Recensione già pubblicata su www.spietati.it
giovedì 27 dicembre 2012
Recensione già pubblicata su www.spietati.it
giovedì 20 dicembre 2012
LEONES
Cinque ragazzi camminano in una foresta muovendosi come un branco di
leoni, persi nei loro giochi di parole, ma sempre attenti a utilizzare
armi di seduzione prese in prestito dal mondo adulto, che ora cercano e
ora rifuggono. Il loro vagabondare nella natura è l’estremo tentativo di
evitare quello che per loro sembra essere un percorso già scritto (dal catalogo del TFF).
Do you believe in second chance? Do you believe in rapture, babe?
Spoiler in quantità letale.
Fin intellectuelle. Marche funèbre de la pensée.
Je veux n’emprunter au monde (visible) que des forces - non des formes, mais de quoi faire des formes.
Il y a une belle partie de l’âme qui peut jouir sans comprendre, et qui est grande chez moi.
Au bout de l’esprit, le corps. Mais au bout du corps, l’esprit.
Recensione pubblicata su www.spietati.it
mercoledì 14 novembre 2012
LA NAVE DOLCE
Recensione pubblicata su www.spietati.it.
venerdì 9 novembre 2012
LA VENDETTA DEGLI ANTI-EROI
Nicolas Winding Refn (Copenaghen, 1970),
regista, sceneggiatore e produttore, ha esordito nella metà degli
anni novanta nel genere noir, per poi maturare nel corso dei decenni
successivi fra il vecchio e il nuovo continente revisioni postmoderne
e filologiche dei generi più disparati: dall'epica più plumbea al
poliziesco a sfondo sociale, dal filone carcerario allo spaccato
giovanile.Tutte opere che sono state divulgate in Italia da manifestazioni
cinematografiche come il Noir di Courmayeur e il Torinofilmfestival.
Proprio i suoi contributi alla palingenesi di un thriller e poliziesco
realistico e antropologico con qualche concessione all'iperrealismo
ma non al pulp nell'accezione più completa del termine, mediante
accorgimenti nell'uso del montaggio e della colonna sonora, lo hanno
imposto sulla scena internazionale come alfiere del cinema nordico
contro lo strapotere americano e francese nei generi succitati. Senza
però che ciò gli abbia impedito di interrogarsi sulle motivazioni
della violenza, sul ruolo dell'invidualismo in un microcosmo corrotto
e sull'ansia di redenzione di uomini, che pur operando nella malavita
e nell'illegalità, si trovano a combattere contro una crisi d'identità,
determinata da un fato inesorabile e beffardo, influenzata anche
dalla crisi degli affetti.
Tra i suoi titoli più noti figurano "Pusher"(1996), "Pusher
II"(2004), "Pusher III"(2005), "Bronson"(2008),
"Valhalla Rising"(2009) e "Drive" (2011) , gran
premio al festival di Cannes per la regia.
Il volume, oltre alla prefazione di Laurent Duroche, comprende i
saggi di Aurora Auteri, Alessandro Baratti, Luca Biscontini, Marco
Cacioppo, Giacomo Calzoni, Francesco Giani, Stefano Giorgi, Domenico
Monetti, Michele Raga, Gianluigi Perrone, Mariangela Sansone e Fabio
Zanello.
venerdì 26 ottobre 2012
COGAN - KILLING THEM SOFTLY
Due avvertenze preliminari:
1- Affrontare la lettura di una recensione così smisurata senza aspettarsi degli spoiler sarebbe semplicemente irragionevole. Se lo fate la responsabilità è vostra, noi vi abbiamo avvertito.
2- Quanto il doppiaggio appiattisca il tessuto linguistico del film può risultare chiaro con un solo esempio: durante la rapina Russell non dice una parola, poiché se parlasse tradirebbe le sue origini australiane.
1- Affrontare la lettura di una recensione così smisurata senza aspettarsi degli spoiler sarebbe semplicemente irragionevole. Se lo fate la responsabilità è vostra, noi vi abbiamo avvertito.
