Lione. La polizia rinviene nel fiume il corpo del poco più che
diciottenne Vincent, deceduto per strangolamento: spetta ai detective
Cagan e Mangin indagare sull’omicidio. Concentrata sugli ultimi due mesi
di vita del ragazzo, l’inchiesta rivela non solo la sua vita al margine
come membro di una gang di coetanei dedita a piccoli traffici e
prostituzione, ma anche l’inizio della storia d’amore con Rebecca,
incontrata casualmente in un cybercafè (mentre Vincent adesca un cliente
via chat). I due scelgono di vivere una storia simbiotica, favorita da
un’analoga solitudine (lui ha lasciato la madre e la sorella per abitare
da solo in una roulotte in un bosco, la ragazza è figlia unica con una
madre spesso assente per lavoro). Su suggerimento di Rebecca, spinta da
curiosità e gelosia nonché dal desiderio di complicità e condivisione,
Vincent la coinvolge nella sua attività clandestina.
Esordio al lungometraggio del cineasta elvetico Fréderic Mermoud, classe 1969, Complices
testimonia la spiccata duttilità del polar contemporaneo, la sua
propensione a farsi contenitore di aggregazioni tematiche ad ampio
spettro e veicolo di elaborazione espressiva tutt’altro che incistato
nella logora riproposizione di moduli sclerotizzati (si pensi, giusto a
titolo di esempio, al più recente Une nuit di Philippe Lefebvre, concentratissima riscrittura della materia noir per eccellenza: la notte). In Complices,
film sollecitato da un fatto di cronaca non troppo dissimile da quello
messo in scena, la flessibilità del poliziesco si presta addirittura ad
accogliere l’ossessione cardine di Mermoud, cineasta che fin dai primi
cortometraggi (L’Escalier, Rachel) ha fatto delle “petites transgressions” l’oggetto privilegiato del suo cinema: “Con Complices
volevo una nuova volta sondare la questione del desiderio amoroso tra i
giovani; e mi sono detto che sarebbe stato interessante iscrivere
questo tema in un genere codificato come il polar” (dal pressbook). Ciò
che preme a Mermoud, insomma, è precisamente l’attrito tra le
convenzioni culturali e la pressione di un desiderio che tende a
forzarle, a incrinarle. Questo, di fatto, l’autentico nucleo della
pellicola: la complicità del titolo rappresenta la spinta coesiva che
permette ai personaggi l’uscita dai tracciati convenzionali, tanto dal
punto di vista erotico-sentimentale (per Vincent e Rebecca) quanto da
quello deontologico-professionale (per Cagan e Mangin).
Due, talvolta disomogenei tra loro, i piani narrativi di Complices:
da un lato l’inchiesta poliziesca, dall’altro la contrapposizione tra
dimensioni speculari e distinte, quella dell’adolescenza e quella
dell’età adulta. Su questa investigazione parallela, l’indagine dei
sentimenti e delle relazioni umane, Mermoud getta uno sguardo
rassegnato, uno sguardo che si pacifica solo in parte - e non senza
alcune forzature - alla fine del film. L’adolescenza è sì raffigurata
nel suo bisogno di sogni e fusione (Vincent vive in una roulotte, una
sorta di casa nel bosco, e qui hanno quasi sempre luogo i momenti più
teneri e privi di malizia tra i due ragazzi, privi del disincanto e
della freddezza con cui vive la sua esistenza di prostituto), ma anche
nella perdita brusca e violenta dell’innocenza (dal momento in cui i due
entrano in comunicazione con il mondo degli adulti, governato dal
principio del piacere momentaneo, dell’appropriazione famelica e
oggettuale dei corpi alla ricerca di un godimento univoco). Del mondo
degli adulti e del suo deserto rimane poco altro, se non la coppia dei
due poliziotti, uniti, oltre che a livello lavorativo, da un’amicizia
permeata di lievi sfumature erotiche (Cagan vive da solo in un
appartamento asettico e moderno, protetto da un guscio impermeabile
persino alle vicende dei più vicini familiari, Mangin cerca l’amore o
una gravidanza da infruttuosi incontri su internet).
Scremata
la drammaturgia dai residui cronachistici e dai cascami sociologici
(“Volevo piuttosto esplorare un certo modo d’essere dei due giovani
innamorati, la loro maniera di giocare col loro desiderio, i loro corpi,
di trasgredire delle norme sociali e provare una sorta di presente
puro”), Mermoud oggettiva cinematograficamente i due piani narrativi
differenziandoli in termini di durata, composizione del quadro e valori
cromatici. Se le sequenze dedicate ai detective Cagan e Mangin (Gilbert
Melki ed Emmanuelle Devos) si sviluppano secondo durate sostanzialmente
lineari e compatte, procedono prevalentemente per inquadrature larghe o
piani americani e sono fotografate con colori piuttosto freddi e
desaturati, quelle consacrate a Vincent e Rebecca (Cyril Descours e Nina
Meurisse) si articolano invece su una temporalità frammentaria ed
ellittica, sono girate quasi esclusivamente con camera a spalla e
immagini ravvicinate e, infine, risaltano per tonalità cromatiche
sensibilmente sature e accese. Ne risulta un impianto stilistico
altalenante tra poliziesco procedurale e concitazione romanzesca che,
pur senza stravolgere il genere di riferimento o spingersi
nell’estremismo formale (il pensiero va qui allo splendido
giallo/thriller dello stesso anno Amer di Hélène Cattet
e Bruno Forzani), trasforma progressivamente i due universi
rappresentati in riflessi capovolti di un’affine complicità
trasgressiva. Niente di realmente eversivo o radicalmente
destabilizzante, beninteso, ma l’ennesima riprova della vitalità del
polar contemporaneo nonché l’affermazione di un cineasta che tre anni
dopo dirigerà, in collaborazione con Fabrice Gobert, gli ultimi quattro
episodi della fortunatissima serie prodotta da Canal + Les Revenants, adattamento dell’omonimo film di Robin Campillo del 2004.
Recensione pubblicata su www.spietati.it.
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