Dopo aver visitato, all’apice del loro amore, Mont Saint Michel - in
passato conosciuta in Francia come “La Meraviglia” - Marina e Neil
arrivano in Oklahoma, dove presto nascono i primi problemi. Marina
incontra un prete, anche lui in esilio (Javier Bardem) in lotta per la
sua vocazione. Neil ritrova il legame con l’amica d’infanzia Jane
(Rachel McAdams). Un’esplorazione dell’amore nelle sue svariate forme.
(dal pressbook)
“Neonata. Apro gli occhi. Fondo. Nella notte eterna. Una scintilla”: sono le prime parole pronunciate dalla voce interiore di Marina (Olga Kurylenko). Parole che rimandano esplicitamente alle dolenti invocazioni di Jack (Sean Penn) in The Tree of Life (“Come ti ho perduto? Mi sono allontanato, ti ho dimenticato”), riattivandone poderosamente il sostrato gnostico. Per la gnosi, dottrina antichissima dalle ramificazioni straordinariamente estese, l’essere umano è caduto nel mondo, gettato nella prigione terrestre, addormentato, ignaro della propria reclusione nella vita mortale e dimentico della scintilla divina che, sopita, dimora in lui. Venire al mondo significa dunque precipitare nell’oscurità della materia, nell’inconsapevolezza della propria origine, nella perdizione. La creazione non è opera della bontà divina, ma il prodotto di una divinità malvagia (Demiurgo): è tenebra, divisione, incompletezza, corruzione del Pleroma (la luminosa pienezza originaria). Creazione sta per catastrofe, in una parola. È forse casuale che in The Tree of Life la cosmogenesi sia accompagnata dal Lacrimosa di Zbigniew Presner (parte del Requiem scritto per l’amico Krzysztof Kieślowski)? Si tratta di un dramma immane e incontrollabile di fronte al quale non si può che piangere.
Ma se The Tree of Life
indicava una via di liberazione e risveglio dall’agnosia - l’ignoranza
del divino - tramite la figura del fratello prematuramente scomparso
(“Seguimi”, sussurrava la voce over del piccolo L.R. a Jack poco prima
di condurlo alla spiaggia spirituale del finale), To the Wonder esibisce con derisoria iperbolicità gli ostacoli che si frappongono tra l’uomo e la salvezza. In altri termini, se The Tree of Life era un film soteriologico, To the Wonder
è titolo letteralmente ironico: l’amorosa meraviglia evocata e
raffigurata non è che un ininterrotto e seducente catalogo di errori.
Che cos’è l’amore per un altro essere umano se non l’ennesimo miraggio
di felicità terrena? Che cosa se non l’ingannevole, chimerica illusione
di una merveille irrimediabilmente compromessa con la materia?
Credere nell’incorruttibilità della relazione sentimentale significa
consacrarsi alla menzogna, scambiare l’ignoranza per conoscenza,
l’apparenza per verità: “Questa certezza è così forte che ti
appartengo”, mormora enfaticamente quella stessa Marina che presto
tradirà il marito Neil (Ben Affleck), scoprendo dentro di sé l’esistenza
di nature conflittuali (“Dio mio, che guerra crudele. Ci sono due donne
dentro di me. Una piena di amore per te, l’altra mi tira verso la
terra”). Oppure equivale consegnarsi all’arbitrio dell’amato con
un’ingenuità tanto vulnerabile quanto sconsiderata: “Ragazza. Ragazzina.
Pazza. Eccomi qui. Sì”, bisbiglia Jane (Rachel McAdams) nella gioia
caduca del sentimento per Neil, salvo poi trovarsi costretta a
pentirsene amaramente (“Pensavo di conoscerti. Ora non credo che tu sia
mai stato chi credevo che tu fossi. Tutto quello che avevamo era niente.
Tu l’hai reso niente”).
Capriccioso e puerile, in breve umano, l’amor profano rappresentato in To the Wonder
attrae e distrae, lusinga e assoggetta a questo mondo, destinando gli
individui allo spaesamento e all’angoscia (Marina a Parigi: “Mi sento
messa a nudo. Non so dove vado. Torno al mio appartamento e crollo”). E
analogamente all’amor profano, l’amor sacro raffigurato in To the Wonder
persevera nell’errore inconsapevole: pur striato di venature gnostiche
(“Risvegliate l’amore, la presenza divina che dorme in ogni uomo e in
ogni donna”), il cristianesimo di Padre Quintana (Javier Bardem) è
pesantemente condizionato dall‘appartenenza al clero, vincolato ai suoi
vuoti cerimoniali, guidato dalle sue dislocanti esigenze logistiche (il
trasferimento nel Kansas occidentale). Il dissidio interiore di
Quintana nasce insomma dallo stesso ammonimento che il sacerdote
indirizza ai fedeli (“Vogliamo vivere dentro la sicurezza delle leggi.