2- Quanto il doppiaggio appiattisca il tessuto linguistico del film può risultare chiaro con un solo esempio: durante la rapina Russell non dice una parola, poiché se parlasse tradirebbe le sue origini australiane.
The Friends of George V. Higgins
Oralità, economia, politica
Screwball, Struttura Žižek
Noir manierista
Spingendosi
più in profondità e non senza una certa audacia, si incontrano passaggi
fotografici che collegano gli scatti cadaverici di Weegee (Naked City, 1945) a quelli obitoriali di Andres Serrano (The Morgue,
1991): dal crudo realismo dell’esecuzione di Amato al dolciastro
iperrealismo dell’inserimento nei loculi di Johnny e Frankie (avvolto
dalla versione flautata di It’s Only a Paper Moon di Cliff “Ukulele Ike” Edwards). Ma a uno strato ancora più profondo e generativo Cogan è geneticamente imparentato ai noir manieristi di fine anni ’50-primi anni ’60: crime movies che mischiano furiosamente sfondo sociale, alienazione metropolitana e sperimentazione formale. Pellicole come Assassinio per contratto (Murder by Contract, Irving Lerner, 1958), La vendetta del gangster (Underworld U.S.A., Samuel Fuller, 1961) o Cronaca di un assassinio (Blast of Silence,
Allen Baron, 1961): noir che, fotografando i nuovi assetti della
criminalità organizzata, scavano all’interno delle personalità omicide e
prediligono le esibite variazioni di tonalità espressiva all’uniformità
drammatica del genere classicamente declinato. Sono le clamorose
identificazioni tra criminalità e capitalismo, le commistioni tra
tragico e grottesco e le ricercatezze estetiche spudoratamente
virtuosistiche a renderli testimonianze di un’innocenza perduta per
sempre. Ed è esattamente questo che fa Dominik in Cogan:
identifica America e Business, amalgama noir e commedia e trasfigura
l’omicidio di Markie (Ray Liotta) in una cullante ninnananna sulle note
di Love Letters di Kitty Lester. Cogan - Killing Them Softly
è un film immenso, di grottesca, imperiale decadenza. Un noir
manierista che, abbracciando i codici, lavora sulle forme. E nel
manierismo non c’è epica, ma rimpianto per l’armonia perduta. Resterà.
Recensione pubblicata su www.spietati.it
sabato 20 ottobre 2012
Gli anni delle immagini perdute
Recensione pubblicata su www.spietati.it.
martedì 16 ottobre 2012
Moviement - Speciale 3D
Collana: Moviement
Formato: 21 x 29,7
Pagine: 160
Prezzo: 15 euro
ISBN: 978-88-97670-05-6
Uscita: Ottobre 2012
giovedì 11 ottobre 2012
UN SAPORE DI RUGGINE E OSSA
Gli spoiler non mancano, le considerazioni squisitamente soggettive
nemmeno: astenersi puristi della metodologia critica nonché lettori non
muniti di apposita visione filmica.
Liberamente ispirato alla raccolta di racconti Rust and Bone (2005) dello scrittore canadese Craig Davidson (pubblicata in Italia da Einaudi nel 2008), Un sapore di ruggine e ossa segna una netta inversione di marcia nel cinema di Jacques Audiard. Dopo lo straordinario successo di Un prophète
- Grand Prix della Giuria al 62º Festival di Cannes e vincitore di ben
nove César - il cineasta e sceneggiatore francese non teme il
cambiamento, al contrario azzarda una brusca variazione di registro
rispetto all’universo concentrazionario e prettamente maschile della
pellicola precedente. Si tratta di una sterzata che non coinvolge
soltanto l’aspetto esteriore (nomadismo anziché reclusione, spazi aperti
anziché luoghi di detenzione, presenza di personaggi femminili anziché
esclusività virile) o il genere cinematografico di riferimento (mélo vs
carcerario), ma interessa anche uno strato più profondo del film. Se
finora Audiard, pur in misura diversa, aveva raccontato la storia di
individui che, messi con le spalle al muro da eventi fortuiti,
scoprivano o esaltavano un talento sconosciuto o sopito, con De rouille et d’os
rinuncia a questa dinamica eminentemente maieutica per aprirsi alla
libertà dell’occasione. Per quanto vincolanti e immobilizzanti, le
circostanze non rappresentano più condizioni assolute che costringono
l’individuo-camaleonte a reinventarsi, ma costituiscono occasioni che il
soggetto può cogliere per ridefinire se stesso, per riscriversi (si
pensi ai tatuaggi sulle cosce di Stéphanie) nonostante le mutilazioni o i
traumi subiti.
