Arthur Hamilton, cinquantenne dirigente di banca, è perfettamente
inserito nella routine metropolitana: viaggia in treno da Scarsdale a
New York per recarsi al lavoro e al ritorno lo attende la premurosa
moglie Emily. La figlia Sally è sposata con un dottore e vive
felicemente altrove. Questa monotona e rassicurante quotidianità è
tuttavia sconvolta da alcune telefonate notturne di Charlie, vecchio
amico che egli crede morto da tempo. Persuaso lo scettico dirigente con
prove schiaccianti, il redivivo Charlie invita l’amico a presentarsi il
giorno dopo presso un misterioso indirizzo con lo pseudonimo Wilson,
alludendo alla possibilità di cambiare radicalmente vita. Ad accogliere
il signor Wilson è una compagnia segreta che, dietro cospicuo compenso,
si preoccupa di fornire ai clienti una nuova identità, una nuova
professione e una nuova residenza. Vinte le iniziali remore, firmato il
contratto con la società segreta e sottoposto a un intervento di
chirurgia plastica integrale, l’ex dirigente di banca rinasce come
Antiochus “Tony” Wilson, pittore affermato residente a Malibu, solo al
mondo e sollevato da ogni responsabilità nei confronti dell’esistenza
precedente. Ma la rinascita si rivelerà meno appagante del previsto.
IL REGISTA
Solido
regista d’azione e inseguimenti automobilistici? Fantasioso cantore
della Cold War Paranoia? Cineasta d’impegno civile? Professionista
televisivo con frequenti e altalenanti escursioni cinematografiche?
Provate ad appiccicare una di queste etichette alla figura di John
Frankenheimer e vedrete che si staccherà immediatamente: se c’è un
regista che sfugge all’incasellamento critico e alla storicizzazione
pacifica, ebbene questo è proprio l’autore di The Manchurian Candidate (1962) e Seven Days in May.
Nato a New York nel 1930 e deceduto a Los Angeles nel 2002, in più di
cinquant’anni d’attività Frankenheimer ha accumulato un corpus
letteralmente impressionante: più di 150 lavori televisivi, numerosi
commercial e 35 lungometraggi cinematografici. L’imprinting è
inconfondibilmente televisivo: dopo una breve esperienza nella Air
Force’s Motion Picture Squadron (la divisione cinematografica
dell’aeronautica), durante la quale si appropria dei rudimenti tecnici
girando documentari e filmati d’esercitazione, nel 1953 Frankenheimer
entra avventurosamente nella scuderia CBS (Columbia Broadcasting System)
in qualità di associate director, coadiuvando, tra gli altri, Sidney
Lumet nel popolare programma You Are There. Rivelatosi affidabile
e intraprendente, nella primavera del 1954 viene promosso a director
con una fulminea investitura sul campo: nel bel mezzo di un episodio
della serie Danger, il regista ufficiale abbandona il set in
preda a un attacco d’ansia e il ventiquattrenne Frankenheimer si vede
costretto a prendere in mano le redini della situazione per portare a
termine la trasmissione. Il giorno seguente il neopromosso regista è
invitato a rimpiazzare proprio Sidney Lumet in partenza per Hollywood.
È l’inizio di una carriera televisiva che lo vedrà attivo per i successivi sei anni sui set di programmi quali i già citati Danger, You Are There e specialmente Climax! e Playhouse 90:
“Those two shows represent most of my work”, dichiarò nel 1969 al
critico Gerald Pratley, che diverrà in seguito il suo biografo ufficiale
(cfr. The Films of Frankenheimer: Forty Years in Film, Lehigh
University Press, 1998). Ed è soprattutto l’inaugurazione di un cantiere
espressivo in cui elaborerà e metterà a punto un linguaggio di
straordinaria spregiudicatezza visiva, capace di mescolare fluidità di
movimento della camera, concentrazione drammatica delle inquadrature e
fraseggio nervoso del montaggio (“Ho scoperto che potevo iniziare a
visualizzare queste cose nella mia testa quasi immediatamente e credo
che lo stile a cui sono pervenuto, qualunque esso sia, derivi dal mio
lavoro televisivo”). Un’irrequietezza stilistica che non si sedimenterà
mai in repertorio di espedienti, ma manterrà inalterata quella proprietà
di rigenerazione e riconfigurazione che è davvero il tratto distintivo
del cinema frankenheimeriano. In altri termini, l’impronta televisiva,
con la sua frenetica esigenza di reinventarsi continuamente e
immediatamente, segna in profondità la prassi registica di
Frankenheimer, impedendo al suo stile di fossilizzarsi in calchi più o
meno consapevolmente riciclati e assicurandogli al contrario una base
dinamica sulla quale ripensarsi e ridisegnarsi a seconda delle
occasioni. E se è vero che alcune figure compositive si ripresenteranno
puntualmente nel corso degli anni (le inquadrature con un volto in primo
piano su un lato dello schermo e il resto della scena che si sviluppa
in profondità, giusto per citare l’esempio più eclatante), è altrettanto
vero che ogni volta Frankenheimer avvertirà il bisogno di forgiare
un’immagine chiave in grado di sintetizzare visivamente il film: “Non mi
sento mai sicuro di un film finché, nella mia mente, non so come
apparirà. E non è inquadratura per inquadratura, è un’immagine di base”.
