La notte del 2 novembre 1975 a Roma viene ucciso Pier Paolo Pasolini. Ha
53 anni. Pasolini è il simbolo di un’arte che combatte contro il
potere. Ciò che scrive scandalizza, e i suoi film sono perseguitati dai
censori; in molti lo amano e in molti lo odiano. Il giorno della sua
morte, Pasolini ha passato le sue ultime ore con l’adorata madre e più
tardi con i suoi amici più cari, fino a quando non esce nella notte in
cerca di avventure con la sua Alfa Romeo. All’alba viene trovato morto
su una spiaggia di Ostia, nella periferia della città.
La prima domanda che viene da porsi guardando Pasolini
è anche quella più banale e insidiosa: che cosa ha spinto Abel Ferrara a
girare un film su uno degli intellettuali italiani più controversi e
celebrati del XX secolo? Ovviamente, per evitare le secche dello
psicologismo, occorre subito riformulare l’interrogativo, spostando
risolutamente l’accento sul film stesso (a domande del genere sono
sempre e soltanto i testi a rispondere, inutile lanciarsi in audaci
congetture sulle cosiddette intenzioni dell’autore). Quindi: che cosa,
in questo film e al di là degli aspetti biografico-cronachistici, si
salda alla poetica ferrariana? Detto più chiaramente: qual è
l’ossessione fondamentale che abita il Pasolini di Ferrara? Formulata in
questi termini, la domanda non è così ovvia: se consideriamo la replica
alla domanda rivoltagli nell’ultima intervista televisiva
(rilasciata il 31 ottobre 1975 a Parigi), l’attività letteraria
sembrerebbe incarnare integralmente questa marca ossessiva, riassumendo
in sé gli altri tratti espressivi:
- Qual è la qualifica professionale che preferisce: poeta, romanziere, dialoghista, sceneggiatore, attore, critico, regista?
- Nel passaporto scrivo semplicemente scrittore.
- Qual è la qualifica professionale che preferisce: poeta, romanziere, dialoghista, sceneggiatore, attore, critico, regista?
- Nel passaporto scrivo semplicemente scrittore.
Invece il mio dovere di scrittore è quello di fondare ex novo la
mia scrittura: e ciò non per partito preso, anzi, per una vera e propria
coazione a cui non posso in alcun modo oppormi.
(“Petrolio”, p.48)
(“Petrolio”, p.48)
In
realtà il Pasolini di Ferrara - e in questo senso la giustezza del
ritratto filmico ha dell’impressionante, indiscutibile apporto di una
sceneggiatura libera e avvertita - non ha i connotati dello scrittore
canonico concentrato esclusivamente sulla sua opera, ma spazia in più
ambiti espressivi: letteratura, certo, ma anche critica sociale, impegno
politico-culturale e, soprattutto, cinema. Di fatto è proprio il cinema
a occupare uno spazio sempre più rilevante nella sua produzione, come
si evince del resto dalle dichiarazioni contenute in una pellicola che
dialoga intimamente col film di Ferrara: Pasolini prossimo nostro (Giuseppe Bertolucci, 2006). Qui, nella lunga intervista rilasciata a Gideon Bachman sul set di Salò
durante le riprese finali del film, Pasolini pronuncia parole di tenore
sensibilmente diverso rispetto alla supposta supremazia letteraria, ma a
ben vedere non incompatibili con la pratica significante della
scrittura, sebbene esercitata su lingue - ma sarebbe più pertinente
parlare di materie dell’espressione - diverse. Quello che conta,
insomma, è salvaguardare l’esigenza espressiva, la necessità, sempre più
minacciata e circoscritta, di operare a un livello non sovrastrutturale
con la realtà, aggirando il più possibile il discorso del potere,
entrando in relazione profonda con la sostanza del mondo: “Non scrivo
più come prima, il che equivale a dire che non scrivo più. In principio,
quando ho cominciato a fare cinema, ho pensato che fosse solo
l’adozione di una tecnica diversa, direi quasi di una tecnica letteraria
diversa. Poi, invece, mi sono reso conto, pian piano, che si tratta
dell’adozione di una lingua diversa. Quindi ho abbandonato la lingua
italiana, con cui mi esprimevo come letterato, per adottare la lingua
cinematografica. Ho detto varie volte, per protesta, contestazione
totale, che avrei voluto rinunciare alla nazionalità italiana. Facendo
del cinema ho rinunciato alla lingua italiana, cioè alla mia
nazionalità. Ma la verità è un’altra, forse più complicata e profonda:
la lingua esprime la realtà attraverso un sistema di segni. Invece, il
regista esprime la realtà attraverso la realtà. Questa è forse la
ragione per cui mi piace il cinema e lo preferisco, perché esprimendo la
realtà come realtà opero e vivo continuamente a livello della realtà.”
