The Look of Silence, seguito del documentario drammatico The Act of Killing, analizza ancora il tema del genocidio in Indonesia, le purghe anticomuniste del 1965, affrontandolo da un'altra prospettiva. The Look of Silence
offre una visione della tragedia da parte delle vittime, in particolare
segue la storia di un uomo sopravvissuto, il cui fratello è stato
torturato fino alla morte durante la rivoluzione da un gruppo di
ribelli; storia già raccontata dal punto di vista degli assassini nel
documentario del regista The Act of Killing. In The Look of Silence
si osserva la famiglia dell’uomo ucciso, in particolare il fratello
minore, che decide di incontrare gli uomini che hanno massacrato uno di
loro (dal sito della Biennale).
"Let the past be past" is a dishonest sentence if there is no acknowledgement of what the past is and what it means (Joshua Oppenheimer).
Verso i tre quarti della versione lunga (159’) di The Act of Killing,
inquadrato in primo piano dalle telecamere di una rete televisiva
indonesiana, uno dei leader del gruppo paramilitare Pancasila Youth dice
a chiare note: “Non ci sarà nessuna riconciliazione, poiché quello che è
accaduto è storia. La storia è dovuta andare in questo modo, sicché non
c’è alcuna riconciliazione”. Ciò che il comandante in questione
pronuncia con sbruffonesca magniloquenza è esattamente quella stortura
che Raymond Aron, nell’Introduzione alla filosofia della storia,
ha definito “illusione retrospettiva di fatalità”, ovvero la concezione
secondo la quale gli eventi procedono in una direzione rigorosamente
predeterminata e ineludibile. E in The Look of Silence
una proposizione simile (“il passato è passato”) torna come un mantra
sia nelle arroganti dichiarazioni degli aguzzini che nelle intimidite
testimonianze dei sopravvissuti. Ebbene, il punto cruciale del dittico
indonesiano di Joshua Oppenheimer sta precisamente qui, nella
confutazione di questa tautologia mistificatoria che cristallizza il
passato in un luogo totalmente separato dal presente ed ermeticamente
chiuso. Si tratta di una posizione che confina con l’amnesia vera e
propria, con l’oblio coatto e rinunciatario che sottrae il passato alla
rivisitazione critica e al giudizio morale.
La
tautologia semplificatoria e deterministica è profondamente radicata
nell’opinione comune: il passato è passato e non può più essere
modificato, non abbiamo più potere su ciò che è stato. A sgretolare
irrimediabilmente questa posizione deresponsabilizzante e in fondo
acquiescente è Paul Ricoeur in Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato
(Il mulino, Bologna, 2004). La considerazione del passato come un
deposito di fatti immutabili e intoccabili coglie solo una parte di
verità (quella legata al carattere indelebile di ciò che è stato), ma al
tempo stesso blocca ogni tentativo di reinterpretazione del senso degli
eventi, del loro peso morale alla luce del presente e, soprattutto, del
futuro: “Se, infatti, i fatti sono incancellabili. se non si può più
disfare ciò che è stato fatto, né fare in modo che ciò che è accaduto
non lo sia, in compenso il senso di ciò che è accaduto non è
fissato una volta per tutte; oltre al fatto che gli avvenimenti del
passato possono essere interpretati altrimenti, il carico morale legato
al rapporto di colpa rispetto al passato può essere appesantito oppure
alleggerito, a seconda che l’accusa imprigioni il colpevole nel
sentimento doloroso dell’irreversibile, oppure che il perdono apra la
prospettiva di una liberazione dal debito, che equivale a una
conversione del senso stesso del passato” (pp.92-93).
E
il progetto del perdono come retroazione del presente (e del futuro)
sul passato è ciò che sta alla base del dittico di Joshua Oppenheimer:
se The Act of Killing
ha scoperchiato l’enormità del massacro avvenuto in Indonesia tra il
1965 e il 1966 assumendo un’ottica prevalentemente retrospettiva (lo
spettacolare reenactement degli interrogatori, delle torture e delle esecuzioni ai danni dei comunisti o presunti tali), The Look of Silence
adotta invece un punto di vista saldamente ancorato nel presente.