Derivante
dall’esperienza televisiva, una vitalità simile potrebbe suonare
paradossale allo spettatore contemporaneo: non si rimprovera forse al
linguaggio catodico, oggi, l’inerzia espressiva, la riproposizione a
oltranza di logore convenzioni? La replica storicamente appropriata la
offre lo stesso Frankenheimer parlando della serie Playhouse 90:
“Una volta qualcuno mi ha chiesto, ‘Come riuscivi a fare lavori di tale
qualità allora, paragonati a ciò che fa la televisione adesso?’ La
risposta è che la maggior parte delle persone non possedeva un
televisore in quei giorni. Possedere un televisore era una cosa di élite
e noi avevamo un pubblico di élite.” Televisione come laboratorio
linguistico particolarmente vivace e innovativo, dunque, che, insieme a
quello teatrale, finirà inevitabilmente per contaminare il contiguo
universo cinematografico. Come ricordano Bordwell e Thompson (chiedo
clemenza per la citazione manualistica), “La generazione più giovane che
iniziò a fare film alla metà degli anni Cinquanta, aveva spesso
cominciato dalla televisione. John Frankenheimer, Sidney Lumet, Martin
Ritt e Arthur Penn arrivarono al cinema dopo aver fatto la regia di
sceneggiati trasmessi in diretta e portarono sul grande schermo
un’estetica “televisiva” di grandi primi piani, set claustrofobici,
profondità di campo e sceneggiature molto parlate (…)”.
Fatta eccezione per Colpevole innocente (1957), lungometraggio d’esordio tempestato da inconvenienti di lavorazione, e L’uomo di Alcatraz
(1962), pellicola d'impegno civile limitata dall'impossibilità di
girare nel vero penitenziario di San Francisco, la produzione
cinematografica degli anni ’60 di Frankenheimer rappresenta un imponente
blocco che intacca il canone della tarda classicità hollywoodiana.
Ricorrendo a procedimenti espressivi messi a punto nell’officina
televisiva e avvalendosi di cast di assoluta eccellenza (Burt Lancaster,
Karl Malden, Angela Lansbury, Janet Leigh) nonché di apporti tecnici di
indiscusso valore (Lionel Lindon e James Wong Howe come direttori della
fotografia, Richard Sylbert e Ted Haworth alle scenografie, Saul Bass
quale visual consultant), il cineasta newyorkese sgretolerà film dopo
film le regole visive e produttive del cinema americano degli anni ’50,
prediligendo riprese on location e svecchiando moduli rappresentativi
ormai incapaci di fare presa sulla realtà.
E se è innegabile che dopo la straordinaria stagione degli anni ’60 - da Il giardino della violenza (1961) a I temerari (1969), passando per Il treno (1964) e Grand Prix
(1966) - il cinema di Frankenheimer attraverserà periodi di tumultuosa
disomogeneità (peraltro aggravata dai problemi di alcolismo che
porteranno il cineasta al ricovero ospedaliero e a un successivo
programma di disintossicazione), è altrettanto innegabile che,
approssimando per difetto, partorirà almeno un titolo rimarchevole a
decennio. Si pensi a Il braccio violento della legge II (1975), eroinico sequel marsigliese dell’ineguagliabile The French Connection (1971) di William Friedkin, a 52 gioca o muori (1986), violentissimo thriller losangelino tratto dal romanzo omonimo di Elmore Leonard e a Ronin (1998), noir crepuscolare di stampo mametiano/melvilliano camuffato da action infarcito di sequenze automobilistiche.
Occorre infine segnalare, tralasciando gli ultimi cinque lavori televisivi - Against the Wall (1994), The Burning Season (1994), Andersonville (1996) George Wallace (1997) e Path to War (2002), tutti premiati con Best Directing Emmy nella loro categoria - la piccola perla Ambush (2001), corto girato per la campagna pubblicitaria The Hire.
