giovedì 27 dicembre 2012

Cile, 1988: pressato dalla comunità internazionale, Pinochet è costretto a indire un referendum per chiedere al popolo cileno di prolungare di altri otto anni il suo potere. Per evitare un altro decennio di dittatura, il fronte del «no» affida la campagna d’opinione al giovane e ambizioso pubblicitario René Saavedra: le scarse risorse a disposizione e la sorveglianza della polizia non impediranno a lui e ai suoi collaboratori di progettare la geniale strategia comunicativa che li porterà alla vittoria, assecondando la voglia di libertà di un' intera nazione (dal catalogo del TFF).








Presentato nella sezione Quinzaine des Réalisateurs al 65º Festival di Cannes, dove si è aggiudicato il premio CICAE (Confédération Intenationale des Cinémas d’Art et d’Essai), il quarto lungometraggio di Pablo Larraìn non si limita a riprodurre l’agguerrita, giubilatoria e sorprendente campagna referendaria cilena del 1988, ma, muovendo dalla pièce inedita El Plebiscito di Antonio Skármeta, penetra nelle pieghe della comunicazione persuasiva, nei meccanismi della propaganda televisiva, nei dispositivi del consenso catodico. Rispetto a Tony Manero e Post mortem, in NO il discorso politico si fa più esplicito e frontale: l’impronta allegorica e tangenziale dei due film precedenti - nei quali il protagonista si muoveva sullo sfondo dei tumulti sociali osservandoli/subendoli passivamente - lascia spazio a un approccio letterale e dichiaratamente antagonista. La campagna referendaria anti-Pinochet costituisce il macrotema del film, riassumibile piuttosto banalmente nel proposito di rendere omaggio a chi ha combattuto e sconfitto la tirannia con una strategia comunicativa basata sulla felicità. Ma fermarsi a questo livello significherebbe non cogliere il movimento dialettico di NO, ignorandone la criticità soggiacente e incasellandolo sbrigativamente nella categoria del film a tema.

Al contrario, più la pellicola si spinge in profondità, intrufolandosi nelle regole retoriche della propaganda, più mette in questione il proprio statuto di film su un evento storico, storicizzato e videoarchiviato. Addentrandosi nella promozione del dissenso, NO s’interroga sulla legittimità ideologica di una campagna che combatte il regime di Pinochet affidandosi a una strategia pubblicitaria figlia di un potere ancora più subdolo e inestirpabile, quello del colonialismo culturale di matrice statunitense (ovvero la riduzione del reale a stimolo pavloviano sotto mentite spoglie). Rovesciare il potere equivale a debellare il Potere? Vincere a queste condizioni libera dalla coercizione ideologica? Di dubbio in dubbio il film stesso finisce per essere risucchiato dalla dialettica che apre: l’impiego di telecamere d’epoca con sistema di registrazione U-matic fissa sì una distanza estetico-cronologica tra gli eventi rappresentati e la contemporaneità, ma al contempo crea un’illusione di omogeneità tra i materiali d’archivio e le riprese cinematografiche. Ed è proprio in questa ambiguità tra opposizione politica e compromissione ideologica, tra discontinuità estetica e continuità mimetica che s’indovina il movimento di NO, un movimento che non cessa di negare (persino se stesso) senza rinnegarsi.

Recensione già pubblicata su www.spietati.it

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