Il trentenne Louis lascia Clothilde, dalla quale ha avuto la piccola
Charlotte, per Claudia e si trasferisce con lei in un piccolo
appartamento in affitto. Attore teatrale privo di risorse economiche
affidabili, l’uomo è follemente innamorato della nuova compagna che, una
volta attrice promettente, non riceve più offerte di lavoro. Louis si
adopera per procurarle un ruolo, ma i provini non vanno a buon fine.
Complici l’insoddisfazione professionale e le misere condizioni di vita,
la loro relazione si degrada progressivamente, spingendo Claudia ad
allontanarsi dall’inconsolabile compagno.
Durante i sei mesi della scrittura della sceneggiatura c’era
questo titolo sul manoscritto, era posato sul mio comodino, mi sono
addormentato e svegliato con questo titolo ogni sera e ogni mattina.
Dunque ho pensato che fosse possibile conservarlo. Un giorno avevo
provato a chiamare un film La Discorde e molto presto ho
rifiutato il titolo, o il titolo mi ha rifiutato. Tuttavia la gelosia è
peggio della discordia, ma è anche qualcosa che tutte le persone hanno
provato e si rimproverano.
Difficile ed entusiasmante al tempo stesso parlare di un film come La Jalousie.
Difficile poiché ci troviamo di fronte a una pellicola ad anni luce
dalle migliori opere di Garrel: senza risalire spocchiosamente
all’altero purismo degli anni ’60 e ’70, è più che sufficiente pescare a
piacimento alcuni titoli dal ventennio successivo come Elle a passé tant d’heures sous les sunlights (1985), J’entends plus la guitare (1991) o il sottostimato Le vent de la nuit
(1993) per rendersi conto dell’abissale differenza che li separa da
quest’ultima fatica. Se il raffronto è tanto ingeneroso quanto
grossolano (sono passati troppi anni, il cinema di Garrel è in continua
trasformazione, paragonare questo film alle opere precedenti è
fuorviante, bla bla bla…), resta il fatto che La Jalousie
ha il sapore di un Garrel infiacchito, svanito, sprovvisto di quel
mordente che anche pellicole più vicine cronologicamente possono vantare
(senza scomodare Les amants réguliers, basti pensare a La frontière de l’aube).
Quando faccio un film non sono nella volontà o nell’espletamento
di un progetto che l’avrebbe preceduto. Non c’è un fantasma del film
seguito dalla sua realizzazione, non c’è che la pratica. Scrivendo,
filmando, qualcosa si disegna, qualcosa appare nell’atto di fare.
Entusiasmante
perché, pur smorzato e in qualche misura pacificato, si tratta di un
cinema di una scioltezza assoluta, un cinema che dà l’impressione di
farsi sotto i tuoi occhi con disarmante naturalezza. Un cinema che
genera filmitudine, sentimento di squisita cinematograficità. E non
importa che questo sentimento rievochi concetti triti, vetusti e vieti
come lo specifico filmico, il cinema puro e altre anticaglie simili: di
fatto La Jalousie, situata come ogni altra pellicola di
Garrel nel punto di confluenza tra cinema e vita, si smarca da
qualsiasi riferimento alla prassi cinematografica contemporanea per
dialogare con quella di Bresson (le ellissi o la collocazione fuori
campo degli eventi salienti), Pialat (il contributo alla sceneggiatura
di Arlette Langmann, Yann Dedet al montaggio), Godard (la struttura
narrativa non dominata dai nessi causali), Truffaut (le modulazioni di
registro tra leggerezza e gravità che caratterizzano la sequenza del
tentato suicidio) e persino col cinema muto (i primi piani insistenti in
funzione espressiva, le idee visive cariche di valenze iconografiche
come l’abluzione dei piedi fatta da Claudia al vecchio scrittore).
Ho fatto dei film muti, adoro il cinema muto, ne conservo le
tracce anche se so bene che oggi non avrò più la possibilità di girare
un film muto. […] Per alcuni primi piani utilizzo degli obbiettivi
particolari, delle ottiche concepite per filmare molto da vicino e che
permettono di dare un’espressività incredibile ai volti.
Frutto
di una sceneggiatura scritta da Garrel con la collaborazione della già
menzionata Arlette Langmann, dell’attuale compagna Caroline Deruas e di
Mark Cholodenko (cosceneggiatore-dialoghista fisso a partire da Les baisers de secours, 1989), La Jalousie
traspone un evento avvenuto quando il cineasta aveva all’incirca la
stessa età della piccola Charlotte e suo padre Maurice quella di Louis:
“Anche se è un film contemporaneo, è la storia d’amore che mio padre ha
vissuto con una donna (ammirando questa donna ho potuto rendere mia
madre gelosa senza volerlo). E io ero un bambino allevato da mia madre
(nel racconto per il cinema sono la ragazzina)”. Su questa base
autobiografica, la sceneggiatura si è articolata alternando scene
scritte da un uomo a scene scritte da una donna, dando al film una
continua diversità di tono e timbro affettivo: alla fase delle riprese
(“écriture à la caméra”, secondo le parole di Garrel) il compito di
assicurare l’unità della narrazione, lasciando ampio margine
all’improvvisazione e rispettando il più possibile il partito preso del
“buona la prima” (partito preso che del resto fa parte del DNA
garrelliano).
Per me è importante che lo script sia il risultato di apporti
molto diversi. La sceneggiatura finale è un collage dei contributi dei
quattro partecipanti. Si parte da un canovaccio molto semplice, ognuno
sceglie delle scene, le scrive da solo e poi le mettiamo insieme per
vedere il risultato, se abbiamo abbastanza perché l’insieme della storia
sia comprensibile.
Scandito dalle due didascalie a tutto schermo J’ai gardé les anges (Ho tenuto gli angeli) e Feu aux poudres (Fuoco alle polveri), La Jalousie
non tratta direttamente del sentimento indicato dal titolo, ma,
concentrandosi più sugli effetti dell’abbandono e dell’infedeltà che sul
timore ossessivo del tradimento, sembra rimandare da una parte agli
squilibri che complicavano la relazione tra François e Lille in Les amants réguliers e dall’altra alla loi des essuie-glaces (“legge dei tergicristallo”) enunciata in La frontière de l’aube.
Legge formulata in questi termini: “L’amour, c’est comme les
essuie-glaces. Quand il y en a un qui s’approche de l’autre, l’autre
s’en va. Et quand l’autre fait demi-tour et se rapproche du premier,
c’est celui-là qui recule et qui s’en va” (L’amore è come la legge dei
tergicristallo. Quando uno si avvicina all’altro, l’altro se ne va. E
quando l’altro torna indietro e si riavvicina al primo, è questo che
indietreggia e se ne va). Ma se è vero che, nonostante la breve durata
(77’), questa incessante altalena amorosa alla lunga pecca d’incisività,
è altrettanto vero che a esserne esaltate sono le striature emotive
(angosce improvvise, sfioramenti furtivi, le insidie del non detto) e le
sfumature interpretative (con la voce di Anna Mouglalis su tutte) che
il bianco e nero di Willy Kurant valorizza morbidamente.
Per il film precedente, Un été brûlant, che era a colori,
avevo domandato a Willy Kurant che le immagini somigliassero alla
pittura a tempera e non a olio come praticamente tutte le immagini a
colori al cinema. Qui gli ho chiesto che il bianco e nero somigliasse al
carboncino. E non al gesso nero.
Pubblicata su www.spietati.it.
Decisamente meglio dei due film precedenti, ma francamente quello di Garrell è un cinema di cui oggi si potrebbe fare tranquillamente a meno. Fossimo ancora negli anni '60, forse...
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