Commissionata dalla BMW alla Anonymous Content, compagnia di produzione
specializzata in online advertising, la serie consta di cinque
cortometraggi action-adventure (diventati otto con la seconda stagione)
assegnati ad altrettanti registi - oltre a Frankenheimer, Ang Lee, Wong
Kar-wai, Guy Pierce e Alejandro González Iñárritu. Provvisto di tutto il
necessario dalla casa automobilistica tedesca (budget generoso, comodo
programma di dieci giorni di riprese e vetture da maltrattare a
piacimento), il settantunenne cineasta americano gira sei minuti che
distillano la quintessenza dinamica del suo cinema: tavolozza desaturata
e accentuata profondità di campo (alla fotografia Newton Thomas Sigel,
futuro cinematographer di Drive), primissimi piani
deformati dal grandangolo, rinuncia agli effetti digitali per le stunt
scenes e camere agganciate ai veicoli. Cinema così ferreo e
padroneggiato da trasfigurare in sfrecciante e crepitante coreografia
metallica.
Ultima
considerazione sull’ossessione etica del cinema frankenheimeriano,
un’ossessione che nella sua semplicità ha innervato tutta la sua
produzione. Scomparso nel luglio 2002, Frankenheimer si è sempre
contraddistinto per il peso assegnato all’ideale della libertà,
principio costantemente messo in pericolo dalla bestialità degli istinti
da una parte e dalla repressività dei codici comportamentali
dall’altra. Un cineasta irrinunciabilmente umanista, insomma, che nei
personaggi rappresentati e nelle vicende messe in scena ha trovato una
sponda esemplare per difendere una concezione dell’autonomia individuale
come equidistanza dallo spontaneismo irrazionale e dal conformismo
intransigente. Ma se dal punto di vista tematico Frankenheimer è stato
un liberal in qualche modo moderato, stilisticamente ha manifestato una
spregiudicatezza e un’aggressività assolutamente radicali: nelle sue
pellicole il regista newyorkese ha innestato la grammatica televisiva
sul linguaggio cinematografico tradizionale, svecchiando i codici della
classicità e anticipando il rinnovamento estetico della New Hollywood.
LA SCENEGGIATURA
Adattamento dell’omonimo romanzo di David Ely pubblicato nel 1963, lo script di Seconds
è opera di Lewis John Carlino, un giovane sceneggiatore newyorkese
coinvolto nel progetto da Frankenheimer ed Edward Lewis, produttore col
quale negli anni ’60 il cineasta stabilisce un sodalizio che frutterà la
realizzazione di Seven Days in May, Seconds, Grand Prix, The Fixer, The Extraordinary Seaman e The Gypsy Moths. La procedura seguita da Lewis e Frankenheimer è la stessa di Sette giorni a maggio:
i due scoprono il romanzo, acquistano personalmente i diritti di
adattamento e assumono lo sceneggiatore. Di fatto, la lavorazione di Seconds sarebbe dovuta iniziare subito dopo Seven Days in May, ma l’improvvisa chiamata di Frankenheimer sul set francese di The Train per rimpiazzare Arthur Penn, licenziato da Burt Lancaster dopo due settimane di riprese, la fece slittare di più di un anno.
Di ritorno dall’Europa, forte dell’avventurosa esperienza delle riprese on location di The Train, Frankenheimer ha tuttavia le idee più chiare: “Mi ero reso conto che girare film on location era davvero la sola cosa da fare ed ero più che mai convinto che il contenuto del soggetto dovesse essere qualcosa che mi interessava profondamente, poiché, dopotutto, che volessi ammetterlo o meno, avevo passato più di un anno della mia vita su Il treno e non era un soggetto che mi premesse così tanto. Giurai a me stesso che questo non sarebbe più successo”. E nel progetto Seconds Frankenheimer crede fermamente, al punto di coprodurlo e seguire nel dettaglio il suo sviluppo a stretto contatto con Lewis John Carlino, lo scenografo Ted Haworth e il direttore della fotografia James Wong Howe. Il lavoro di condensazione drammatica svolto dal giovane sceneggiatore ha sostanzialmente due linee guida: smascherare la natura illusoria del sogno americano (“la convinzione che tutto ciò che serve nella vita è avere successo economico”) e mantenere intatta la qualità surreale del romanzo per lasciare al cineasta la libertà di concentrarsi su una resa visiva in bilico tra verismo, umori fantascientifici e risvolti orrorifici.
