"L’8 agosto 1991 una nave albanese, carica di ventimila persone, giunge
nel porto di Bari. La nave si chiama Vlora. A chi la guarda avvicinarsi
appare come un formicaio brulicante, un groviglio indistinto di corpi
aggrappati gli uni agli altri. Le operazioni di attracco sono difficili,
qualcuno si butta in mare per raggiungere la terraferma a nuoto, molti
urlano in coro “Italia, Italia” facendo il segno di vittoria con le
dita. La Vlora è un vecchio e malandato mercantile costruito all’inizio
degli anni Sessanta a Genova. Il 7 agosto 1991 la nave, di ritorno da
Cuba, arriva al porto di Durazzo, nella stiva diecimila tonnellate di
zucchero. Sono in corso le operazioni di scarico quando una folla enorme
di migliaia di persone assale improvvisamente il mercantile,
costringendo il capitano Halim Malaqi a fare rotta verso l’Italia. È una
marea incontenibile di uomini, ragazzi, donne, bambini. C’è Eva che
sale arrampicandosi lungo le cime d’ormeggio insieme al marito. C’è
Kledi, un ragazzino che si trova in spiaggia con gli amici quando decide
di seguire incuriosito la folla che va verso il porto. C’è il piccolo
Ali con la sua famiglia, c’è Robert, giovane regista con i suoi compagni
di studi. Qualcuno, una volta a bordo, incontra un fratello, un amico.
Il motore centrale è in avaria, non c’è cibo, né acqua. Solo zucchero.
Il sole di agosto arroventa il pontile. Poi scende la notte, il capitano
governa la nave senza poter utilizzare il radar, evita anche una
collisione. Il mattino dopo, ad attendere la Vlora c’è una città
incredula e stordita e uno stadio di calcio vuoto, dove, dopo
lunghissime operazioni di sgombero del porto, gli albanesi vengono
rinchiusi prima del rimpatrio. Sono passati ventuno anni da quel giorno.
La maggior parte di coloro che salirono sulla nave, carica di zucchero,
vennero rispediti in Albania ma gli sbarchi continuarono e qualcuno
tentò ancora la traversata. Oggi vivono in Italia quattro milioni e
mezzo di stranieri" (dal pressbook).
Dopo il passaggio Fuori Concorso a Venezia, esce in sala La nave dolce
di Daniele Vicari, progetto ideato da Luigi De Luca e Silvio Maselli
(rispettivamente vice-presidente e direttore della Apulia Film
Commission) e cosceneggiato da Antonella Gaeta (presidente della
fondazione) insieme a Benedetto Atria e allo stesso Vicari. La presenza
di dirigenti della Film Commission nell’ideazione del documentario ha
dato vita a una polemica che non mette conto riportare nel dettaglio (è
stata loro rimproverata la pratica dell’autofinanziamento), poiché,
senza entrare nel merito delle beghe istituzionali, l’incisività de La nave dolce
basta e avanza a rispedire al mittente le accuse di conflitto
d’interessi o di uso particolaristico del denaro pubblico. Tanto più che
la direzione della pellicola è stata affidata a un regista di altra
provenienza geografica per deregionalizzare lo sguardo, scongiurare il
rischio di un’eccessiva prossimità ai fatti mostrati e sviluppare le
risonanze storiche di un evento che, pur radicandosi in una situazione
contingente (agosto 1991 tra Albania e Italia), costituì una vera e
propria svolta epocale (fino a quel momento il flusso migratorio
interessava prevalentemente il porto di Brindisi e le cosiddette
“carrette del mare” o “navi della speranza” trasportavano al massimo
poche centinaia di uomini).
