Giorno del Ringraziamento: le famiglie Dover e Birch stanno serenamente
festeggiando la ricorrenza quando le piccole Anna e Joy, allontanatesi
per pochi minuti dai genitori, spariscono nel nulla. La presenza di un
camper nelle vicinanze indirizza i sospetti verso il conducente che,
intercettato e condotto in stato di fermo, viene rilasciato per
insufficienza di prove e limiti mentali. Alle indagini ufficiali,
coordinate dal detective Loki, si affiancheranno le ricerche solitarie
di Keller Dover, padre di Anna disperato per la scomparsa della figlia e
sempre più diffidente nei confronti dei metodi investigativi della
polizia.
Chi scrive ha coperto l’invero non cospicua filmografia di Denis Villeneuve (classe 1967), dallo stralunato Un 32 août sur terre (1998) allo straziante Incendies (2010), passando per il frastornante Maelström (2000) e il glaciale Polytechnique
(2009). Se quest’ultimo si attesta inequivocabilmente come il suo capo
d’opera, è possibile tracciare un profilo sommario ma non del tutto
inattendibile della produzione del cineasta québécois (escludendo i
corti e mediometraggi poiché non particolarmente indicativi, nonostante i
riconoscimenti internazionali): i primi due lavori quali prove di
elaborazione estetica in bilico tra grottesco e destrutturazione
cronologica, le due pellicole successive come messa a punto di un
controllo stilistico esercitato sulla materia tragica e, infine, approdo
hollywoodiano al servizio di una Major. Si riproporrebbe dunque la
consueta parabola del talento straniero precettato da Hollywood per un
film di genere, se non fosse che Villeneuve, prima di realizzare Prisoners, ha girato Enemy, adattamento di un romanzo di José Saramago (L’uomo duplicato): arthouse movie
interpretato dallo stesso Jake Gyllenhaal, che ha accettato il ruolo
del detective Loki grazie alla relazione professionale stabilita con
Villeneuve sul set di Enemy, e la cui uscita nelle sale
statunitensi è fissata per il febbraio 2014. Non è fortuito che il
regista canadese abbia dato la priorità a questo progetto assai più
libero e sentito col pretesto ufficiale di considerarlo un laboratorio
per perfezionare la direzione attoriale. Non sembra pertanto
irragionevole profilare lo schema altrettanto risaputo del film
personale seguito dalla pellicola anonima/su commissione.
Professionalmente
irreprensibile (il coeniano Roger Deakins alla fotografia, il duo
eastwoodiano Joel Cox e Gary Roach al montaggio), Prisoners
è imperniato sul faccia a faccia tra il già menzionato Gyllenhaal nel
ruolo del detective a capo delle indagini e Hugh Jackman nei panni del
padre disperato e agguerrito. Faccia a faccia dal quale, vuoi per
esigenze di copione vuoi per tonalità espressive, il primo ha gioco
facile nell’imporsi grazie a una recitazione meno caricaturale ed
esteriorizzata. Ma al di là di queste gratificazioni performative, tra
le quali si segnala l’interpretazione in underplay di Melissa Leo nella
parte della torva zia del minus habens Alex (Paul Dano), la prima
pellicola hollywoodiana di Villeneuve non offre supplementari motivi
d’interesse o scandaglio interpretativo, ostentando simbolismi
ingombranti (disseminazione di preghiere e prediche, crocifissi
ciondolanti o tatuati), sciorinando escamotage visivi piuttosto
grossolani (la sostituzione metaforica del rapimento delle bambine con
un movimento di macchina in avanti sulla corteccia di un albero) e
allestendo un’allegoria sull’illiceità morale della tortura (la
necessità di una terza figura istituzionale per scongiurare l’uso
privato e indiscriminato della violenza) che articola la spinosa
questione in termini brutalmente dicotomici. Artificiosità simili non
risparmiano il piano narrativo (limite ben più inficiante, tenuto conto
del grado di tensione richiesto dal genere di riferimento), l’intreccio
dipanandosi faticosamente tra cantine degli orrori, pendagli labirintici
e serpeggianti apparizioni votate al suicidio, per culminare infine
nella rivelazione di un movente diabolicamente macchinoso. Su tutto
incombe il plurale multifunzionale del titolo Prisoners:
ciascuno è prigioniero delle proprie ossessioni, complessivamente
rubricabili sotto la voce Caso (da intendersi come casualità e destino),
macrocategoria che, fin dal primo film e in forme sempre variate
(incidenti in agosto, gravidanze involontarie, misoginia delirante,
testamenti inaspettati ed escursioni in camper), governa dall’alto le
narrazioni di Villeneuve.
Pubblicata su www.spietati.it
Quanta onestà, finalmente! Questa è l'analisi giusta di questo filmetto assurdamente sbrodolato dai più!
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