Abbiamo paura di scegliere”): una rassicurante prudenza che lo conduce
all’insensibilità spirituale (“Sei presente ovunque, eppure non riesco a
vederti. Sei dentro di me, attorno a me e non ho alcuna esperienza di
te”) e lo dirotta verso una concezione coercitiva del sentimento amoroso
(“L’amore non è solo un sentimento. L’amore è un dovere”).
La ragione di questo incessante errare è piuttosto palese: diversamente da The Tree of Life, in To the Wonder
è assente una figura salvifica in grado di trasformare lo spaesamento
in occasione di risveglio, l’angoscia in opportunità di conoscenza. In
assenza di un salvatore che porti con sé il messaggio di risveglio e
liberazione (nella tradizione gnostica il testo esemplare è l’Inno della perla contenuto negli Atti di Tommaso:
una lettera affidata a un’aquila che col suo grido e il frullare delle
ali desta dal sonno il dimentico destinatario), i personaggi di To the Wonder
sono condannati all’errore. Non soltanto Quintana, costretto a
dibattersi tra crisi spirituale e disperazione (“Perché ci volti le
spalle? Tutto quello che vedo è distruzione. Fallimento. Rovina”), ma
anche Marina, talvolta proiettata in celestiali afflati panteistici
(“Che cos’è questo amore che ci ama? Che viene dal nulla. Da
tutt’intorno. Il cielo. Tu, nuvola, anche tu mi ami”), talaltra
impastoiata in paludosi dubbi esistenziali (“Dove siamo quando siamo là?
Perché non sempre? Qual è la verità? Ciò che noi sappiamo lassù? O qui
in basso?”). L’aquila che compare all’improvviso accanto a lei,
evidentemente e ironicamente, non ha recato alcuna lettera.
Da questo punto di vista, posto che sia un punto di vista passabilmente plausibile, The Tree of Life e To the Wonder
sono davvero film complementari: non tanto nel senso di una banale e
generica consequenzialità/anteriorità (sequel/prequel a seconda dei
gusti), quanto e più precisamente nel senso che le due pellicole
compongono un dittico di stampo gnostico-cristiano effigiante, nel primo
pannello, il percorso di risveglio e conoscenza che porta alla
consapevolezza e alla rinascita, mentre, nel secondo, l’impossibilità
della liberazione della scintilla imprigionata nel corpo senza
l’intervento di un intermediario portatore del richiamo rivelatore. Non
sorprende dunque che l’impronta stilistica delle due pellicole sia
sostanzialmente la stessa. Ciononostante, se in The Tree of Life l’andamento rapsodico e magnificente possedeva una solennità trionfante, in To the Wonder
l’irrequieto e brancolante movimento della camera comunica un desiderio
di trascendenza tanto assillante quanto inappagato. Il visibile,
stavolta, non è che mera apparenza, seduzione ingannevole,
sdrucciolevole ostacolo materiale. Un’esca attraente e letale che si
oggettiva filmicamente anche nel deliberato e crescente disordine
compositivo: dopo la prima ora scandita da segmenti di 20’ in cui
campeggiano i personaggi principali (Marina e Neil; Padre Quintana;
Jane), l’impaginazione del film intreccia e confonde le vicende fino a
sfrangiarle e riavvolgerle, lasciando sempre più spazio alle assetate
implorazioni del sacerdote (“Inonda le nostre anime col tuo spirito e la
tua vita così completamente che le nostre vite possano essere solo un
riflesso della tua. Splendi attraverso di noi. Mostraci come cercarti.
Siamo stati creati per vederti”).
Postilla
cautelativa d’obbligo. La lettura qui proposta non pretende di esaurire
la materia narrativa del dittico malickiano né illuminarne le
anfrattuosità più nascoste, ma, più ragionevolmente, intende suggerire
un’ipotesi interpretativa che chi scrive, consapevole delle
semplificazioni implicate, ritiene legittimata dalle pellicole. Pur
disambiguando il supposto dittico in termini radicalmente questionabili e
a tal punto didattici da renderlo una sorta di prontuario
didascalico-allegorico, pare nondimeno ovvio che Malick operi in
tutt‘altra maniera. In modo non dissimile da Marina (“Scrivo sull’acqua
quello che non oso dire”), il sessantanovenne regista di Waco scrive
cripticamente sulla pellicola ciò che non oserebbe proclamare
apertamente: a noi entusiastici spettatori e infervorati esegeti la
libertà di formulare interpretazioni (o sovrainterpretazioni) con le
risorse intellettuali, grandi o piccole che siano, di cui disponiamo.
Pubblicata su www.spietati.it.
T'è piaciuto, quindi?
RispondiEliminaE anche TToL? :D
Ebbene sì, mi è piaciuto quanto TToL :)
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