sabato 18 ottobre 2014

PASOLINI

La notte del 2 novembre 1975 a Roma viene ucciso Pier Paolo Pasolini. Ha 53 anni. Pasolini è il simbolo di un’arte che combatte contro il potere. Ciò che scrive scandalizza, e i suoi film sono perseguitati dai censori; in molti lo amano e in molti lo odiano. Il giorno della sua morte, Pasolini ha passato le sue ultime ore con l’adorata madre e più tardi con i suoi amici più cari, fino a quando non esce nella notte in cerca di avventure con la sua Alfa Romeo. All’alba viene trovato morto su una spiaggia di Ostia, nella periferia della città.









La prima domanda che viene da porsi guardando Pasolini è anche quella più banale e insidiosa: che cosa ha spinto Abel Ferrara a girare un film su uno degli intellettuali italiani più controversi e celebrati del XX secolo? Ovviamente, per evitare le secche dello psicologismo, occorre subito riformulare l’interrogativo, spostando risolutamente l’accento sul film stesso (a domande del genere sono sempre e soltanto i testi a rispondere, inutile lanciarsi in audaci congetture sulle cosiddette intenzioni dell’autore). Quindi: che cosa, in questo film e al di là degli aspetti biografico-cronachistici, si salda alla poetica ferrariana? Detto più chiaramente: qual è l’ossessione fondamentale che abita il Pasolini di Ferrara? Formulata in questi termini, la domanda non è così ovvia: se consideriamo la replica alla domanda rivoltagli nell’ultima intervista televisiva (rilasciata il 31 ottobre 1975 a Parigi), l’attività letteraria sembrerebbe incarnare integralmente questa marca ossessiva, riassumendo in sé gli altri tratti espressivi:
- Qual è la qualifica professionale che preferisce: poeta, romanziere, dialoghista, sceneggiatore, attore, critico, regista?
- Nel passaporto scrivo semplicemente scrittore.

Invece il mio dovere di scrittore è quello di fondare ex novo la mia scrittura: e ciò non per partito preso, anzi, per una vera e propria coazione a cui non posso in alcun modo oppormi.
(“Petrolio”, p.48)

In realtà il Pasolini di Ferrara - e in questo senso la giustezza del ritratto filmico ha dell’impressionante, indiscutibile apporto di una sceneggiatura libera e avvertita - non ha i connotati dello scrittore canonico concentrato esclusivamente sulla sua opera, ma spazia in più ambiti espressivi: letteratura, certo, ma anche critica sociale, impegno politico-culturale e, soprattutto, cinema. Di fatto è proprio il cinema a occupare uno spazio sempre più rilevante nella sua produzione, come si evince del resto dalle dichiarazioni contenute in una pellicola che dialoga intimamente col film di Ferrara: Pasolini prossimo nostro (Giuseppe Bertolucci, 2006). Qui, nella lunga intervista rilasciata a Gideon Bachman sul set di Salò durante le riprese finali del film, Pasolini pronuncia parole di tenore sensibilmente diverso rispetto alla supposta supremazia letteraria, ma a ben vedere non incompatibili con la pratica significante della scrittura, sebbene esercitata su lingue - ma sarebbe più pertinente parlare di materie dell’espressione - diverse. Quello che conta, insomma, è salvaguardare l’esigenza espressiva, la necessità, sempre più minacciata e circoscritta, di operare a un livello non sovrastrutturale con la realtà, aggirando il più possibile il discorso del potere, entrando in relazione profonda con la sostanza del mondo: “Non scrivo più come prima, il che equivale a dire che non scrivo più. In principio, quando ho cominciato a fare cinema, ho pensato che fosse solo l’adozione di una tecnica diversa, direi quasi di una tecnica letteraria diversa. Poi, invece, mi sono reso conto, pian piano, che si tratta dell’adozione di una lingua diversa. Quindi ho abbandonato la lingua italiana, con cui mi esprimevo come letterato, per adottare la lingua cinematografica. Ho detto varie volte, per protesta, contestazione totale, che avrei voluto rinunciare alla nazionalità italiana. Facendo del cinema ho rinunciato alla lingua italiana, cioè alla mia nazionalità. Ma la verità è un’altra, forse più complicata e profonda: la lingua esprime la realtà attraverso un sistema di segni. Invece, il regista esprime la realtà attraverso la realtà. Questa è forse la ragione per cui mi piace il cinema e lo preferisco, perché esprimendo la realtà come realtà opero e vivo continuamente a livello della realtà.”

