Se nasci in Aspromonte il tuo destino è spesso segnato, ma molti giovani
cercano di intraprendere un cammino alternativo e vanno a vivere
altrove. Sono però costretti a tornare al luogo d’origine dove le
dinamiche sono criminali e l’insegnamento tramandato dalla famiglia, che
loro stessi hanno assorbito, è spesso crudele e duro da accettare. Ad
una situazione già difficile si aggiungono una realtà familiare fatta di
affetti e contraddizioni e un paesaggio straordinario. Una storia
incentrata sul male che definisce i rapporto tra gli uomini (dal sito
della Biennale).
Liberamente
tratto dall’omonimo romanzo di Gioacchino Criaco («La storia che
racconto - lui dice - è solo frutto di fantasia», si legge sulla seconda
aletta di copertina), Anime nere raccoglie solo alcuni
spunti del libro per addentrarsi nei meandri dei rapporti tra Luigi
(Marco Leonardi), Rocco (Peppino Mazzotta) e Luciano (Fabrizio
Ferracane), fratelli di una famiglia segnata dal sangue (l’uccisione del
padre su un sentiero di montagna da parte di un rivale), dalla
criminalità (il traffico di stupefacenti messo in piedi da Luigi e
l’attività edilizia di Rocco a Milano, sovvenzionata dai proventi del
commercio di droga) e dalle tradizioni dell’Aspromonte (Luciano, il
fratello maggiore, è rimasto ad Africo e, prendendo le distanze dagli
affari di Luigi e Rocco, coltiva la terra e alleva le capre senza
nutrire ambizioni espansionistiche). A differenza del padre, Leo
(Giuseppe Fumo), il figlio ventenne di Luciano, intende seguire le orme
degli zii e, presa a fucilate la vetrina di un bar il cui titolare aveva
osato gettare fango sulla reputazione della famiglia, parte nottetempo
per Milano raggiungendo Luigi e Rocco. La ragazzata di Leo, come viene
definita dal boss locale Nino Barreca a Luciano in una convocazione dai
risvolti intimidatori, accende tuttavia la miccia di una reazione a
catena che, ricondotta l’intera famiglia ad Africo per rafforzare il
prestigio territoriale a dispetto della supremazia del clan Barreca,
porterà all’inevitabile spargimento di sangue (di cui Luigi sarà la
prima vittima).
Si
diceva dei legami piuttosto flebili tra il romanzo di Criaco e il film
di Francesco Munzi, affiancato alla sceneggiatura da Fabrizio Ruggirello
e Maurizio Braucci: se difatti il libro, benché scritto per lo più in
prima persona, possiede un andamento rapsodico (frequenti i cambi di
prospettiva e le divagazioni storico-antropologiche) e un respiro assai
ampio sia cronologicamente che geograficamente (dalle leggende
arcaico-tribali al loro riverbero nella contemporaneità e dalla Locride a
Milano passando per la Sierra Nevada, Creta, Torino, Roma, Monaco di
Baviera e Parigi), la pellicola riduce sensibilmente la pluralità di
punti prospettici (pur mantenendo un impianto corale, l’alternanza delle
focalizzazioni si tiene stretta alla saga familiare senza traiettorie
eccentriche) e si concentra su un arco piuttosto limitato di tempo e
spazio (difficile ipotizzare un tempo del racconto superiore a qualche
settimana, la linearità della narrazione restringendo inoltre il teatro
dell’azione al triangolo Amsterdam-Lombardia-Aspromonte). Serrando tempi
e spazi in modo sempre più marcato attorno ai legami di sangue e
all’onore da difendere a ogni costo, Anime nere delinea
progressivamente il proprio centro d’interesse: non tanto
l’incontenibile avanzata dei “figli dei boschi”, come vengono chiamati
nel romanzo, alla conquista del mondo criminale (“Eravamo tutti simili,
mossi irrefrenabilmente da una forza spropositata che ci portava a
sostituire gli ormai spenti napoletani e siciliani che ci avevano
preceduto”, p.102), quanto, più precisamente, l’indagine di una forma di
pensiero e azione profondamente radicata in un territorio definito ma
ancor più profondamente alimentata da logiche cristallizzate nella
tradizione.
Non
è fortuito, dunque, che il gesto estremo col quale Luciano tenta
d’interrompere il meccanismo ciclico e autoperpetuantesi della vendetta
sia anticipato dal rogo, questo sì davvero folle e incomprensibile
nell’ottica tradizionale, delle fotografie di famiglia (tra le quali
quella del padre ucciso). Per spezzare il cerchio punitivo non è
sufficiente celebrare il culto della terra rinunciando all’avidità e
accantonando le fantasie di grandezza (quando Luigi, nei panni del
diavolo tentatore, gli propone il possesso di tutta la montagna, Luciano
risponde che non saprebbe che cosa farsene e che gli basta ciò che ha),
occorre anche e soprattutto distruggere quella parte di memoria in cui
l’odio si è sedimentato e vistosamente coagulato, seguitando ad
alimentare i propositi vendicativi. Odio tramandato e oblio agognato
sembrano insomma riassumere le due tensioni fondamentali di una
pellicola che, se da una parte sviluppa con ammirevole rigore
l’esplorazione in profondità di un’abitudine mentale e sociale
all’ostilità e alla violenza, dall’altra evidenzia più di una volta la
difficoltà altrettanto palese nel saldare scavo antropologico e
progressione narrativa: non un solo elemento risulta svincolato
dall’esigenza di significare a chiare lettere il proprio ruolo
all’interno della narrazione e dall’obbligo di trovare una collocazione
nel quadro d’insieme. Restrizione categorica e sistematica che in più
occasioni finisce per svilire l’azione a semplice funzione determinativa
(basti pensare alla sequenza dell’esecuzione di Luigi, preceduta da una
passeggiata notturna che è già cronaca di una morte annunciata), la
recitazione a ostensione dimostrativa (la sequenza della cerimonia
funebre col conseguente colloquio di sguardi tra Rocco e Luciano) e la
rappresentazione a esposizione illustrativa (persino una capra che
guarda in macchina diviene emblema del caos incipiente). E se la
fotografia desaturata di Vladan Radovic dialoga efficacemente con le
sonorità rarefatte e vibranti di Max Richter (“Summer 2” e “Winter 3”) o
con l’ampiezza malinconica dei Set Fire to Flames (“Steal Compass/Drive
North/Disappear”), il compasso estetico del film fatica spesso ad
aprirsi a un’interazione con l’ambiente non strettamente e rigidamente
funzionale al disegno narrativo. È infine opinabile parere di chi scrive
che sia ancora Il resto della notte ad attestarsi come l’esito più equilibrato e incisivo raggiunto finora del quarantacinquenne cineasta romano.
Pubblicata su www.spietati.it
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