Di ritorno dall’Europa, forte dell’avventurosa esperienza delle riprese on location di The Train, Frankenheimer ha tuttavia le idee più chiare: “Mi ero reso conto che girare film on location era davvero la sola cosa da fare ed ero più che mai convinto che il contenuto del soggetto dovesse essere qualcosa che mi interessava profondamente, poiché, dopotutto, che volessi ammetterlo o meno, avevo passato più di un anno della mia vita su Il treno e non era un soggetto che mi premesse così tanto. Giurai a me stesso che questo non sarebbe più successo”. E nel progetto Seconds Frankenheimer crede fermamente, al punto di coprodurlo e seguire nel dettaglio il suo sviluppo a stretto contatto con Lewis John Carlino, lo scenografo Ted Haworth e il direttore della fotografia James Wong Howe. Il lavoro di condensazione drammatica svolto dal giovane sceneggiatore ha sostanzialmente due linee guida: smascherare la natura illusoria del sogno americano (“la convinzione che tutto ciò che serve nella vita è avere successo economico”) e mantenere intatta la qualità surreale del romanzo per lasciare al cineasta la libertà di concentrarsi su una resa visiva in bilico tra verismo, umori fantascientifici e risvolti orrorifici.
GLI ATTORI
Entusiasta
del romanzo di Ely e soddisfatto dello script di Carlino, Frankenheimer
si trova tuttavia di fronte a spinose difficoltà di casting: l’idea
iniziale è quella di utilizzare lo stesso attore per interpretare il
protagonista nel doppio ruolo di Artur Hamilton e Tony Wilson. La prima
scelta è Kirk Douglas, tuttavia, a causa dei ritardi di lavorazione,
l’ipotesi salta. Frankenheimer pensa allora a Laurence Olivier, ma la
Paramount, lo studio coinvolto nel finanziamento del film, si oppone
poiché ritiene il maturo attore britannico poco attraente per il grande
pubblico. Offerta invano a Marlon Brando, la parte viene infine
assegnata a Rock Hudson, una delle star hollywoodiane più popolari del
periodo. In realtà il retroscena dell’assegnazione è molto meno
impersonale di quanto sembri: “Un amico, a mia insaputa, aveva dato la
sceneggiatura a Rock Hudson e Rock mi ha chiamato chiedendomi se
potevamo incontrarci. Voleva interpretare il ruolo più di ogni altra
cosa. Ero molto colpito da quello che diceva e pensai, ‘Perché no? Credo
che potrebbe funzionare’”. Preoccupato dalla difficoltà del doppio
ruolo (“I’m not that good an actor to be able to make the
transformation”, confessò umilmente al regista), Hudson spinse
Frankenheimer a cambiare idea: “All’improvviso realizzai che questo era
il modo per fare il film, che lo stesso attore non poteva interpretare
entrambe le parti”.
Il
problema assume dunque un’altra fisionomia: non più come rendere
credibile la trasformazione (occorre ricordare che nel film c’è una
sequenza in cui Wilson fa visita alla vedova Hamilton), ma trovare un
attore sconosciuto sulla cinquantina per interpretare la prima parte
della pellicola. Il colpo di genio di Frankenheimer consiste nello
scritturare l’amico John Randolph, attore inserito nella lista nera a
partire dal 1955 per essersi rifiutato di collaborare col Comitato per
le attività antiamericane (House Committee on Un-American Activities) e
praticamente scomparso dagli schermi. Sarcasticamente, la rinascita
inscenata nel film coincide con la sua rinascita cinematografica, dal
momento che Randolph è l’ultimo attore blacklisted a riguadagnare
l’impiego a Hollywood. Tuttavia Randolph non è il solo interprete che
Frankenheimer pesca tra le figure inserite dalla lista nera: anche Jeff
Corey (Mr. Ruby, il primo funzionario della compagnia incontrato da
Hamilton) e Will Geer (The Old Man, il vecchio capo dell’organizzazione)
si erano rifiutati di cooperare con l’HUAC nei primi anni ’50: in
questo senso Seconds si configura come occasione di riabilitazione professionale per attori colpiti dalla proscrizione maccartista.
GLI ALTRI
I titoli di testa di Saul Bass, che lo stesso anno collaborerà nuovamente con Frankenheimer in Grand Prix con la più consistente qualifica di visual consultant,
sono ovviamente il primo contributo da segnalare: oltre a creare
un’atmosfera oscuramente destabilizzante, introducono l’ossessione
centrale del film, vale a dire la distorsione operata sull’individuo
dagli apparati sociali (“In Seconds la distorsione era
terribilmente importante. Come la società ha distorto quest’uomo, che
cosa la compagnia lo ha fatto diventare e infine, quando sta andando a
morte, la completa distorsione della realtà - il fatto che è tutto
totalmente insensato”). Plasticamente destrutturanti ed estremamente
ravvicinate, le immagini di un volto non troppo dissimile da quello di
Hamilton vennero create nella camera tramite il ricorso a lenti macro e a
uno specchio flessibile.
