"Quando il Presidente Kennedy venne assassinato, la First Lady
Jacqueline Kennedy dovette tirar fuori tutto il suo coraggio per
superare il dolore e lo choc e ritrovare la fede, consolare i figli e
forgiare l'eredità storica del marito" (dal pressbook),
E così veniamo avanti
simili in tutto a quelli di ieri
aggrappati a un'immagine
condannata a descriverci
Dimmi, non è così?
Massimo volume,
Le nostre ore contate
Voglio essere il tuo specchio
Chiuso il cerchio morbosamente penitenziale di
Il club, è stata la volta della spirale pomposamente metanarrativa di
Neruda,
film in cui i contorcimenti metadiscorsivi stritolavano ogni
possibilità di identificazione dello spettatore e boicottavano qualsiasi
ipotesi di definizione univoca del protagonista. L'insegna al neon che
sovrastava
Neruda,
insomma, non faceva che saettare questa sentenza: "La verità è un gioco
di specchi". Un trito dogma modernista attorno al quale il film
intesseva una bulimica variazione stilistica, finendo per rimanerne
schiacciato. Resta il fatto che, pur soffocato dal suo stesso assunto,
Neruda ruotava intorno all'idea di verità in quanto riflesso inafferrabile e inarrestabile.
Ebbene, è esattamente la stessa idea di verità come fuga di specchi a muovere e agitare
Jackie.
Presentato in concorso a Venezia 2016, il settimo lungometraggio
cinematografico di Pablo Larraín si sviluppa secondo tre linee
ricostruttive che s'intersecano, disegnando un ritratto femminile
incorniciato dall'ossessione dell'identità riflessa sia dal punto di
vista biografico (Jackie come Mrs. John F. Kennedy) sia da quello
puramente grafico (Jacqueline come volto posto quasi ininterrottamente
di fronte a superfici riflettenti).
1- L'intervista rilasciata a Theodore H. White (Billy Crudup) pochi
giorni dopo l'omicidio del marito e pubblicata su LIFE il 6 dicembre
1963 col titolo
An Epilogue.
2 - Il programma televisivo
A Tour of the White House with Mrs. John F. Kennedy trasmesso sia dalla CBS che dalla NBC il 14 febbraio 1962 (nonché dalla ABC quattro giorni dopo).
3 - Il colloquio, successivo all'intervista, col padre gesuita Richard McSorley (John Hurt) avvenuto nel 1964.
In queste tre situazioni di discorso soggettivo e rappresentazione di
sé, Jacqueline Kennedy (Natalie Portman) è mostrata secondo tre
angolazioni diverse e complementari: apertamente pubblica nel frangente
televisivo (si tratta di esibire ufficialmente i lavori di
riqualificazione della Casa Bianca), in bilico tra pubblica e privata
durante l'intervista (l'intento di onorare e preservare l'eredità ideale
lasciata dal marito si alterna a momenti di fugace abbandono e
improvvisa fragilità), squisitamente confidenziale e privata in
occasione del dialogo col sacerdote gesuita (qui Jackie confessa a
McSorley i suoi pensieri più oscuri e autodistruttivi).
Immagine perfetta, sensazione perfetta
Ovviamente
è nel pannello sacerdotale che la questione della verità si fa più
cocente e dolorosa. Sollecitata dal reverendo McSorley ("God isn't
interested in stories. He's interested in the truth", le dice il padre
gesuita), Jackie si mostra finalmente disposta a ricordare e riferire
gli istanti più drammatici dell'assassinio di John a Dallas: "I told
everyone that I can't remember. It's not true. I can remember. I can
remember everything", confessa al sacerdote immediatamente prima che ci
vengano sciorinati gli highlights più tragici e sanguinosi
dell'omicidio. Ma, di fatto, l'interrogazione sulla verità percorre
l'intero film, fin dai primi scambi tra Jackie e Theodore H. White. In
una delle prime frasi rivolte al giornalista, la vedova Kennedy formula
sarcasticamente questa domanda: "The more I read, the more I wonder...
When something is written down, does that make it true?". E se White,
qualche minuto dopo, risponde alle punzecchiature della diffidente
Jackie proclamandosi cercatore di verità da bravo reporter ("I’m just
trying to get to the truth. That’s what reporters do"), lei replica
altezzosamente, liquidando in scioltezza questa ingenua pretesa e
dicendosi perfettamente consapevole del grande divario che esiste tra
ciò che la gente crede e ciò che lei sa essere reale ("Oh, the truth.
Well, I've grown accustomed to a great divide between what people
believe and what I know to be real").
Perché
per Jackie, e qui sta il vero nodo problematico del film, la verità
risiede nell'immagine. È per questo motivo che, fin dalle prime battute,
la rappresentazione televisiva viene da lei proposta sbrigativamente
come il superamento dell'arbitrarietà insita nella scrittura: "We have
television now. At least people can see for their own eyes". Per Jackie
vedere coi propri occhi equivale a conoscere la verità. Non è per
capriccio che esige il controllo sulla versione definitiva
dell'intervista: "You understand that I will be editing this
conversation? Just in case I don't say exactly what I mean", sibila
seccamente all'interdetto White ancor prima di farlo entrare in casa.
