilton. Non è esagerato scorgere in questo accorgimento dagli effetti dislocanti una steadicam ante litteram nonché una figura stilistica che verrà ripresa più di trent’anni dopo da Darren Aronofsky in π - Il teorema del delirio (1998).

Girato su un vero convoglio di pendolari all’insegna di un’angoscia crescente, il viaggio in treno di Hamilton verso casa presenta configurazioni visive e di montaggio esplicitamente debitrici della Nouvelle Vague: camera a mano traballante, punti macchina slegati e jump-cutting martellante. L’impressione, come scritto audacemente da qualcuno, è quella di trovarsi di fronte a un episodio di Ai confini della realtà diretto da Jean-Luc Godard. E per filmare l’arrivo di Hamilton a Scarsdale, girato nella locale stazione ferroviaria, Frankenheimer e Howe collocarono alcune hidden cameras in cestini o dietro pannelli informativi: il rifiuto del confinamento nei teatri di posa si associa al rifiuto dell’estetica da Studio. In angoscioso bilico tra semidocumentarismo, espressionismo e surrealismo, l’affilata impronta visiva di Seconds non abbassa la guardia neanche nelle riprese in interni: la sequenza in cui Hamilton si mostra incapace di assecondare le pudiche avance erotiche della moglie (Francis Reid) richiese l’orchestrazione simultanea di ben quattro Arriflex (maneggiate da Howe e dallo stesso Frankenheimer oltre ai due operatori accreditati) per coprire l’intera raggiera di angolazioni con continui scavalcamenti di campo, stridenti variazioni d’illuminazione e inquadrature sghembe.

Eppure l’incisività stilistica di Seconds non si esaurisce nella pirotecnia visiva. Nel 1978, in Il nuovo cinema americano (1967-1975), Franco La Polla scriveva: “Tuttavia all’occorrenza il ritmo sa allentarsi, distendersi in piani-sequenza o comunque in lunghi piani il cui movimento interno suggerisce primamente l’eventuale lentezza dell’azione”. Non è forse questa la sensazione che si prova durante il long take in cui Hamilton incontra il vecchio capo dell’organizzazione (Will Geer), tracciando uno sconfortato bilancio della propria esistenza e finendo per firmare il testamento? In questi sei minuti senza stacchi i fuochi d’artificio sono letteralmente banditi, a imporsi è invece una pensosità statica e tormentata. Una riflessività implacabile veicolata dalla paziente durata che lascia agli interpreti l’opportunità di esprimersi distesamente, dal prodigioso deep focus di Howe e dalla soffocante composizione del quadro (ancora una volta costruito con un volto in primissimo piano su un lato dello schermo e il resto della scena che si sviluppa in profondità): “I think the scene in Seconds between John Randolph and Will Geer, all done in one shot with John Randolph in the foreground and Will Geer in the background (…) is among the best scenes I’ve directed”.

Se delle sequenze del presunto stupro e del finale operatorio si è fatto cenno in precedenza, le ultime due scene che reclamano attenzione riguardano il cocktail party in casa Wilson e il baccanale di Santa Barbara. Ossessionato dall’autenticità, per la sequenza del party Frankenheimer fece realmente ubriacare Hudson. E, per assicurarsi la riuscita delle riprese in una sola sessione, fece ricorso a operatori supplementari, tra i quali il poco più che trentenne John A. Alonzo (proveniente dal documentario e futuro direttore della fotografia per Corman, Sarafian, Ritt, Ashby e De Palma). Arriflex 24mm alla mano, il non accreditato Alonzo apportò alle riprese una tumultuosa immediatezza documentaristica, giungendo persino ad afferrare alcune comparse e spingerle davanti alla cinepresa senza preoccuparsi troppo della messa a fuoco.

Assente dal romanzo e voluta da Frankenheimer per dare al personaggio di Wilson un diversivo liberatorio (“The grape-stomping scene wasn’t in the book, but I needed a scene that was supposed to be his catharsis”), la sequenza bacchica fu realizzata durante l’autentica Feast of Bacchus tenuta annualmente a Santa Barbara, California. Intrisa di umori hippie e girata dallo stesso Frankenheimer, questa scena porta il linguaggio hollywoodiano classico al punto di non ritorno: camera a spalla, immerso in una gigantesca tinozza per la pigiatura dell’uva e letteralmente denudato da una baccante durante le riprese, Frankenheimer perse splendidamente il controllo della visione, calpestando ogni convenzione calligrafica e ogni regola di decenza grammaticale. Corpi che impallano festosamente l’obiettivo, zoomate ingiustificate, volti senza un perché, angolazioni sconclusionate, slip che si abbassano rapinosamente, panoramiche schiaffeggianti, membra lorde di acini e terra, salti dal giorno alla notte di spiritata incoerenza, vino versato sulla lente della cinepresa, pellicola che si sgrana fino a spappolarsi: “I’m dying, and that’s the world... the whole bloody world!”, esclama l’invasata Nora Markus (Salome Jens). Non è solo Nora a morire, sono cinquant’anni di cinema a crepare insieme a lei. Della durata di circa 8’, la sequenza, nonostante i consistenti tagli imposti dal Motion Picture Production Code che paradossalmente ne esacerbarono il sapore orgiastico, fruttò al film il rating B (Morally objectionable in part) da parte della cattolica National Legion of Decency. Mai intervento censorio fu più assurdo e inutile: in Seconds non è tanto ciò che si vede a disturbare la morale ricevuta, quanto, più precisamente e irreparabilmente, come si vede. Epocale.

 

CURIOSITÀ

Del film circolano due copie di lunghezza sensibilmente differente: la prima, censurata, di circa 102’; la seconda, reintegrata delle parti tagliate per l’edizione in dvd (2002), di circa 107’. D’imminente uscita una versione restaurata e corredata di contenuti speciali nella meritoria collana Criterion Collection (1998).
A causa della rumorosa prossimità delle cineprese agli attori, la quasi totalità di Seconds fu girata senza suono. Lungi dal costituire un limite, il carattere esclusivamente ottico delle riprese dette a Howe e Frankenheimer l’occasione di concentrarsi sull’elaborazione visiva del film: “I believe that we are in the movie business, not the sound business. It’s the screen image that is important”.

Pubblicato su www.spietati.it.