Fare
attenzione: il nucleo del documentario non risiede nell’arrivo a Bari
della Vlora, vecchio mercantile appena rientrato a Durazzo con le stive
ricolme di zucchero, ma il viaggio degli esseri umani che l’hanno prima
occupata, quindi affollata e infine abbandonata, proseguendo il percorso
sul molo del porto e nello Stadio della Vittoria. Vivendo in uno status
incerto, in condizioni di assoluta precarietà e fisicamente esposti
alle risoluzioni delle autorità italiane, totalmente impreparate a
fronteggiare l’emergenza. La risposta è quella più scontata:
contenimento, maniere forti, trasferimento di massa in un luogo di
reclusione. Sospensione dei diritti civili, in una parola. Ecco il nesso
con Diaz, nesso accennato dallo stesso Vicari: “La nave dolce si intreccia nella mia coscienza di narratore con Diaz.
Non so dire fino in fondo il perché, ma sento che hanno qualcosa in
comune. Oltre alla casualità di essere stati realizzati
contemporaneamente, parallelamente, entrambi raccontano episodi
collettivi che rappresentano una porzione di avvenimenti
storico-politici più grandi e complessi. Ma entrambi nell’essere la
“pars pro toto” tentano di restituire il senso del tutto attraverso
l’esperienza di una molteplicità di persone”.
Eppure tra Diaz e La nave dolce
il nesso non si crea all’insegna della continuità, ma della rottura,
del rovesciamento, dell’antitesi. Se il primo narrava l’inenarrabile,
allineando tra vistosi riavvolgimenti e calcolate divagazioni una
materia che nella dimensione del flusso incontenibile aveva la sua
portata storica, il secondo disgrega la compattezza, disperde il
raccolto, irradia dall’apparente coesione di una massa indistinta una
miriade di frammenti che non sono più storie ma schegge di esistenza.
Stavolta il punto di partenza è già una matrice narrativa (il grande
motivo del viaggio) e la rappresentazione mediatica ha già fornito una
versione ufficiale (quando? come? perché? cosa?: sappiamo tutto). Un
film che ha già il suo director’s cut. Occorre scavare,
interrogarsi sul chi, farsi archeologi del contemporaneo:
“disarchiviare” l’immaginario. Interpellare i protagonisti che, posti di
fronte a una lavagna luminosa, non sono più testimoni, ma si convertono
in vettori individuali e collettivi al tempo stesso. Certo, descrivono
la loro esperienza, eppure le loro parole, proprio perché singolari e
non intercambiabili, suggeriscono che ogni passeggero della Vlora
potrebbe rievocare un’esperienza diversa. La propria.
Vicari
e compagni scrostano la superficie del piccolo schermo, scovano reperti
immagazzinati negli archivi delle emittenti nazionali e locali,
italiane e albanesi. E nel sommerso trovano il giacimento del reale. Un
reale già parzialmente ritagliato e articolato dalle inquadrature degli
operatori, ma infinitamente più denso e palpitante della visione
scottante e allarmata fornita a suo tempo dall’informazione televisiva.
Immagini non ancora addomesticate, non ancora imbrigliate nel discorso
del reportage, non ancora simbolizzate. È il grande schermo, allora, a
farsi carico di strappare la vicenda alla dimensione morta dell’evento e
di restituirla a quella vitale dell’avvenimento, ad assumersi la
responsabilità di indicare nella conflittualità stessa la verità del
reale. Scontri frontali tra le forze dell’ordine e gli albanesi più
decisi, strappi istituzionali tra le autorità locali e il governo,
reazioni antitetiche dei baresi (chi aiuta i fuggiaschi a seminare la
polizia, chi li riconsegna a tradimento ai gendarmi): feritoie su un
campo di battaglia. Non più finestre - come i passeggeri della Vlora
definiscono le immagini televisive italiane - ma feritoie che non
rinunciano alla verità in nome di un malinteso senso dell’obiettività.
Non c’è forma narrativa forte che possa disciplinarle, i cinque atti di
stampo tragico che strutturano il documentario non soffocano queste
immagini formicolanti che assumono pienamente il paradosso di una verità
accessibile solo da un punto di vista specifico, parziale, schierato.
Una questione d’ingaggio anteriore a ogni narrazione emblematica. Detto
altrimenti, questa verità aggredisce La nave dolce nonostante la sua armatura narrativa, nella dimensione del trauma.
Recensione pubblicata su www.spietati.it.
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