Un traffico milionario di droga tra il Messico e gli Stati Uniti. Parti
in causa: un avvocato che si lancia per la prima volta in un’operazione
del genere, il più esperto e appariscente Reiner, che coinvolge il
procuratore nell’affare, e Westray, intermediario che si occupa del
trasferimento di denaro e dei contatti col cartello messicano. A fianco
dell’avvocato la fidanzata Laura, promessa sposa di religione cattolica;
accanto a Reiner la seducente Malkina, ex ballerina proveniente dalle
Barbados priva di scrupoli. Avvenuto il passaggio del carico di droga
occultato in un trasporto di liquame, la situazione si complica a causa
delle macchinazioni di Malkina, che, con l’aiuto di complici, si
appropria del camion, provocando la rappresaglia della malavita
messicana.
Lascio
a spettatori/esegeti più perspicaci e volenterosi del sottoscritto il
compito di rispondere alle numerose questioni che l’intrigo di The Counselor
solleva senza fornire appigli sicuri. Chi regola davvero i meccanismi
di questo universo malavitoso? Per quali motivi alcuni individui la
fanno franca o sopravvivono e altri vengono uccisi più o meno
accidentalmente? È veramente una coincidenza che il figlio di Ruth
(Rosie Perez), detenuta del penitenziario di stato del Texas e difesa
dal procuratore, sia anche il Green Hornet del cartello messicano? A
interrogativi simili chi scrive non è affatto in grado di rispondere. Ma
spuntare tutte le caselle del questionario è così indispensabile o non è
forse più ragionevole ipotizzare che la complicazione della vicenda
suggerisca l’inessenzialità delle spiegazioni e delle motivazioni
(variabilmente riconducibili all’avidità)? Quello configurato da The Counselor
somiglia insomma a un universo nel quale caso e libero arbitrio si
alleano capricciosamente per precipitare la realtà nel caos più
irreparabile: il caso pone le condizioni di possibilità della
catastrofe, ma è il libero arbitrio ad attualizzarla concretamente.
Cristallizzata spesso in affermazioni lapidarie, la sensazione diffusa
che si ricava dalla pellicola è quella di un nichilismo permeato di
rassegnazione, come se l’errore fatale consistesse nel tentare la sorte,
nell’aspettarsi troppo dagli esseri umani e dalle circostanze
apparentemente favorevoli.
Stante
il binomio McCarthy/Scott, la tentazione sarebbe quella di leggere la
pellicola in chiave ironico-sarcastica, aggregando la tonalità
nichilistica di cui sopra alla fattura stessa del film: The Counselor
si tramuterebbe così in un gigantesco e beffardo gioco al massacro nei
confronti della narrazione, degli interpreti e persino di se stesso.
Assecondata questa supposizione, il prologo raffigurerebbe macabramente
il procuratore (Michael Fassbender) e Laura (Penélope Cruz) coperti non
da un lenzuolo ma da un sudario, le grottesche caratterizzazioni di
Reiner (Javier Bardem) e Malkina (Cameron Diaz) rappresenterebbero una
derisione del loro statuto iconico e il funereo ciondolare della vicenda
costituirebbe una riproposizione trasfigurata e digitalizzata (si pensi
al dvd HOLA! recapitato all’avvocato nel finale) del letale itinerario
peckinpahiano di Voglio la testa di Garcia (1974), pellicola con la quale The Counselor
intrattiene un continuo e intimo dialogo (oltre alla ricorrenza delle
decapitazioni, alcuni scambi tra il procuratore e Laura riecheggiano le
conversazioni tra Bennie ed Elita nella prima parte di Bring Me the Head of Alfredo Garcia).
Osservato necroscopicamente, l’intero film si identificherebbe infine
col cadavere colombiano ficcato nel quarto barile nascosto nel camion:
uno scherzo di macabra gratuità che sfocia nell’assurdità e
nell’insensatezza (“In this business you gotta have a sense of humor”,
sibila divertito John Leguizamo a un esterrefatto Dean Norris durante la
consegna del carico). Tuttavia, prima di avventurarsi in una
sovrainterpretazione simile, occorre fare i conti con la superficie
cinematografica di The Counselor: un film così scombiccherato e platealmente raté
da possedere sì un suo fascino perverso, ma palesemente fallace nel
magnificare la propria inconcludenza/sconclusionatezza in elemento di
gloria.
Già pubblicata su www.spietati.it.
ho molto paura di vederlo...
RispondiEliminaSquisita recensione che si mantiene sul vago, nel giudizio. ;) Io sono un convinto assertore della totale incapacità del neo sceneggiatore a costruire delle storie in narrazione, figurarsi in uno script....
RispondiEliminaBuongiorno Alessandro,
RispondiEliminasono d'accordo con te ed allo stesso tempo affascinato dai meccanismi che portano uno scrittore con quella biografia a scrivere una sceneggiatura cosi malriuscita...in mente ho un film come Barton Fink ed un romanzo come Gli ultimi fuochi che però propongono una dialettica tra scrittore ed industria cinematografica che credevo non potesse appartenere al grande scrittore americano..
Brutto, brutto... ma stavolta la colpa non è di Ridley Scott (che il mestiere ce lo mette sempre), ma della sceneggiatura di McCarthy.
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