Impossibile
non menzionare gli straordinari set allestiti dall’art director Ted
Haworth: scenografie pensate e arrangiate in funzione espressiva sotto
la supervisione del regista in strettissima collaborazione col direttore
della fotografia James Wong Howe. Alcuni set furono disegnati con
deformazioni prospettiche e fotografati con lenti normali, mentre altri
furono assemblati senza alterare le proporzioni ma in vista di riprese
con grandangoli estremi che ne curvassero le superfici. Frutto
dell’inventiva di Haworth sono ovviamente gli uffici della compagnia
(uno spazio labirintico attraversato da un corridoio lungo il quale si
affacciano stanze comunicanti, una sala d’attesa e una camera
operatoria) e la stanza da letto nella quale Arthur Hamilton, circondato
da una scenografia in bilico tra caligarismo e surrealismo, molesta una
donna in camicia da notte. Tra prospettive impossibili e ondulazioni
marcatissime, la scena del presunto stupro, insieme alla sequenza
finale, rappresenta il culmine psichedelico-allucinatorio dell’intero
film (“I designed the hallucination set because it had to be almost
psychedelic”).
Jerry Goldsmith, incontrato durante il periodo CBS nelle serie di Climax! e Playhouse 90 e già autore del tambureggiante score di Seven Days in May, compone per Seconds
una partitura essenzialmente giocata su opprimenti sonorità
organistiche che tendono ad avvolgere le immagini in un’atmosfera
incubica (amplificata dalle risonanze del vibrafono). Una coltre
musicale che tuttavia non disdegna sporadiche aperture orchestrali
all’insegna di morbidi pizzicati o intrecci tra archi ariosamente
malinconici e cristallini acuti pianistici. Se la nota dominante è
quella dell’incubo grave, il tema secondario si insinua con straziante
dolcezza nelle pieghe dell’elegia dolente e disperata.
Ma
l’apporto senza ombra di dubbio più determinante è quello del
sessantasettenne direttore della fotografia James Wong Howe. Maestro del
chiaroscuro e del deep focus con dieci anni buoni d’anticipo sul più
celebre Gregg Toland, il blasonato Howe (già vincitore di un Oscar nel
1955 grazie alla fotografia di The Rose Tattoo) fu
fortemente voluto da Frankenheimer per le comprovate qualità tecniche e
soprattutto per l’inesauribile vena sperimentale. Il terreno d’intesa
tra i due si stabilì subito nell’impiego massiccio ed esteticamente
determinante del fisheye (9.7mm fisheye lens), un obbiettivo
grandangolare in grado di coprire un campo visivo estremamente ampio,
producendo accentuate curvature laterali. Alternando ottiche da 9,7mm,
18 e 24mm, Howe e Frankenheimer impressero al film quel coefficiente di
deformazione figurativa che sconcertò gli spettatori del periodo
decretandone l’immediata sottovalutazione, ma che nel corso degli anni
ha fatto di Seconds un classico a pieno titolo: “People think it‘s a classic now. So, no, I don’t think it was underrated”.
IL FILM
Presentato al festival di Cannes del 1966 tra fischi e ululati di disapprovazione, Seconds
venne bollato come un film crudele e inumano: le reazioni furono così
ostili che Frankenheimer si rifiutò di lasciare Monte Carlo (dove stava
girando Grand Prix) per partecipare alla conferenza
stampa. Fu soprattutto la critica francese/europea a scagliarsi contro
la pellicola, mentre la stampa britannica/americana rispose in modo più
sfumato. Gerald Pratley riporta, senza citare la fonte, la lungimirante
osservazione di un critico che si espresse in termini assai perentori:
“nell’arco di dieci anni, la Cinémathèque di Parigi organizzerà una
retrospettiva sull’opera di Frankenheimer e Seconds
sarà definito un capolavoro”. Ma, al netto di questa voce fuori dal
coro, l’accoglienza cannense si rivelò così deludente che la Paramount
si guardò bene dal promuovere adeguatamente l’uscita americana del film,
destinandolo a una rapida scomparsa dalle sale. L’insuccesso critico e
commerciale della pellicola, che Frankenheimer aveva fortemente voluto a
Cannes, colpì molto duramente il regista: “For me Seconds was a
terrible failure. It was a commercial disaster. And that’s with the
biggest star in the business at the time, Rock Hudson, in it”.