Vorrei mimare l’ecolalia, essere fàtico, fàtico,
e così esprimere, al grado più basso, il tutto.
(“Propositi di leggerezza”, in “Trasumanar e organizzar”, p.60)
e così esprimere, al grado più basso, il tutto.
(“Propositi di leggerezza”, in “Trasumanar e organizzar”, p.60)
Non
mette conto sottolineare in questa circostanza l'ingenuità della
concezione teorica pasoliniana, pacificamente ascrivibile alla stortura
semiologica convenzionalmente definita “fallacia del referente” (vale a
dire la confusione tra significato e referente nella funzione segnica).
Ciò che importa, invece, è rilevare quanto la pulsione espressiva tenda
ad abbattere le barriere tra una sfera creativa e l’altra o, in termini
pasoliniani, tra una lingua e l’altra. È questa stessa tensione, per
inciso e secondo chi scrive, a sostanziare il plurilinguismo del film:
il passaggio tra i vari idiomi non allude semplicemente alla dimensione
internazionale dell’intellettuale, ma suggerisce una vera e propria
vocazione panlinguistica, una propensione alla libera frequentazione di
domini linguistici di natura diversa. Non inganni, quindi, l’opposizione
tra letteratura e cinema. Del resto questo momento della vicenda
biografica pasoliniana vede sfumare i confini tra una sfera espressiva e
l’altra (la lettera a Moravia parzialmente riprodotta nel film
testimonia la riformulazione dello stesso progetto letterario, facendo
del rapporto tra autore e opera il cuore stesso dell’elaborazione
romanzesca: “Ho reso il romanzo oggetto non solo per il lettore ma anche
per me: l’ho messo tra il lettore e me, e ne ho discusso insieme”), non
esclusa quella squisitamente esistenziale e affettiva (basti pensare
all’ultima intervista domestica o alla sequenza in cui gli spunti
figurativi di Porno-Teo-Kolossal sono sbozzati al tavolo della
trattoria). Ripetiamolo: ciò che importa davvero è l’espressione, non
l’ambito materiale in cui essa si manifesta.
(…) tutto ciò che io vi riferirò, non è apparso nel teatro del
mondo ma nel teatro della mia testa, non si è svolto nello spazio della
realtà ma nello spazio della mia immaginazione, non si è, infine,
concluso secondo le regole contraddittorie del gioco dell’esistenza, ma
si è concluso secondo le regole contraddittorie del gioco della mia
ragione.
(“Petrolio”, p.413)
(“Petrolio”, p.413)
È
in questo senso che la scrittura, svincolata dalla semplice fissazione
dei segni verbali sulla pagina, può compiutamente configurarsi come
pratica significante autonoma e pervasiva, come espressione suscettibile
di trasferirsi dalla pagina allo schermo, dal verso al corpo. La stessa
morte di Pasolini diviene, nella rappresentazione filmica ferrariana,
fatto di scrittura, fatto espressivo: anziché tentare la fuga o
assumere un atteggiamento remissivo, egli si oppone agli aggressori con
la stessa disperata e rovinosa fermezza con la quale si opponeva, nelle
sue opere, alla ferocia del pensiero dominante. Davvero qualcuno
potrebbe supporre che queste figure sbraitanti sbucate dalla notte
ostiense non siano emanazioni di quello stesso pensiero, anzi, per usare
un termine tanto raccapricciante quanto calzante, di quella stessa
mentalità? Chiamiamola pure come vogliamo (fascismo, oscurantismo,
perbenismo, bullismo e altri -ismi altrettanto parziali e inessenziali):
resta il fatto che Dafoe/Pasolini vi si oppone e opponendosi soccombe.