Vorrei mimare l’ecolalia, essere fàtico, fàtico,
e così esprimere, al grado più basso, il tutto.

(“Propositi di leggerezza”, in “Trasumanar e organizzar”, p.60)

Non mette conto sottolineare in questa circostanza l'ingenuità della concezione teorica pasoliniana, pacificamente ascrivibile alla stortura semiologica convenzionalmente definita “fallacia del referente” (vale a dire la confusione tra significato e referente nella funzione segnica). Ciò che importa, invece, è rilevare quanto la pulsione espressiva tenda ad abbattere le barriere tra una sfera creativa e l’altra o, in termini pasoliniani, tra una lingua e l’altra. È questa stessa tensione, per inciso e secondo chi scrive, a sostanziare il plurilinguismo del film: il passaggio tra i vari idiomi non allude semplicemente alla dimensione internazionale dell’intellettuale, ma suggerisce una vera e propria vocazione panlinguistica, una propensione alla libera frequentazione di domini linguistici di natura diversa. Non inganni, quindi, l’opposizione tra letteratura e cinema. Del resto questo momento della vicenda biografica pasoliniana vede sfumare i confini tra una sfera espressiva e l’altra (la lettera a Moravia parzialmente riprodotta nel film testimonia la riformulazione dello stesso progetto letterario, facendo del rapporto tra autore e opera il cuore stesso dell’elaborazione romanzesca: “Ho reso il romanzo oggetto non solo per il lettore ma anche per me: l’ho messo tra il lettore e me, e ne ho discusso insieme”), non esclusa quella squisitamente esistenziale e affettiva (basti pensare all’ultima intervista domestica o alla sequenza in cui gli spunti figurativi di Porno-Teo-Kolossal sono sbozzati al tavolo della trattoria). Ripetiamolo: ciò che importa davvero è l’espressione, non l’ambito materiale in cui essa si manifesta.

(…) tutto ciò che io vi riferirò, non è apparso nel teatro del mondo ma nel teatro della mia testa, non si è svolto nello spazio della realtà ma nello spazio della mia immaginazione, non si è, infine, concluso secondo le regole contraddittorie del gioco dell’esistenza, ma si è concluso secondo le regole contraddittorie del gioco della mia ragione.
(“Petrolio”, p.413)

È in questo senso che la scrittura, svincolata dalla semplice fissazione dei segni verbali sulla pagina, può compiutamente configurarsi come pratica significante autonoma e pervasiva, come espressione suscettibile di trasferirsi dalla pagina allo schermo, dal verso al corpo. La stessa morte di Pasolini diviene, nella rappresentazione filmica ferrariana, fatto di scrittura, fatto espressivo: anziché tentare la fuga o assumere un atteggiamento remissivo, egli si oppone agli aggressori con la stessa disperata e rovinosa fermezza con la quale si opponeva, nelle sue opere, alla ferocia del pensiero dominante. Davvero qualcuno potrebbe supporre che queste figure sbraitanti sbucate dalla notte ostiense non siano emanazioni di quello stesso pensiero, anzi, per usare un termine tanto raccapricciante quanto calzante, di quella stessa mentalità? Chiamiamola pure come vogliamo (fascismo, oscurantismo, perbenismo, bullismo e altri -ismi altrettanto parziali e inessenziali): resta il fatto che Dafoe/Pasolini vi si oppone e opponendosi soccombe. Ma è anche soccombendo a queste forze dell’uniforme che lascia su di noi una macchia indelebile: non diversamente dal Deveraux di Welcome to New York, per quanto l’accostamento possa suonare blasfemo e irriverente, sulla spiaggia dell’Idroscalo di Ostia (così come sulla carta o sulla celluloide), il Pasolini di Ferrara “non cede sul proprio desiderio”. E, spingendo oltre l’interpretazione, in questa letale opposizione s’indovina addirittura la condensazione del dramma pasoliniano messo in scena da Ferrara: prendere posizione contro il criptofascismo dominante significa sì esprimersi (e quindi inverare uno slancio vitale), ma al tempo stesso significa piazzare la propria esistenza sotto l’ipoteca della morte. Nell’antagonismo dell'espressione, insomma, si condensano impulsi vitali e pulsione di morte, azione e coazione.

