Chiedersi quanto ci sia di realtà e quanto di finzione in A Spell to Ward Off the Darkness
sarebbe straordinariamente ozioso e improduttivo, così come domandarsi
quale sia l’obiettivo del film (altro modo per interrogarsi sul
cosiddetto “messaggio”: le virgolette, ovviamente, sono di disprezzo).
Non sarà chi scrive a farlo. Nella pellicola di Ben Rivers e Ben Russell
ciò che conta è evidentemente altro: l’annullamento delle gerarchie
narrative, l’azzeramento delle psicologie convenzionali, la
cancellazione dei nessi causa-effetto. Persino il personaggio portante
(Robert Aiki Aubrey Lowe) s’impone come veicolo di transizione da un
segmento all’altro e non quale protagonista comunemente inteso. Molto
più di una semplice demarcazione sintattica, il lampeggiante triangolo
equilatero che scandisce le tre parti si erge a principio compositivo di
equalizzazione tra le sezioni, suggerendo un altro ordine possibile,
non esclusa la simultaneità. A differire sensibilmente, in questa
partitura triangolare sull’utopia sotto forma cinematografica, sono
tuttavia gli approcci al tempo della rappresentazione: dichiaratamente
ispirato a Milestones
(1975) di Robert Kramer, il primo segmento dispiega una temporalità
libera ed ellittica che veicola l’impressione di uno sguardo fluttuante e
calato nel vivo delle situazioni riprese. Nella seconda parte, grazie a
un trattamento stilizzato e rarefatto, le durate delle inquadrature si
dilatano notevolmente per trasmettere la sensazione di un periodo più
lungo di tempo passato in solitudine a stretto contatto con l‘ambiente.
La terza sezione, infine, si smarca dalla scansione cronologica per
immergersi nella fenomenologia dell’istante: girato con riprese
continuative, il concerto di black metal - provato prima a porte chiuse e
poi filmato il sabato sera in tempo reale - cala lo spettatore nella
radicalità di un qui e ora che vive esclusivamente di prossimità e
tangibilità audiovisiva. L’incantesimo per allontanare l‘oscurità? Il
cinema probabilmente.
Pubblicata su www.spietati.it.
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