Assai
curiosamente è Frankenheimer stesso a rimproverare al suo ottavo
lungometraggio cinematografico, uscito in Italia nel febbraio del 1967
col discutibile titolo Operazione diabolica, un limite
strutturale di carattere drammatico: “Credo che il problema del film
fosse la mancanza del secondo atto. In altri termini non abbiamo
chiarito perché [Wilson] non apprezzasse la nuova vita. E penso che gli
spettatori confondano questo con l’idea della trasformazione di John
Randolph in Rock Hudson. Se fossimo riusciti a drammatizzare
sufficientemente il secondo atto, nessuno si sarebbe posto questo
interrogativo; ma non lo abbiamo fatto, perciò il film è risultato
oscuro”. Eppure, al di là delle dichiarazioni frankenheimeiriane, il
prefinale di Seconds fornisce tutti gli elementi
necessari a comprendere l’insoddisfazione conseguente alla rinascita.
All’amico Charlie (Murray Hamilton) incontrato nella sala d’attesa della
compagnia, Wilson dice a chiare note: “The years I've spent trying to
get all the things I was told were important… That I was supposed to
want! Things! Not people or meaning. Just things. And California was the
same. They made the same decisions for me all over again and they were
the same things, really.” Lo scontento deriva dalla mancanza di
autonomia: tanto nella vita di Hamilton quanto in quella di Wilson, i
desideri e le aspirazioni sono stati fissati da entità esterne e
presuppongono l’adesione a codici di comportamento prestabiliti.
In
entrambi i casi la supposta felicità è vincolata a protocolli
normativi: adattamento sociale nella prima vita, edonismo coercitivo
nella seconda. Il sogno di Wilson, inevitabilmente condannato a
schiantarsi contro le regole economiche della compagnia, è avere una
terza chance per decidere liberamente e vivere un’esistenza finalmente
significativa: “A new face and a name. I’ll do the rest. I know it's
going to be different”. Ma, rifiutandosi di fornire un nuovo cliente
all’organizzazione e credendo di avere diritto a una nuova opportunità,
Wilson fraintende la natura esclusivamente economica dell’organizzazione
e firma inconsapevolmente la propria condanna a morte. L’ideologia
affaristica non contempla sprechi o scrupoli morali: pretendere
un’alternativa significa essere liquidati. In questo senso il proposito
frankenheimeriano (“I wanted to make a matter-of-fact yet horrifying
portrait of big business”) è pienamente riuscito e non è fortuito che
Slavoj Žižek, in The Pervert’s Guide to Ideology, dedichi ampio spazio a Seconds,
facendo dell’ingenua pretesa di Wilson il perfetto esempio della
richiesta sbagliata da rivolgere all’ideologia. A tenere banco, come già
osservato, è l’ossessione frankenheimeriana della libertà individuale,
costantemente messa a repentaglio dalla bestialità degli istinti da una
parte e dal conformismo intransigente dall’altra: in Seconds
è proprio quest’ultima stortura a intrappolare il protagonista, tanto
nell’illusione del benessere economico quanto nel rigenerante miraggio
escapista.
Ma l’aspetto di gran lunga più importante di Operazione diabolica è di ordine storico-estetico: detto molto chiaramente, chi scrive ritiene Seconds il film che inaugura la stagione neohollywoodiana con un anno d’anticipo rispetto al canonico The Graduate
(1967). Non tanto per motivi produttivi (partnership tra una major e
una casa di produzione indipendente con partecipazione del regista
stesso) o contenutistico-narrativi (antieroismo, alienazione,
incertezza, fragile coerenza della narrazione), quanto per ragioni
squisitamente espressive. In quest’ottica, la collaborazione tra
Frankenheimer e James Wong Howe si rivelò davvero cruciale: se il
sessantasettenne direttore della fotografia garantì la riuscita tecnica
delle spericolate riprese, il regista trentaseienne dette libero sfogo
alla sua incontenibile aggressività visiva, portando l’equilibrio del
film al punto di rottura. Non sorprende che Todd Rainsberg, nella
monografia James Wong Howe: Cinematographer, si spinga ad affermare che Seconds
"pecca spesso di controllo artistico; riflette una cinepresa impazzita,
senza freni. Un tale eccesso non era tra le peculiarità fotografiche di
Howe”. Non si tratta di calcolate prodezze tecniche, insomma, ma di
vere e proprie torsioni espressive che sconfinano in innovazione
linguistica.
Se
elencarle una per una sarebbe irragionevole, passare in rassegna le
principali può aiutare a valutarne l’entità. In primo luogo occorre
menzionare l’uso di numerose Arriflex, cineprese più leggere e
maneggevoli delle macchine da presa tradizionali. Per la sequenza
d’apertura ambientata nella Grand Central Station di Manhattan, ne
vennero utilizzate sette, all’insaputa dei passanti, nascoste e
sparpagliate tra edicole, chioschi per le informazioni e ufficio del
capostazione. Alcune cineprese furono alloggiate in valigie per ottenere
braccanti inquadrature dal basso (valigia in pugno, l’operatore
tallonava Randolph attraverso la stazione). Una Arriflex da 18mm fu
addirittura agganciata con un telaio semirigido al corpo di un agente
della compagnia (Frank Campanella) alle calcagna di Hamilton. Non è
esagerato scorgere in questo accorgimento dagli effetti dislocanti una
steadicam ante litteram nonché una figura stilistica che verrà ripresa
più di trent’anni dopo da Darren Aronofsky in π - Il teorema del delirio (1998).
