Cile, 1988: pressato dalla comunità internazionale, Pinochet è costretto
a indire un referendum per chiedere al popolo cileno di prolungare di
altri otto anni il suo potere. Per evitare un altro decennio di
dittatura, il fronte del «no» affida la campagna d’opinione al giovane e
ambizioso pubblicitario René Saavedra: le scarse risorse a disposizione
e la sorveglianza della polizia non impediranno a lui e ai suoi
collaboratori di progettare la geniale strategia comunicativa che li
porterà alla vittoria, assecondando la voglia di libertà di un' intera
nazione (dal catalogo del TFF).
Presentato
nella sezione Quinzaine des Réalisateurs al 65º Festival di Cannes,
dove si è aggiudicato il premio CICAE (Confédération Intenationale des
Cinémas d’Art et d’Essai), il quarto lungometraggio di Pablo Larraìn non
si limita a riprodurre l’agguerrita, giubilatoria e sorprendente
campagna referendaria cilena del 1988, ma, muovendo dalla pièce inedita El Plebiscito
di Antonio Skármeta, penetra nelle pieghe della comunicazione
persuasiva, nei meccanismi della propaganda televisiva, nei dispositivi
del consenso catodico. Rispetto a Tony Manero e Post mortem, in NO
il discorso politico si fa più esplicito e frontale: l’impronta
allegorica e tangenziale dei due film precedenti - nei quali il
protagonista si muoveva sullo sfondo dei tumulti sociali
osservandoli/subendoli passivamente - lascia spazio a un approccio
letterale e dichiaratamente antagonista. La campagna referendaria
anti-Pinochet costituisce il macrotema del film, riassumibile piuttosto
banalmente nel proposito di rendere omaggio a chi ha combattuto e
sconfitto la tirannia con una strategia comunicativa basata sulla
felicità. Ma fermarsi a questo livello significherebbe non cogliere il
movimento dialettico di NO, ignorandone la criticità soggiacente e incasellandolo sbrigativamente nella categoria del film a tema.
Al
contrario, più la pellicola si spinge in profondità, intrufolandosi
nelle regole retoriche della propaganda, più mette in questione il
proprio statuto di film su un evento storico, storicizzato e
videoarchiviato. Addentrandosi nella promozione del dissenso, NO
s’interroga sulla legittimità ideologica di una campagna che combatte
il regime di Pinochet affidandosi a una strategia pubblicitaria figlia
di un potere ancora più subdolo e inestirpabile, quello del colonialismo
culturale di matrice statunitense (ovvero la riduzione del reale a
stimolo pavloviano sotto mentite spoglie). Rovesciare il potere equivale
a debellare il Potere? Vincere a queste condizioni libera dalla
coercizione ideologica? Di dubbio in dubbio il film stesso finisce per
essere risucchiato dalla dialettica che apre: l’impiego di telecamere
d’epoca con sistema di registrazione U-matic fissa sì una distanza
estetico-cronologica tra gli eventi rappresentati e la contemporaneità,
ma al contempo crea un’illusione di omogeneità tra i materiali
d’archivio e le riprese cinematografiche. Ed è proprio in questa
ambiguità tra opposizione politica e compromissione ideologica, tra
discontinuità estetica e continuità mimetica che s’indovina il movimento
di NO, un movimento che non cessa di negare (persino se stesso) senza rinnegarsi.
Recensione già pubblicata su www.spietati.it
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