mercoledì 2 gennaio 2013

LEVIATHAN

Lungo le coste di New Bedford, nel Massachusetts, la pesca è un’antica tradizione. Come nel Moby Dick di Melville, è la metafora dell’eterno scontro tra uomo e ambiente, una lotta per la sopravvivenza in cui il rispetto convive con il timore e i sentimenti trascendono la razionalità. In un paesaggio ostile e impetuoso, navi con la prua puntata verso il mare aperto solcano onde minacciose, mentre i gabbiani volteggiano in un cielo spesso plumbeo, dando un’aria suggestiva a una sfida tra uomo, tecnologia e natura che si attua secondo traiettorie millenarie (dal catalogo del TFF).

Senza storia, senza igiene, senza pedagogia, racconto, cinema-meraviglia, l’uomo briciola per briciola. Esclusivamente questo, e di tutto il resto te ne infischi (Jean Epstein).

Premio FIPRESCI al 65º Festival di Locarno e Premio Speciale della sezione TFFdoc al 30º Torino Film Festival, Leviathan scaraventa lo spettatore a bordo di un peschereccio al largo delle coste del Massachusetts. Situazione limite: equipaggio ridotto al minimo, circostanze ambientali tutt’altro che favorevoli, operazioni di sfibrante fatica, costante tensione per l’esito della pesca. Eppure Leviathan non è un documentario cronachistico sui membri dell’equipaggio e sulle difficili condizioni del loro lavoro, ma una sorta di installazione galleggiante che si nutre delle continue e feroci sollecitazioni sensoriali generate dalla navigazione in mare aperto. Inizialmente interessati a New Bedford, altrimenti nota come “The Whaling City”, la città nella quale Melville scrisse Moby Dick, Lucien Castaing-Taylor e Véréna Paravel hanno rapidamente spostato la loro attenzione dall’industria ittica su terra alla pesca in alto mare non appena un equipaggio si è reso disponibile a imbarcare una donna (tradizionalmente avere una donna a bordo significa cattiva fortuna).

La violenza non è il fine, la violenza è il mezzo. Credo che non ci sia nient’altro che la verità che conti, il resto non conta (Georges Franju).

Fin dalla prima uscita (sei in tutto, ciascuna di due settimane circa), Castaing-Taylor e Paravel hanno percepito la violenza fisica ed emotiva della situazione e, perdute alcune videocamere durante la turbolenta navigazione, si sono successivamente procurati una dozzina di GoPro (videocamere sportive direttamente indossabili dall’operatore e provviste di custodie di plastica impermeabile). Distribuendo i punti macchina sull’intera superficie dell’imbarcazione e affidando alcune videocamere ai pescatori senza dare loro indicazioni, il film si è trasformato in una vera e propria reazione a ciò che stava succedendo a bordo. La pluralità di prospettive è insomma divenuta il principio generativo e compositivo di un progetto non definito a priori, ma configuratosi liberamente e progressivamente. Interventi notturni sui meccanismi delle reti a strascico, immagini ultraravvicinate dei pesci intrappolati, riprese frontali del peschereccio che beccheggia minacciosamente, evoluzioni ottiche ottenute assicurando la videocamera a un’asta ora sollevata verso i gabbiani in volo ora immersa nell’acqua gorgogliante: persino l’audio catturato dalle piccole videocamere, distorto dalla protezione impermeabilizzante, crea un universo sonoro tenebrosamente aggressivo, tempestato da riverberi liquidi e rumori scroscianti. La dimensione viscerale della contingenza - essere lì, in balìa degli elementi, sospesi in aria o gettati in mare - prende prepotentemente il sopravvento.

Non ci sono che situazioni, senza capo né coda; senza inizio, senza metà e senza fine; senza diritto e senza rovescio; si possono guardare in tutti i sensi; la destra diventa la sinistra; senza limiti di passato o di avvenire, esse sono il presente (Jean Epstein).

Ma non è soltanto la rappresentazione immersiva e antididascalica a fare di Leviathan qualcosa che va ben oltre il semplice documentario illustrativo: la disseminazione dei punti di vista in prospettive non coordinate tra loro (si va dai particolari a pelo d’acqua sulle bocche di scarico a totali dall’alto del ponte, passando per primissimi piani nella cabina di comando) libera il film dalla prigionia dell’autorialità prestabilita. L’intenzione del testo è quella di distruggere l’intenzione degli autori stessi, sottrarsi alla schiavitù dell’ordine espositivo, imporsi per forza di cose. La costellazione di GoPro si rivela particolarmente adatta a dare lo stesso “peso ontologico” (parole di Véréna Paravel) a tutti gli elementi in gioco: moltiplicando le fonti di visione e condividendole collettivamente, il film sembra farsi da solo, al riparo da ipoteche tematiche e istruzioni pregiudicanti. E se il registro performativo può rievocare la tranciante crudezza di Le sang des bêtes (1949) di Georges Franju, gli abbaglianti agguati della bellezza (come il luccichio delle conchiglie riversate sul ponte) stabiliscono un dialogo con l’argenteo lirismo di Finis Terrae (1929) di Jean Epstein. Eppure non vi è mai poesia posticcia o conclamata: Leviathan sviluppa una concatenazione di tipo concreto-astratto-concreto. In virtù della durata dei piani, il momento della trasfigurazione si produce spontaneamente tra i contrafforti della concretezza più stringente: non c’è spazio per appiccicargli addosso simbolismi estorti per estenuazione. È il caso a lavorare per noi, a sollevarci dall’obbligo di elucubrare. Che sia lui l’autentico Leviatano?

L’artista è ridotto a far scattare una molla. E la sua stessa intenzione si smaglia davanti al caso. Armonia di ingranaggi satelliti, ecco il temperamento. E anche la natura è un’altra. Quest’occhio vede, pensateci, delle onde che per noi sono impercettibili (Jean Epstein).

Recensione già pubblicata su www.spietati.it.

Nessun commento:

Posta un commento