Girato
su un vero convoglio di pendolari all’insegna di un’angoscia crescente,
il viaggio in treno di Hamilton verso casa presenta configurazioni
visive e di montaggio esplicitamente debitrici della Nouvelle Vague:
camera a mano traballante, punti macchina slegati e jump-cutting
martellante. L’impressione, come scritto audacemente da qualcuno, è
quella di trovarsi di fronte a un episodio di Ai confini della realtà
diretto da Jean-Luc Godard. E per filmare l’arrivo di Hamilton a
Scarsdale, girato nella locale stazione ferroviaria, Frankenheimer e
Howe collocarono alcune hidden cameras in cestini o dietro pannelli
informativi: il rifiuto del confinamento nei teatri di posa si associa
al rifiuto dell’estetica da Studio. In angoscioso bilico tra
semidocumentarismo, espressionismo e surrealismo, l’affilata impronta
visiva di Seconds non abbassa la guardia neanche nelle
riprese in interni: la sequenza in cui Hamilton si mostra incapace di
assecondare le pudiche avance erotiche della moglie (Francis Reid)
richiese l’orchestrazione simultanea di ben quattro Arriflex (maneggiate
da Howe e dallo stesso Frankenheimer oltre ai due operatori
accreditati) per coprire l’intera raggiera di angolazioni con continui
scavalcamenti di campo, stridenti variazioni d’illuminazione e
inquadrature sghembe.
Eppure l’incisività stilistica di Seconds non si esaurisce nella pirotecnia visiva. Nel 1978, in Il nuovo cinema americano (1967-1975),
Franco La Polla scriveva: “Tuttavia all’occorrenza il ritmo sa
allentarsi, distendersi in piani-sequenza o comunque in lunghi piani il
cui movimento interno suggerisce primamente l’eventuale lentezza
dell’azione”. Non è forse questa la sensazione che si prova durante il
long take in cui Hamilton incontra il vecchio capo dell’organizzazione
(Will Geer), tracciando uno sconfortato bilancio della propria esistenza
e finendo per firmare il testamento? In questi sei minuti senza stacchi
i fuochi d’artificio sono letteralmente banditi, a imporsi è invece una
pensosità statica e tormentata. Una riflessività implacabile veicolata
dalla paziente durata che lascia agli interpreti l’opportunità di
esprimersi distesamente, dal prodigioso deep focus di Howe e dalla
soffocante composizione del quadro (ancora una volta costruito con un
volto in primissimo piano su un lato dello schermo e il resto della
scena che si sviluppa in profondità): “I think the scene in Seconds
between John Randolph and Will Geer, all done in one shot with John
Randolph in the foreground and Will Geer in the background (…) is among
the best scenes I’ve directed”.
Se
delle sequenze del presunto stupro e del finale operatorio si è fatto
cenno in precedenza, le ultime due scene che reclamano attenzione
riguardano il cocktail party in casa Wilson e il baccanale di Santa
Barbara. Ossessionato dall’autenticità, per la sequenza del party
Frankenheimer fece realmente ubriacare Hudson. E, per assicurarsi la
riuscita delle riprese in una sola sessione, fece ricorso a operatori
supplementari, tra i quali il poco più che trentenne John A. Alonzo
(proveniente dal documentario e futuro direttore della fotografia per
Corman, Sarafian, Ritt, Ashby e De Palma). Arriflex 24mm alla mano, il
non accreditato Alonzo apportò alle riprese una tumultuosa immediatezza
documentaristica, giungendo persino ad afferrare alcune comparse e
spingerle davanti alla cinepresa senza preoccuparsi troppo della messa a
fuoco.
