Uno spartito che si ripete tre volte con variazioni, piccoli cambiamenti. Protagonista Anne, una cinquantenne francese, il palcoscenico in cui si muove è Mohang, una cittadina balneare coreana. Gli episodi sono collegati dalla sceneggiatura improvvisata dalla giovane Woon-jo che, assieme alla madre indebitata, è costretta a soggiornare in una guesthouse per un periodo imprecisato (finché lo zio non avrà risolto i problemi economici).
Non
si può certo rimproverare incoerenza a Hong Sang-soo. Il suo cinema, da
sempre, orbita attorno alle medesime ossessioni, declinate nelle forme
della variazione ludica e sferzante. Complicazioni erotiche iscritte
nella figura del triangolo instabile (che l’oggetto del doppio desiderio
sia maschile - The Day a Pig Fell into the Well - o femminile - Virgin Stripped Bare by Her Bachelors - non risulta decisivo), protagonisti appartenenti alla categoria dei registi/sceneggiatori, attori, scrittori o pittori (The Day He Arrives, Turning Gate, Night and Day), ambientazioni itineranti (Lost in the Mountains, episodio del Jeonju Digital Project 2009) e il passato che, complici abbondanti irrorazioni di soju, torna a graffiare l’apparente serenità del presente (The Woman Is the Future of Man):
tutto ciò, e altro ancora ovviamente, osservato con sguardo
limpidamente disincantato, come se tra l’obiettivo della macchina da
presa e le vicende rappresentate ci fosse una distanza insormontabile,
una superficie vitrea che neppure gli zoom, immancabilmente in
controtempo emotivo, sono in grado di perforare o scalfire.
Scandita da episodiche interferenze tra vita e produzione artistica (Woman on the Beach),
una ricorsività simile si presta a molteplici letture (sociologiche in
prima istanza: frequenti le stilettate alle convenzioni coreane permeate
di maschilismo e settarismo), ma è opinione di chi scrive che la
poetica di Hong impieghi il repertorio di stereotipi culturali come
semplice pretesto per allestire carillon cinematografici in bilico tra
il drammatico, il sarcastico e il grottesco. In questo senso il mosaico
di ipotesi narrative squadernato da Virgin Stripped Bare by Her Bachelors
costituisce il vertice della sua produzione: il gioco di rifrazioni che
contraddistingue le due parti della pellicola (stessa storia, stessi
personaggi, inquadrature pressoché identiche ma dinamiche sottilmente e
sensibilmente differenti) configura una destabilizzante riflessione
sulla volubilità delle relazioni sentimentali, sulla casualità delle
combinazioni erotiche e sull’inaffidabilità delle forme chiamate a
rappresentarle in modo apparentemente definitivo. Qui, detto altrimenti,
il capriccio si trasforma in principio d’incertezza cinematografica e
il cristallino bianco e nero ne esalta causticamente l’arbitrarietà.
In Another Country
non fa altro che riproporre lo schema ampiamente sperimentato da Hong,
inquadrando le tre variazioni finzionali all’interno di una cornice
esemplarmente evasiva: costretta a soggiornare insieme alla madre
indebitata in una località balneare (Mohang), Woon-jo (Jung Yoo-mi)
scrive una sceneggiatura tripartita per distendere i nervi, ambientando
gli episodi nello stesso luogo in cui, suo malgrado, è obbligata a
restare per un periodo indeterminato. Protagonista indiscussa del
trittico è Anne (Isabelle Huppert), un’affascinante turista francese.
Nel primo pannello veste i panni di una regista di successo simile a
quella vista da Woon-jo al Jeonju Film Festival (con ogni probabilità
Claire Denis, autrice dell’episodio Aller au diable del Jeonju Digital Project 2011),
nel secondo quelli di una moglie fedifraga approdata a Mohang per
incontrare l’amante coreano e nel terzo, infine, quelli di una donna
lasciata dal marito che si reca nella quieta cittadina insieme a
un’amica professoressa per risollevarsi dalla recente delusione
matrimoniale. Attorno a lei si dispongono figure più o meno ricorrenti
(tra le quali la stessa Woon-ju) che, di volta in volta, la accompagnano
in coppia, si fanno attendere, la corteggiano (il bagnino, presente in
ciascun segmento con variabile coefficiente di insistenza).
Tra
luoghi (il faro, giusto per menzionare il più eclatante), oggetti
(l’ombrello prestato ad Anne da Woon-ju) e biforcazioni narrative (il
bivio tra il residence e la spiaggia) che tornano a punteggiare i tre
esercizi di scrittura distensiva, Hong allestisce l’ennesima ronde
all’insegna dell’incontro fugace, dell’infedeltà, della gelosia e della
convivialità acidula, incastonando nel primo frammento una breve
discussione sulla responsabilità (fare che cosa dobbiamo o cosa possiamo
fare?), nel secondo una doppia parentesi fantastico-onirica
(materializzazioni dell’uomo atteso e desiderato) e nel terzo una sorta
di disputa filosofica con un monaco buddista sulla menzogna, la paura,
l’amore, il sesso e il cambiamento (dalla quale Anne ricava svariate
tautologie e una penna stilografica). Andare all’affannosa ricerca di un
senso stabile al quale ancorare la narrazione o di un appiglio sicuro
per arrestare il continuo slittamento sulla levigata aleatorietà delle
immagini (nessun ritorno finale sulla giovane sceneggiatrice, nessuna
chiusura del cerchio) significherebbe non soltanto negare a In Another Country
l’inafferrabilità che ostenta tanto sfacciatamente, ma soprattutto
sradicare il cinema di Hong dal cinismo postmoderno (chiedo scusa per
l’aggettivo) in cui pare saldamente, corrosivamente piantato.
Pubblicata su www.spietati.it
Ho visto l'ultimissimo film di Hong, "Uri Seonhui" ("La nostra Sunhi") e mi è piaciuto parecchio... Regia invisibile, situazioni che si ripetono (ma con personaggi sempre diversi) e un'interessante riflessione sull'identità e sulla percezione di noi stessi da parte degli altri.
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