Torniamo però al dialogo tra Pasolini e Pasolini prossimo nostro. A molti - e a ragione - non è affatto sfuggita la clamorosa analogia tra l’intellettuale italiano e il cineasta newyorkese generata dall’affermazione “farei film anche se fossi l’ultimo uomo sulla terra. O faccio film o mi suicido”, affermazione incastonata nell’intervista rilasciata a Furio Colombo da Pier Paolo Pasolini poche ore prima di essere assassinato (incastonata poiché nell’intervista originale non vi è traccia di un’affermazione del genere). L’analogia con la prassi cinematografica ferrariana è così forte che potremmo pensare a un’aggiunta vera e propria, qualcosa come una licenza (di) poetica. In realtà, si tratta ancora una volta di farina pasoliniana, semplicemente travasata da un’intervista all’altra. La suddetta dichiarazione si trova, con lievi differenze, nella pellicola di Bertolucci: “Continuerei a fare lo stesso, prometto, il cinema, anche se la libertà fosse solo da parte mia e si esaurisse con l’espressione. Forse lo continuerei a fare lo stesso perché ho bisogno di farlo, mi piace farlo e lo farei. O mi suicido o lo faccio”. La conclusione del passaggio in questione è altrettanto cruciale: “Cioè, a un certo punto, io facendo un film mi esprimo. Se poi questa mia espressione viene completamente alienata e meccanizzata, vabbè pazienza, io intanto mi sono espresso il più possibile liberamente”. Difficile equivocare: a essere irrinunciabile non è tanto il cinema in sé, quanto, più profondamente, l’opportunità che esso offre di esprimersi. Ed esprimersi “il più possibile liberamente” per giunta: libertà irrimediabilmente parziale e inevitabilmente condizionata (dalle materie manipolate in primo luogo), certo, ma cionondimeno non circoscrivibile a un solo campo linguistico né a un codice specifico.

Qualsiasi opera avviene nel mistero.

In quest’ottica performativa della scrittura che, non è superfluo ricordare, è anche scrittura filmica, tornano in mente le parole di Linguaggio e cinema di Christian Metz, un libro che, nonostante i suoi quarantatré anni, continua a fornire spunti critico-teorici tutt’altro che irranciditi: “la scrittura non è né un codice né un insieme di codici, ma un lavoro sui codici, a partire da essi, contro di essi, lavoro il cui risultato provvisoriamente “fermato” è il testo, ossia il film: perciò la chiamiamo filmica” (pp.291-292). Se questa concezione estensiva, dinamica e antagonista della scrittura si presta perfettamente a delineare il tumultuoso percorso espressivo di Pier Paolo Pasolini, essa si adatta altrettanto agevolmente al magma audiovisivo messo in scena da Ferrara, un delirio organizzato che s’irradia scompostamente seguendo le linee di fuga che l’universo pasoliniano proiettava sull’avvenire. Dal montaggio di Salò (ancora una volta il film nel suo processo di composizione) all’iconografia ipotetica e trasandata di Porno-Teo-Kolossal (pellicola che nasce sulle ceneri di un progetto incompiuto e che si rifiuta letteralmente di finire), passando per le visioni dei frammenti di Petrolio (Il pratone della Casilina; L’Epochè: Storia di un uomo e del suo corpo), Pasolini non fa che ripetere incessantemente questa verità paradossale: esprimersi significa al tempo stesso vivere e morire. Ed è proprio in questo senso che il Pasolini di Pasolini è ferrariano e il Ferrara di Pasolini pasoliniano: nella condivisione di un’affine pulsione espressiva che è al tempo stesso slancio vitale e ipoteca di (auto)distruzione, indipendentemente dal livello e dalla sfera in cui l’espressione stessa - la scrittura dei sensi - si materializzi.

Pubblicata su www.spietati.it

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