Perché solo un’ottica fissata nell’oggi dei figli (il protagonista del
documentario è Adi, nato nel 1968 e fratello minore di una delle vittime
più raccontate e ricordate del massacro dello Snake River) può
rivisitare l’eccidio mettendolo in relazione a un domani di
riconciliazione, soltanto uno sguardo non accecato dalla paura del
passato è in grado di concepire un futuro di riavvicinamento tra
individui che il presente vuole animosamente separati. Anzi, proprio in
virtù di questo ancoraggio nel presente, il timore si converte in
risorsa esplorativa, concentrazione investigativa, esattezza delle
domande. Girato nel 2012 dopo la fine di The Act of Killing
ma prima della sua proiezione pubblica (ciò che vediamo nel secondo
documentario non si sarebbe potuto filmare una volta scoperchiato il
vaso di Pandora, lo scalpore destato lo avrebbe reso impossibile), The Look of Silence
è stato realizzato in condizioni di pericolo costante: la troupe dei
faccia a faccia con gli assassini ancora al potere comprendeva
esclusivamente individui danesi dai cui cellulari erano stati rimossi i
numeri memorizzati per salvaguardare incolumità e anonimato dei
collaboratori indonesiani, Adi circolava senza documenti, gli
spostamenti erano effettuati con due automobili per facilitare la fuga
in caso di inseguimento e, infine, la famiglia di Adi è stata trasferita
a migliaia di chilometri per metterla al riparo da sicure rappresaglie.
Negli
spinosi confronti tra chi ha partecipato direttamente o indirettamente
alla carneficina di cinquant’anni prima e Adi, ottico quarantaquattrenne
che s’incarica di preparare occhiali per i suoi interlocutori, la
sensazione di minaccia incombente è sovente palpabile e talvolta
dichiarata (il leader del Commando Aksi, braccio armato delle milizie
regolari incaricato di effettuare concretamente lo sterminio, lo incalza
con domande mirate a scoprire da quale villaggio viene e che tipo di
attività cospiratoria svolga), ma la compassata ed empatica fermezza
dell’optometrista tiene a bada l’aggressività strisciante, impedendo che
i colloqui degenerino in livorose requisitorie e reazioni violente. Le
domande sulle reali responsabilità dell’ecatombe e le richieste di
riconciliazione di Adi s’infrangono immancabilmente contro la resistenza
degli anziani esecutori a riconoscere il significato morale delle loro
azioni e contro l’omertà degli altrettanto anziani abitanti del luogo.
Il paradosso è questo: gli esecutori non nascondono di aver partecipato
alla carneficina, al contrario - come già accadeva in di The Act of Killing
- si vantano dell’efficienza del loro modus operandi, illustrando nel
dettaglio e con compiaciuta sbruffoneria le procedure del massacro dello
Snake River. Il motivo di questa vanagloria è semplice: i mandanti sono
saldamente al potere e loro beneficiano ancora dei privilegi ricevuti
per l’obbedienza dimostrata (si noti di passata che in The Look of Silence
si trova il nucleo generatore di entrambi i documentari: le riprese,
effettuate nel febbraio del 2004, in cui due leader degli squadroni
della morte portano Oppenheimer su una sponda dello Snake River, teatro
di oltre 10000 esecuzioni tra cui quella di Rumli, rievocando
vivacemente le modalità di sterminio e mettendosi infine in posa,
sorridenti e vittoriosi, per scattare delle foto ricordo).
Tuttavia,
quando si tratta di passare dall’aspetto procedurale a quello morale,
le cose cambiano radicalmente: le responsabilità personali stanno sempre
altrove, dislocate nelle ramificazioni del potere, diluite nell’egida
dell’esercito regolare e giustificate dall’indiscutibilità degli ordini.
Impossibile fare breccia in questa corazza legittimata dall’alto. Non è
fortuito che la sola persona capace di mostrare segni di incrinatura
sia la figlia di uno degli aguzzini: la struttura che sorregge e
giustifica la costruzione autoassolutoria non è così infrangibile in chi
non l’ha dovuta assimilare direttamente. Per quanto il programma di
prevenzione anticomunista seguiti a generare spaventose semplificazioni
(i truculenti racconti che vengono ammanniti dall’insegnante al figlio
di Adi), la campagna persuasiva ufficiale può essere smascherata e
definita per quello che è: propaganda. L’ottico itinerante lo dice
apertamente e a più riprese ai leader degli squadroni della morte,
ottenendo le puntuali reazioni irritate ed evasive; e lo dice anche al
giovane figlio per contrastare l’indottrinamento scolastico al quale è
sottoposto quotidianamente. Ma, pur percorribile, questa strada
solitaria non è in grado di produrre un autentico cambiamento, poiché
per formulare un’immagine collettiva del passato liberata dalle
incrostazioni ideologiche è necessaria una trasformazione politica.