Ma è anche soccombendo a queste forze dell’uniforme che lascia su di
noi una macchia indelebile: non diversamente dal Deveraux di Welcome to New York,
per quanto l’accostamento possa suonare blasfemo e irriverente, sulla
spiaggia dell’Idroscalo di Ostia (così come sulla carta o sulla
celluloide), il Pasolini di Ferrara “non cede sul proprio desiderio”. E,
spingendo oltre l’interpretazione, in questa letale opposizione
s’indovina addirittura la condensazione del dramma pasoliniano messo in
scena da Ferrara: prendere posizione contro il criptofascismo dominante
significa sì esprimersi (e quindi inverare uno slancio vitale), ma al
tempo stesso significa piazzare la propria esistenza sotto l’ipoteca
della morte. Nell’antagonismo dell'espressione, insomma, si condensano
impulsi vitali e pulsione di morte, azione e coazione.
Torniamo però al dialogo tra Pasolini e Pasolini prossimo nostro.
A molti - e a ragione - non è affatto sfuggita la clamorosa analogia
tra l’intellettuale italiano e il cineasta newyorkese generata
dall’affermazione “farei film anche se fossi l’ultimo uomo sulla terra. O
faccio film o mi suicido”, affermazione incastonata nell’intervista
rilasciata a Furio Colombo da Pier Paolo Pasolini poche ore prima di
essere assassinato (incastonata poiché nell’intervista originale
non vi è traccia di un’affermazione del genere). L’analogia con la
prassi cinematografica ferrariana è così forte che potremmo pensare a
un’aggiunta vera e propria, qualcosa come una licenza (di) poetica. In
realtà, si tratta ancora una volta di farina pasoliniana, semplicemente
travasata da un’intervista all’altra. La suddetta dichiarazione si
trova, con lievi differenze, nella pellicola di Bertolucci: “Continuerei
a fare lo stesso, prometto, il cinema, anche se la libertà fosse solo
da parte mia e si esaurisse con l’espressione. Forse lo continuerei a
fare lo stesso perché ho bisogno di farlo, mi piace farlo e lo farei. O
mi suicido o lo faccio”. La conclusione del passaggio in questione è
altrettanto cruciale: “Cioè, a un certo punto, io facendo un film mi
esprimo. Se poi questa mia espressione viene completamente alienata e
meccanizzata, vabbè pazienza, io intanto mi sono espresso il più
possibile liberamente”. Difficile equivocare: a essere irrinunciabile
non è tanto il cinema in sé, quanto, più profondamente, l’opportunità
che esso offre di esprimersi. Ed esprimersi “il più possibile
liberamente” per giunta: libertà irrimediabilmente parziale e
inevitabilmente condizionata (dalle materie manipolate in primo luogo),
certo, ma cionondimeno non circoscrivibile a un solo campo linguistico
né a un codice specifico.
Qualsiasi opera avviene nel mistero.
In
quest’ottica performativa della scrittura che, non è superfluo
ricordare, è anche scrittura filmica, tornano in mente le parole di Linguaggio e cinema
di Christian Metz, un libro che, nonostante i suoi quarantatré anni,
continua a fornire spunti critico-teorici tutt’altro che irranciditi:
“la scrittura non è né un codice né un insieme di codici, ma un lavoro
sui codici, a partire da essi, contro di essi, lavoro il cui risultato
provvisoriamente “fermato” è il testo, ossia il film: perciò la
chiamiamo filmica” (pp.291-292). Se questa concezione estensiva,
dinamica e antagonista della scrittura si presta perfettamente a
delineare il tumultuoso percorso espressivo di Pier Paolo Pasolini, essa
si adatta altrettanto agevolmente al magma audiovisivo messo in scena
da Ferrara, un delirio organizzato che s’irradia scompostamente seguendo
le linee di fuga che l’universo pasoliniano proiettava sull’avvenire.
Dal montaggio di Salò (ancora una volta il film nel suo processo di composizione) all’iconografia ipotetica e trasandata di Porno-Teo-Kolossal
(pellicola che nasce sulle ceneri di un progetto incompiuto e che si
rifiuta letteralmente di finire), passando per le visioni dei frammenti
di Petrolio (Il pratone della Casilina; L’Epochè: Storia di un uomo e del suo corpo), Pasolini
non fa che ripetere incessantemente questa verità paradossale:
esprimersi significa al tempo stesso vivere e morire. Ed è proprio in
questo senso che il Pasolini di Pasolini è ferrariano e il Ferrara di Pasolini
pasoliniano: nella condivisione di un’affine pulsione espressiva che è
al tempo stesso slancio vitale e ipoteca di (auto)distruzione,
indipendentemente dal livello e dalla sfera in cui l’espressione stessa -
la scrittura dei sensi - si materializzi.
Pubblicata su www.spietati.it
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