Per lei la parola scritta costituisce un insidioso strumento di
manipolazione e, al tempo stesso, un potentissimo dispositivo di
mitizzazione: "I believe that the characters we read about on the page
end up being more real than the men who stand beside us", confesserà al
sacerdote gesuita in una delle sue ultime battute. E non è mera vanità
quella che spinge la giovane First Lady a spalancare le porte della Casa
Bianca alle telecamere per mostrare agli occhi dei telespettatori
americani ("I didn’t do that program for me. I did it for the American
people") i lavori di personalizzazione di quella che nel programma verrà
ribattezzata "The People’s House": Jackie è davvero convinta che per
mezzo dell'immagine televisiva si possa toccare la verità con gli occhi,
eludendo le storture diffamanti o magnificanti della scrittura. Ed è
questa stessa convinzione circa le proprietà manipolatorie della
scrittura che la porterà a "camelotizzare", proiettandola in un reame
fatato, l’eredità ideale lasciata dal marito: "Maybe that's what they'll
all believe now. Camelot. People like to believe in fairy tales",
replicherà alla domanda di padre McSorley se la pubblicazione
dell'intervista l'abbia aiutata a guarire. Se l'immagine registra la
verità, la scrittura, per Jackie, sta sempre un gradino sotto o sopra la
percezione della realtà.
Questa è la tua faccia, dice
Naturalmente
il film, e in ciò dovrebbe risiedere la sua modernità, si premura di
erodere questa fiducia sconsiderata nell'immagine, mostrandoci la
"dipendenza iconica" di Jackie in modo quasi caricaturale: dalla già
menzionata visita guidata nella Casa Bianca (il primo tour televisivo in
assoluto nella residenza presidenziale) al desiderio gloriosamente
lugubre confessato a McSorley di essere abbattuta davanti alle
telecamere durante la processione funebre allestita per il marito ("In
front of the whole world? Famous life, famous death", commenta
acutamente il padre gesuita), passando per la priorità assegnata agli
oggetti e agli artefatti sulle persone in carne e ossa ("Objects and
artifacts last far longer than people, and they represent important
ideas in history, identity, beauty", asserisce Jackie nell'intervista,
con aria sognante, a un sempre più interdetto White) e, soprattutto, per
la deliberata ostensione televisiva dei due orfani Kennedy in occasione
del trasferimento ufficiale del feretro al Campidoglio (alla
ragionevole ritrosia della devota segretaria Nancy Tuckerman/Greta
Gerwig "But the cameras. Those pictures are being broadcast to every
corner of the world", Jackie replica categoricamente "Those pictures
should record the truth. Two heartbroken, fatherless children are part
of that").
Ma
il tratto più impressionante di questa erosione iconica si concretizza
nella miriade di specchi e superfici riflettenti che accerchiano e
guatano Jackie, incorniciandola visivamente senza darle un attimo di
tregua. Jackie davanti allo specchio nell'Air Force One (il celebre SAM
26000 creato appositamente per John F. Kennedy) prima del bagno di folla
a Dallas; Jackie allo stesso specchio mentre si toglie, gli occhi
bagnati di lacrime, le macchie di sangue dal volto dopo l'omicidio del
marito; Jackie imprigionata in una fuga di specchi quando, nel suo bagno
alla Casa Bianca, si spazzola freneticamente le unghie per rimuovere le
incrostazioni ematiche; Jackie di fronte allo specchio nella camera
presidenziale mentre indossa i gioielli e si trucca per rivivere
idealmente, in passeggiate solitarie sulle note del musical
Camelot,
l'incanto della dolce era perduta; Jackie allo specchio mentre prova il
velo funebre circondata dalle premurose attenzioni della fedele Nancy;
Jackie inquadrata attraverso il finestrino dell'auto su cui si
riflettono le sagome e i volti della folla durante il trasferimento del
feretro al Campidoglio: tutti momenti nei quali è confrontata con la
propria immagine speculare, posta di fronte a un'icona che rappresenta
totalmente la sua identità e alla quale ha consacrato l'intera
esistenza. Per lei, insomma, essere all'altezza di quell'immagine non è
questione di vanità, è semplicemente questione di sopravvivenza.
Se
l'immagine televisiva, come osservato in precedenza, certifica la
verità sottraendola alle storture della scrittura, per Jackie l'immagine
speculare svolge parallelamente la funzione di incorniciatura
narcisistica. Detto altrimenti, lo specchio le restituisce una tangibile
proiezione immaginaria: un Io ideale che fa letteralmente corpo con la
sua immagine riflessa e la inchioda a un'identità puramente iconica.