Occorre innanzitutto che il governo riconosca i crimini commessi (cosa che solo dopo The Act of Killing
è avvenuta in parte e con molta riluttanza) e occorre che inizi un
processo politico che, chiamando in causa gli stati conniventi (gli
Stati Uniti in primo luogo: si veda il notiziario NBC del 1967 incluso
nella pellicola), ristabilisca, per quanto possibile, la verità storica e
la giustizia. Solo allora si aprirà uno spiraglio per una
riconciliazione non occasionale e occasionalmente ritrattabile. Nel
confronto finale tra Adi e la famiglia di uno dei principali artefici,
attualmente deceduto, dell’uccisione di Rumli (omicidio più volte
rievocato e persino rappresentato graficamente in un libro scritto e
illustrato dall’uomo scomparso), i figli e la vedova negano
ripetutamente di essere a conoscenza del coinvolgimento del padre nel
massacro, simulando inconsapevolezza in perfetta malafede, dal momento
che Oppenheimer ha trascorso alcuni mesi con loro ricostruendo
scrupolosamente la sanguinosa vicenda in cui l’uomo aveva avuto un ruolo
di primo piano: questa sconfessione, ovviamente indotta dalla vergogna e
dal timore di essere considerati colpevoli e codardi, è esattamente ciò
a cui va incontro l’iniziativa del singolo se non accompagnata da un
processo di riformulazione collettiva e ufficiale del passato. Ed è per
questo motivo che, sul finire della sequenza, Oppenheimer interviene in
prima persona, dissociando la propria prospettiva da quella di Adi e
mostrando alla reticente famiglia un altro video in cui il padre
sbandiera orgogliosamente il libro scritto a futura memoria: non si
tratta di un gesto calcolato e mosso da cinismo forcaiolo, ma di un atto
impulsivo dettato dalla sorpresa e dall’incredulità di fronte a un
rinnegamento così spudorato.
A
fare da controcanto domestico e in qualche modo familiarmente lirico,
Oppenheimer alterna gli incontri con gli anziani capi del Commando Aksi
(e con un amico di Rumli avventurosamente scampato al massacro) a
sequenze che ritraggono sia i vecchi genitori di Adi, la cui veneranda
età resta un mistero imperscrutabile, sia i suoi giovani figli (meno
visibile la moglie). In questi frangenti i registri si ampliano
vistosamente, andando dal lamento della perdita all’intimità divertita,
dalla quotidianità delle cure che la madre prodiga al centenario coniuge
ormai quasi del tutto cieco, sordo e anchilosato alle scherzose
tenerezze tra Adi e la piccola figlia. Se le parentesi domestiche
introducono momenti che mitigano apparentemente la tensione dei
confronti, non sfugga la violenza implicita nel disegno conciliatorio di
Adi: chiedere a individui abituati a convivere con l’enormità dei
delitti commessi di riconoscere una responsabilità ammantata di
grandioso eroismo significa chiedere loro di rinunciare al supporto
fantastico che sorregge concretamente la loro esistenza (non è ozioso
ripetere che reputazione e benessere di molti ex aguzzini derivano
proprio dai delitti commessi tra il ’65 e il ’66). La mozione del
perdono implica che la colpa sia riconosciuta non solo da chi ne ha
subito le conseguenze ma anche da chi ne ha tratto beneficio e,
soprattutto in una situazione di impunità istituzionalizzata, comporta
un vero e proprio disgregamento strutturale, una disintegrazione delle
gloriose fantasie sanguinarie (è in questa cornice quasi tribale che va
collocato il rituale apotropaico dell’assunzione del sangue versato per
scongiurare la follia). La mozione del perdono equivale dunque a
un’autentica distruzione. The Look of Silence s’impone prepotentemente, allo stesso titolo di The Act of Killing,
come un film sul cinema: più precisamente sulla potenza d’impatto del
cinema quale dispositivo per riconfigurare la realtà. Terremotandola.
Pubblicata su www.spietati.it
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