Lungo le coste di New Bedford, nel Massachusetts, la pesca è un’antica tradizione. Come nel Moby Dick
di Melville, è la metafora dell’eterno scontro tra uomo e ambiente, una
lotta per la sopravvivenza in cui il rispetto convive con il timore e i
sentimenti trascendono la razionalità. In un paesaggio ostile e
impetuoso, navi con la prua puntata verso il mare aperto solcano onde
minacciose, mentre i gabbiani volteggiano in un cielo spesso plumbeo,
dando un’aria suggestiva a una sfida tra uomo, tecnologia e natura che
si attua secondo traiettorie millenarie (dal catalogo del TFF).
Senza storia, senza igiene, senza pedagogia, racconto, cinema-meraviglia, l’uomo briciola per briciola. Esclusivamente questo, e di tutto il resto te ne infischi (Jean Epstein).
Premio FIPRESCI al 65º Festival di Locarno e Premio Speciale della sezione TFFdoc al 30º Torino Film Festival, Leviathan
scaraventa lo spettatore a bordo di un peschereccio al largo delle
coste del Massachusetts. Situazione limite: equipaggio ridotto al
minimo, circostanze ambientali tutt’altro che favorevoli, operazioni di
sfibrante fatica, costante tensione per l’esito della pesca. Eppure Leviathan
non è un documentario cronachistico sui membri dell’equipaggio e sulle
difficili condizioni del loro lavoro, ma una sorta di installazione
galleggiante che si nutre delle continue e feroci sollecitazioni
sensoriali generate dalla navigazione in mare aperto. Inizialmente
interessati a New Bedford, altrimenti nota come “The Whaling City”, la
città nella quale Melville scrisse Moby Dick, Lucien
Castaing-Taylor e Véréna Paravel hanno rapidamente spostato la loro
attenzione dall’industria ittica su terra alla pesca in alto mare non
appena un equipaggio si è reso disponibile a imbarcare una donna
(tradizionalmente avere una donna a bordo significa cattiva fortuna).
Fin
dalla prima uscita (sei in tutto, ciascuna di due settimane circa),
Castaing-Taylor e Paravel hanno percepito la violenza fisica ed emotiva
della situazione e, perdute alcune videocamere durante la turbolenta
navigazione, si sono successivamente procurati una dozzina di GoPro
(videocamere sportive direttamente indossabili dall’operatore e
provviste di custodie di plastica impermeabile). Distribuendo i punti
macchina sull’intera superficie dell’imbarcazione e affidando alcune
videocamere ai pescatori senza dare loro indicazioni, il film si è
trasformato in una vera e propria reazione a ciò che stava succedendo a
bordo. La pluralità di prospettive è insomma divenuta il principio
generativo e compositivo di un progetto non definito a priori, ma
configuratosi liberamente e progressivamente. Interventi notturni sui
meccanismi delle reti a strascico, immagini ultraravvicinate dei pesci
intrappolati, riprese frontali del peschereccio che beccheggia
minacciosamente, evoluzioni ottiche ottenute assicurando la videocamera a
un’asta ora sollevata verso i gabbiani in volo ora immersa nell’acqua
gorgogliante: persino l’audio catturato dalle piccole videocamere,
distorto dalla protezione impermeabilizzante, crea un universo sonoro
tenebrosamente aggressivo, tempestato da riverberi liquidi e rumori
scroscianti. La dimensione viscerale della contingenza - essere lì, in
balìa degli elementi, sospesi in aria o gettati in mare - prende
prepotentemente il sopravvento.
Non ci sono che situazioni, senza capo né coda; senza inizio,
senza metà e senza fine; senza diritto e senza rovescio; si possono
guardare in tutti i sensi; la destra diventa la sinistra; senza limiti
di passato o di avvenire, esse sono il presente (Jean Epstein).
Ma non è soltanto la rappresentazione immersiva e antididascalica a fare di Leviathan
qualcosa che va ben oltre il semplice documentario illustrativo: la
disseminazione dei punti di vista in prospettive non coordinate tra loro
(si va dai particolari a pelo d’acqua sulle bocche di scarico a totali
dall’alto del ponte, passando per primissimi piani nella cabina di
comando) libera il film dalla prigionia dell’autorialità prestabilita.
L’intenzione del testo è quella di distruggere l’intenzione degli autori
stessi, sottrarsi alla schiavitù dell’ordine espositivo, imporsi per
forza di cose. La costellazione di GoPro si rivela particolarmente
adatta a dare lo stesso “peso ontologico” (parole di Véréna Paravel) a
tutti gli elementi in gioco: moltiplicando le fonti di visione e
condividendole collettivamente, il film sembra farsi da solo, al riparo
da ipoteche tematiche e istruzioni pregiudicanti. E se il registro
performativo può rievocare la tranciante crudezza di Le sang des bêtes
(1949) di Georges Franju, gli abbaglianti agguati della bellezza (come
il luccichio delle conchiglie riversate sul ponte) stabiliscono un
dialogo con l’argenteo lirismo di Finis Terrae (1929) di Jean Epstein. Eppure non vi è mai poesia posticcia o conclamata: Leviathan
sviluppa una concatenazione di tipo concreto-astratto-concreto. In
virtù della durata dei piani, il momento della trasfigurazione si
produce spontaneamente tra i contrafforti della concretezza più
stringente: non c’è spazio per appiccicargli addosso simbolismi estorti
per estenuazione. È il caso a lavorare per noi, a sollevarci
dall’obbligo di elucubrare. Che sia lui l’autentico Leviatano?
L’artista è ridotto a far scattare una molla. E la sua stessa
intenzione si smaglia davanti al caso. Armonia di ingranaggi satelliti,
ecco il temperamento. E anche la natura è un’altra. Quest’occhio vede,
pensateci, delle onde che per noi sono impercettibili (Jean Epstein).
Recensione già pubblicata su www.spietati.it.
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