Ricavare
una forma dal caos, accentuare le differenze di luminosità e
temperatura drammatica tra le sequenze, costruire i personaggi per
frammenti che finiscono per ricomporsi: sono questi partiti presi a
tracciare le linee guida del film, sia nell’andatura narrativa
deliberatamente rapsodica ed ellittica che nella sintassi visiva
marcatamente accidentata e sgrammaticata. “Abbiamo voluto un film di
contrasti”, afferma il direttore della fotografia Stéphane Fontaine
(alla terza collaborazione con Audiard dopo Tutti i battiti del mio cuore e Il profeta).
E aggiunge: “Il film va in tutti i sensi. C’è una specie di
accompagnamento costante. Sono delle persone a pezzi che si
ricostruiscono gradualmente e l’immagine accompagna questi movimenti”.
Un percorso di riconfigurazione che investe sia i personaggi
rappresentati che lo statuto attoriale dei due protagonisti. Alla
lettera nel caso di Stéphanie/Marion Cotillard, in un’operazione di
impressionante mutilazione (calze verdi sul set cancellate in
postproduzione) satura di risvolti spettacolari: non è solo il
personaggio di Stéphanie, la bella arrogante, a perdere le gambe ma
anche l’icona Cotillard. La star cade dal suo piedistallo.
Metaforicamente per Ali/Matthias Schoenaerts, in un processo di
umanizzazione che prende le mosse da Bullhead (2011) di
Michael R. Roskam (nel quale Schoenaerts interpreta una figura dai
forti tratti bovini) per ridisegnarlo umanamente, per renderlo qualcosa
di diverso da un semplice ammasso di carne gonfiata con estrogeni e
ormoni steroidei.
Detto altrimenti, De rouille et d’os
soffre spesso il regime della libertà vigilata (si pensi agli incastri
forzati: Ali fa jogging mentre gli sfrecciano accanto le ambulanze che
si recano a soccorrere Stéphanie), delle corrispondenze interne a
scoppio ritardato (la bocca spalancata dell’orca che richiama
l’incidente, il dente di Ali che richiama i denti dell’orca…) e, se è
lecito spingersi a tanto, di una condiscendenza per la tecnica tutto
sommato piuttosto stucchevole (difficile, per chi scrive, non sospettare
che il profluvio di ralenti sia legato alla prodigiosa facilità
con cui la camera Red Epic riesce a girare a 120 e 300 fotogrammi al
secondo). Ma, al netto dei supposti limiti, il sesto lungometraggio di
Jacques Audiard ci consegna l’ennesima prova di un cineasta di
cristallina sensibilità audiovisiva (da “Wash” di Bon Iver al
Trentemøller remix della springsteeniana “State Trooper” passando per
“Love Shack” dei B-52’s, non vi è scelta musicale pretestuosa o
decorativa), animato da un’inesausta tensione esplorativa e tutt’altro
che disposto a imbalsamare il suo cinema nel sarcofago del successo.
Recensione pubblicata su www.spietati.it.
martedì 25 settembre 2012
Coen Brothers
Come di consueto, il volume Coen Brothers è aperto da Costanzo Antermite e Gemma Lanzo con un Editoriale che, oltre a tracciare sinteticamente le coordinate critiche del numero, precisa efficacemente il movimento interno del cinema dei Coen. Un cinema inizialmente basato su premesse noir, ma che nel corso del tempo “ha allargato via via i propri orizzonti tematici operando nel corpus dei generi cinematografici tradizionali quella ‘decostruzione narrativa’ che, senza imparentarla più di tanto alla moda filosofica del ‘postmoderno’, è stata il loro più evidente marchio di fabbrica”.
