Cinque ragazzi camminano in una foresta muovendosi come un branco di
leoni, persi nei loro giochi di parole, ma sempre attenti a utilizzare
armi di seduzione prese in prestito dal mondo adulto, che ora cercano e
ora rifuggono. Il loro vagabondare nella natura è l’estremo tentativo di
evitare quello che per loro sembra essere un percorso già scritto (dal catalogo del TFF).
Do you believe in second chance? Do you believe in rapture, babe?
Spoiler in quantità letale.
All’uscita della proiezione di Leones,
primo lungometraggio di Jazmín López, ho approfittato della
disponibilità della ventottenne regista argentina per domandarle se la
mia ricostruzione dei fatti fosse attendibile. In particolare, dopo
averle rapidamente illustrato la mia ipotesi (l’incidente avvenuto tra
l’auto dei ragazzi e il trattore durante il viaggio verso la casa di
Isa), ho chiamato in causa la scena in cui Arturo (Pablo Sigal),
recuperato un revolver sul trattore accidentalmente trovato nel bosco,
pronuncia questa frase: “Fine intellettuale. Marcia funebre del
pensiero”. Non ho avuto modo di precisarle che, a mio avviso, il gioco
delle microstorie in sei parole à la Hemingway (“For sale: baby
shoes, never worn”) trovava lì la sua massima densità significativa,
poiché mi ha interrotto bruscamente, dicendomi che quella frase è la
citazione letterale del finale di un libro di Paul Valéry. Sorpreso e
incuriosito, anziché simulare familiarità con l’opera di Valéry, le ho
apertamente chiesto il titolo del libro, aggiungendo scherzosamente che
sarei andato a controllare.
Fin intellectuelle. Marche funèbre de la pensée.
Ebbene, ho recuperato Monsieur Teste:
non soltanto si chiude con la succitata frase, ma leggendolo ho avuto
la netta impressione che fornisca la chiave interpretativa più adatta
per dialogare col cinema di Jazmín López - già autrice di tre
rimarchevoli cortometraggi: Parece la pierna de una muñeca (2007), Juego vivo (2008) e Te amo y morite
(2009). Un cinema animato da una palpabile tensione mentale coniugata a
un’esasperata acutezza sensoriale. Un cinema che scaturisce, citando
Valéry, da uno “sguardo estraneo sulle cose, questo sguardo di un uomo
che non riconosce, che è fuori da questo mondo, occhio-frontiera tra
l’essere e il non essere”. Uno sguardo che appartiene al cinema e che,
al contempo, è quello di un “agonizzante, di un uomo che perde il
riconoscimento”. Foresta, dizionario e cimitero, Leones
oggettiva cinematograficamente la visione straniata e distaccata di
Monsieur Teste (“M. Teste è il testimone”) nel punto di vista bifronte
di Isa, scindendo il film tra un io empirico immerso nelle correnti
dell’affettività e delle sensazioni immediate (fame, freddo,
smarrimento, dolore) e un io impersonale che osserva macchinalmente da
un luogo liminare.
Je veux n’emprunter au monde (visible) que des forces - non des formes, mais de quoi faire des formes.
Quello
che vediamo, insomma, altro non è che la materializzazione dello stato
mentale di Isa (Julia Volpato), uno stato tra la vita e la morte,
precisamente quell’“occhio-frontiera tra l’essere e il non essere” di
cui parla Valéry. I quattro compagni di vagabondaggio rappresentano
figure fantasmatiche che Isa recupera immaginariamente, che insegue
nella loro sfuggente e raminga evanescenza (si veda la seconda
inquadratura, in cui Arturo, Sofia e Niki si sottraggono alla vista
nascondendosi dietro i tronchi degli alberi). E il bosco diviene lo
scenario immaginario nel quale trasferire, dislocandoli liberamente,
oggetti traumatici ed eventi verificatisi durante il viaggio
(l’automobile, il trattore, le conversazioni magicamente incise sul
nastro): nella visione vi è uno sfasamento, una cesura prodotta dalla
reminiscenza. Ancora Monsieur Teste: “Ci si rende conto dei tagli
tramite le modificazioni sopraggiunte… che sono rivelate da un vedere
che si chiama memoria. La differenza tra il vedere «attuale» e il vedere
«ricordo» (...) si attribuisce a un «tempo» intermedio”. In questa
visione sensibilmente scissa non è più la storia a contare, ma “il
sentimento della materia stessa: roccia, aria, acque, materia vegetale -
e le loro virtù elementari”.
Il y a une belle partie de l’âme qui peut jouir sans comprendre, et qui est grande chez moi.
Costato
soli quattrocentomila euro e girato con un’impronta fenomenologica che
combina qualità astraenti (la luminosità cangiante dei fotogrammi che
aprono e chiudono il film) e valori strettamente sensoriali
(l’immersione ambientale nel bosco), Leones si ritaglia uno spazio cinematografico autonomo pur non rinunciando a omaggi bressoniani - Il diavolo probabilmente, evocato in un dialogo - e antonioniani - Blow Up,
ludicamente riprodotto in uno scambio a pallavolo senza palla. Omaggio,
quest’ultimo, che ribadisce, via Cortázar, lo statuto mortuario del
soggetto dell’enunciazione (da Le bave del diavolo: “Uno di noi
tutti deve scrivere, se tutto ciò deve essere raccontato. Meglio che lo
faccia io che sono morto…”). Del resto è Jazmín López stessa a definire
il suo primo lungometraggio “un saggio sulla morte, che viene vista da
un essere mortale come un paesaggio meraviglioso”. E a citare
esplicitamente Borges: “La morte è una vita vissuta. La vita è una morte
in arrivo”. Diciannove inquadrature fotografate da Matías Mesa (lo steadicam operator
di Gus Van Sant), dilatate indefinitamente e accelerate
impercettibilmente, nomadi e verdeggianti, esemplarmente riassunte dal
finale di Monsieur Teste: “I sillogismi alterati dall’agonia, il
dolore immerso in mille immagini felici, la paura unita ai bei momenti
passati. Che tentazione, tuttavia, la morte! Una cosa inimmaginabile che
penetra nello spirito sotto le forme, ora del desiderio, ora
dell’orrore. Fine intellettuale. Marcia funebre del pensiero”.
Au bout de l’esprit, le corps. Mais au bout du corps, l’esprit.
Recensione pubblicata su www.spietati.it
Salve,
RispondiEliminaaugurandoti un buon Natale e un felice anno nuovo, ti invito a votare migliori film del 2012 sul mio blog. Nella pagina trovi anche il link per votare come "blogger cinematografico".
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