Assente
dal romanzo e voluta da Frankenheimer per dare al personaggio di Wilson
un diversivo liberatorio (“The grape-stomping scene wasn’t in the book,
but I needed a scene that was supposed to be his catharsis”), la
sequenza bacchica fu realizzata durante l’autentica Feast of Bacchus
tenuta annualmente a Santa Barbara, California. Intrisa di umori hippie e
girata dallo stesso Frankenheimer, questa scena porta il linguaggio
hollywoodiano classico al punto di non ritorno: camera a spalla, immerso
in una gigantesca tinozza per la pigiatura dell’uva e letteralmente
denudato da una baccante durante le riprese, Frankenheimer perse
splendidamente il controllo della visione, calpestando ogni convenzione
calligrafica e ogni regola di decenza grammaticale. Corpi che impallano
festosamente l’obiettivo, zoomate ingiustificate, volti senza un perché,
angolazioni sconclusionate, slip che si abbassano rapinosamente,
panoramiche schiaffeggianti, membra lorde di acini e terra, salti dal
giorno alla notte di spiritata incoerenza, vino versato sulla lente
della cinepresa, pellicola che si sgrana fino a spappolarsi: “I’m dying,
and that’s the world... the whole bloody world!”, esclama l’invasata
Nora Markus (Salome Jens). Non è solo Nora a morire, sono cinquant’anni
di cinema a crepare insieme a lei. Della durata di circa 8’, la
sequenza, nonostante i consistenti tagli imposti dal Motion Picture
Production Code che paradossalmente ne esacerbarono il sapore
orgiastico, fruttò al film il rating B (Morally objectionable in part)
da parte della cattolica National Legion of Decency. Mai intervento
censorio fu più assurdo e inutile: in Seconds non è
tanto ciò che si vede a disturbare la morale ricevuta, quanto, più
precisamente e irreparabilmente, come si vede. Epocale.
CURIOSITÀ
Del
film circolano due copie di lunghezza sensibilmente differente: la
prima, censurata, di circa 102’; la seconda, reintegrata delle parti
tagliate per l’edizione in dvd (2002), di circa 107’. D’imminente uscita
una versione restaurata e corredata di contenuti speciali nella
meritoria collana Criterion Collection (1998).
A causa della rumorosa prossimità delle cineprese agli attori, la quasi totalità di Seconds fu girata senza suono. Lungi dal costituire un limite, il carattere esclusivamente ottico delle riprese dette a Howe e Frankenheimer l’occasione di concentrarsi sull’elaborazione visiva del film: “I believe that we are in the movie business, not the sound business. It’s the screen image that is important”.
A causa della rumorosa prossimità delle cineprese agli attori, la quasi totalità di Seconds fu girata senza suono. Lungi dal costituire un limite, il carattere esclusivamente ottico delle riprese dette a Howe e Frankenheimer l’occasione di concentrarsi sull’elaborazione visiva del film: “I believe that we are in the movie business, not the sound business. It’s the screen image that is important”.
Pubblicato su www.spietati.it.
Ricordo vagamente questo film e la sua atmosfera paranoica. Devo averlo visto più di una decina di anni fa, e sicuramente nella versione censurata... proverò a recuperarlo!
RispondiEliminaCiao Christian, sono certo che la versione non censurata rinnoverà, amplificandole, le sensazioni provate a suo tempo.
RispondiEliminaUn caro saluto e buona visione.
Ciao, sono "Napoleone Wilson" delle testate cartacee come elettroniche, famose come no, e persino defunte. Ho finito di rivedere proprio ieri "Seconds" nell'al solito molto ben fatto BR Criterion da te accennato in chiusura.. Avevo in programma di scrivere anch 'io una nuova recensione, dopo quella ormai vecchissima del 1989. Ma dopo questa, talmente esaustiva e dettagliata, rischio solo di vergare una ripetizione. Del film che dire, splendido e mi e' piaciuto molto di più che l'ultima lontana volta, dalla registrazione notturna di Raidue ("Seconds" non e' mai uscito in alcuna forma nell'H.V.
RispondiEliminaitaliano), la quale ovviamente non poteva minimamente
rendere giustizia al film quanto il BR, che ci restituisce in
tutto il suo portento l'iper contrastato e talvolta persino
sgranato, B/N di Wong Hove. Una parola di più poteva
forse essere spesa parlando dell'eccezionale interpretazione di un quanto mai sorprendente Roc
k Hudson. Ma anche in questo caso, sono stati versati fiumi d'inchiostro. Ho altresì avuto modo di apprezzare moltissimo la composizione di Jerry Goldsmith, specie per il tema elegiaco e nostalgico che sentiamo nella splendida sequenza della visita di Wilson/Hudson alla sua "vedova" e alla vecchia casa. Richard Anderson il chirurgo plastico che opera "il suo capolavoro", ovvero Wilson, verrà poi scelto come co-protagonista della celebre serie Sci- Fi "L'Uomo da sei milioni di dollari". Vedendo "Seconds" e' facile capire perche', data una certa comunanza tematica.
Ciao NW, grazie del commento e degli spunti di approfondimento. In effetti Seconds è un autentico giacimento: più si scava e più si trova roba. Se non m'inganno, il film è stato trasmesso pure da Rete 4 nei primi anni 2000.
RispondiEliminaGrazie ancora e buone visioni/recensioni.