Completano il volume due vivaci interviste (Gli angeli custodi dei fratelli Coen di Alex Simon e I fratelli Coen parlano de “Il Grinta”
di Cole Haddison), un gustoso florilegio di citazioni, una snella
filmografia e una mirata bibliografia (cui segue l’elenco delle edizioni
in Dvd).
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venerdì 21 settembre 2012
PIETÀ
È indubbio che in qualità di parabola, ossia di racconto esemplare/paradigmatico, Pietà
risulti in gran parte riuscito. La critica al conflittuale
‘denarocentrismo’ (“Cosa sono i soldi? L’inizio e la fine di tutte le
cose”) della società sudcoreana e per estensione di tutte le realtà
economicamente e criticamente sviluppate, seppur di natura semplicistica
e tutto sommato incompleta, possiede una centralità indiscutibile. Non
suona dunque come trascurabile civetteria autoriale l’affermazione di
Kim Ki-duk a proposito del denaro quale terzo personaggio del suo
diciottesimo lungometraggio: l’impietoso esattore Kang-do (Lee Jung-jin)
non fa che estremizzare e imbarbarire quella logica economica che, in
forme socialmente legittimate, persegue i debitori insolventi fino a
metterne a repentaglio la sopravvivenza. A dire il vero l’esponente
creditizio è addirittura al cubo: il prestito a usura ne rappresenta già
un’elevazione al quadrato e il fratturante sistema di riscossione
escogitato da Kang-do ne costituisce un’addizione esponenziale (il suo
boss giunge persino a rimproverargli l’eccessiva ferocia, chiamandolo
‘macellaio’).
L’implacabilità
di Kang-do, che respinge le accuse dei debitori rinfacciando loro di
aver chiesto soldi in prestito sapendo di non poterli restituire, altro
non è che l’inattaccabile e schiacciante logica del capitale: ecco che
cosa, a chiare lettere, dice Pietà. Kang-do è
personaggio emblematico, insomma, così come emblematica appare la figura
femminile di Mi-seon (Cho Min-soo): è forse il caso di ricordare che
nella cinematografia coreana i soggetti femminili recano nel loro corpo
un’analogia con l’intera nazione (è il profilo geografico della
penisola, tra le altre cose, ad aver in qualche modo suggerito e
incentivato l’assimilazione tra figura femminile e identità nazionale).
Sicché, di allegoria in analogia, Pietà sviluppa un
discorso tutt’altro che inedito o ideologicamente stratificato (il
progetto punitivo non abbandona mai i confini della prospettiva
individuale per farsi coscienza dialettica), ma non per questo rinuncia a
sostanziarlo drammaticamente e oggettivarlo cinematograficamente. In
altri termini, non basta dire che il cinema di Kim ha già affrontato
tematiche e dinamiche affini con esiti migliori (Bad Guy e Address Unknown sono i primi titoli che vengono in mente), ma occorre osservare concretamente ciò che è cambiato rispetto ai film degli esordi.
Nel corso degli anni - indicativamente tra Samaria, Primavera… e Ferro 3 - Kim è andato smaterializzando il suo cinema, letteralmente ‘disincarnandolo’ (si veda proprio Ferro 3)
e tramutandolo in un gigantesco contenitore di simboli privi di base
materiale e non necessitati dal punto di vista narrativo (sprovvisti
cioè di quella che Jean Mitry chiama ‘logica di implicazione’, processo
di arricchimento semantico che si attualizza nel corso del film). È
convinzione di chi scrive, dunque opinabilissima, che solo il ricorso a
una sorta di pensiero magico sia in grado di restituire a questo
repertorio autoreferenziale le proprietà espressive necessarie
all’articolazione di un dialogo con lo spettatore, sia pur su basi
squisitamente poetiche. Non si tratta di immagini o situazioni chiave
che condensano, come il nucleo incandescente di una sfera, il senso
disseminato e riflesso per lampi in tutto il testo (cosa che, al
contrario, succedeva in Address Unknown, dove un corpo
conficcato nel terreno esprimeva fisicamente la lacerazione serpeggiante
nell’intero film), ma di simboli araldici, blasoni di rappresentanza
che attestano la nobiltà del titolo.
Con Arirang,
videoconfessione che mescola autocommiserazione, narcisismo e arroganza
addobbata di rinunce, qualcosa è effettivamente cambiato. Pur
prescindendo dalla visione di Amen, lavoro che, stando
alle poche immagini e notizie in circolazione, si candida a operatore di
passaggio tra il minimale solipsismo di Arirang e la rinnovata vitalità di Pietà,
il film vincitore del Leone d’Oro presenta numerosi elementi di
rigenerazione cinematografica. Sarebbe troppo facile affermare che Kim è
tornato alle origini, a un cinema di stordente violenza e lacerante
dolcezza: l’esperienza maturata nel frattempo, associata alla visibilità
internazionale, ha profondamente spostato le coordinate della sua
poetica. Eppure nell’uso istintivo e convulso della camera digitale
s’indovina il tentativo di ridisegnare un’estetica barbara, ancorata
alla materialità delle cose. Lo stesso timbro cromatico-luministico
delle immagini, di una cupezza opprimente che si schiarisce
episodicamente in abbacinante candore (soprattutto nel prefinale), segna
una brusca inversione di marcia rispetto alle tavolozze tenui o
sgargianti delle pellicole precedenti, riversando la livida oscurità di Arirang su una tela nuovamente solida e resistente agli strappi sintattici.
Per quanto il tentativo di riallacciarsi all’estetica dei film degli esordi (da Crocodile a The Coast Guard
per intenderci) trovi riscontro anche nella rappresentazione del
quartiere residuale e fatiscente di Cheonggyecheon dove il giovane Kim
ha lavorato come operaio, lo slancio rigenerativo di Pietà deve tuttavia fare i conti col precipitato del periodo calligrafico (da Ferro 3 a Dream, con Primavera… e La samaritana
a fare da titoli di transizione). Sotto l’opaco involucro digitale si
intravede insomma un’artificiosità drammaturgica scaltramente ammiccante
(la revisione del film in questo senso è determinante): dialoghi
programmatici e capziosi (l’elencazione in crescendo sui significati del
denaro), parabola espiatoria (la disperante via crucis di Kang-do),
costruzione narrativa a sorpresa (illustrata esplicitamente allo
spettatore in una situazione di stridente inverosimiglianza). Ancora: il
personaggio di Mi-seon opera da auctrix/spectatrix in fabula
(oltre a manipolare e dirigere Kang-do, ne osserva scrupolosamente le
reazioni), il maglione preparato all’uncinetto funge da correlativo
oggettivo del progredire della trama vendicativa (non solo la
accompagna, ma la porta metonimicamente a compimento), i rari riflessi
della donna sull’acquario nell’appartamento di Kang-do alludono alla
doppiezza della sedicente madre (doppiezza che l’ultimo terzo di film si
premurerà di sfrondare da ogni ambiguità).
Recensione pubblicata su www.spietati.it
lunedì 10 settembre 2012
Film dell'anno 2011-2012
Ripartiti per coppie rigorosamente
arbitrarie, i miei film della stagione 2011-2012. Gli ultimi due non mi
parevano assimilabili, sicché li ho lasciati così, liberi e scoppiati.
Melancholia/Take Shelter:
i due volti della catastrofe. Von Trier ne mostra l’aspetto esteriore,
il profilo misurabile; Nichols ne materializza il risvolto interiore,
l’angoscia imponderabile. Nel primo uno stato d’animo si fa pianeta, nel
secondo un cataclisma si fa stato mentale.
Nel frattempo, altrove, il cinema canta e incanta.
Killer Joe, Friedkin
Aller au diable , Denis
Livide, Bustillo & Maury
NOÉ(NTER): prova a prenderlo.
Enter the Void, Noé
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