Venuto meno il sostegno narcisistico veicolato dal marito (dico
"veicolato" perché in realtà, per la First Lady, l'autentica figura del
Grande Altro è rappresentata da Lincoln, di cui John F. Kennedy non
costituisce che un avatar mortale), a Jackie non resta che questo Io
ideale a cui aggrapparsi per non precipitare nel vuoto informe
dell'inconsistenza melanconica. E l'apoteosi di questa dipendenza
dall'immagine speculare è raggiunta quando, inscatolati i suo averi e
quelli dei figli in vista del trasloco imminente dalla Casa Bianca,
Jackie ingoia l'ennesima pillola e si guarda allo specchio: è come
sorpresa dalla propria immagine, è come se quella presenza la stesse
spiando. La camera a mano che la riprende di profilo destro si allontana
da lei e, con una soggettiva libera indiretta in cui la visione del
regista si impregna della sensibilità della protagonista, sposa la
traiettoria del suo sguardo, inquadrando il suo volto incorniciato dallo
specchio e mettendolo progressivamente a fuoco.
Ridicolizzata
poco prima dal cognato Bobby (Peter Sarsgaard) e guatata dalla propria
immagine speculare, Jackie si sente obbligata a cambiare idea e imporre
la processione all'aperto dal Campidoglio alla cattedrale di St. Matthew
precedentemente annullata per motivi di sicurezza. Messa alle strette
dall'Io ideale che l'ha appena scrutata definendosi visivamente, Jackie
deve essere di nuovo all'altezza di quella immagine: il corteo funebre
avrà luogo e lei camminerà dietro alla bara del marito fino alla
cattedrale, nonostante le resistenze dell'entourage del neopresidente
Lyndon Johnson ("I've changed my mind. We will have a procession, and I
will walk to the Cathedral with the casket", informa con olimpica
sicurezza il recalcitrante Jack Valenti/Max Casella). Detto più
semplicemente, è stata la sua immagine speculare a farle cambiare idea,
ricordandole che lei è Jackie: non una povera vedova affranta e
remissiva, ma un'icona regale e combattiva. Si noti, di passata, il
parallelismo tra l'espressione meravigliosamente perplessa che Jackie
nota sul volto del marito morente ("He had the most wonderful expression
on his face, you know? Just before they'd ask him a question, just
before he'd answer, he looked puzzled", dice a White durante
l'intervista) e quella altrettanto esitante dell'immagine che la sta
fissando: è in questo preciso frangente, per mediazione della
perplessità, che avviene la coalescenza tra il supporto narcisistico
rappresentato fino a quel momento dall'immagine di John/Jack e il
riflesso speculare di Jackie stessa. Lo stato d'animo indovinato in
punto di morte sul volto del marito si riaffaccia a distanza sullo
specchio, investendo Jackie con autorità categorica: si tratta di
un'imperiosa saldatura narcisistica assimilabile a un enunciato
performativo che enfatizza le sue capacità di prestazione, rigonfiando
inaspettatamente il suo Io immaginario: "Questa è la tua faccia, dice".
Sospesa tra questo corpo e la scena
Se
a questi tratti caricaturali che definiscono la dipendenza di Jackie
dall'immagine aggiungiamo la sua ansia espositiva (la predilezione per
le folle, il desiderio di manifesti con la faccia di John affissi
ovunque, la determinazione megalomanica di riprodurre la magnificenza
della cerimonia funebre di Lincoln) e il suo timore per le ripercussioni
dell'autopsia sull'integrità visiva del marito ("Make sure they make
him look like himself", mormora terrorizzata al cognato Bobby),
l'intensità della sua iconofilia raggiunge livelli francamente
ossessivi. Un'ossessione per la propria immagine - e per quella del
marito come protesi narcisistica - che si presta a una doppia lettura:
storica e contemporanea. Nel primo caso si delinea il ritratto di una
donna che reca impressi i lineamenti culturali dei primi anni '60, ossia
l'impronta di quella civiltà dell'immagine di cui si occupavano e
preoccupavano proprio in quegli anni sociologi, teorici della
comunicazione e protosemiologi. Jackie come donna del suo tempo,
insomma, assoggettata all'etichetta e ai codici iconici che
determinavano il protocollo comportamentale dell'alienazione integrata
(ricordiamo scolasticamente che
Apocalittici e integrati di Umberto Eco è del 1964).
Nel
secondo caso, con un salto mortale che ci catapulta nella
contemporaneità, si configura al contrario il ritratto di una figura
femminile che assembla la propria esistenza affastellando immagini di
invidiabile classe ed eleganza, proponendosi come icona di stile.
Immagini social, in una parola. Che cosa suggerisce infatti, allo
spettatore contemporaneo, quel formato orizzontale dell'immagine
speculare che costringe Jackie a essere all'altezza della propria
rappresentazione se non un'immagine di copertina? Dall'immagine da
copertina per le riviste degli anni '60 e programmi televisivi vincitori
di Emmy (
A Tour of the White House with Mrs. John F. Kennedy
valse alla First Lady il prestigioso riconoscimento) all'immagine di
copertina/profilo dei mezzi di autorappresentazione contemporanea
(Facebook, Instagram, Pinterest, Tumblr e via postando) il salto è
discontinuo e azzardato, certo, eppure è proprio in questo balzo
spericolato che, secondo chi scrive, è dato indovinare lo straripamento
nell'ossessione visiva che contraddistingue la costruzione dell'identità
odierna. Una spericolatezza che, tuttavia, precipita nell'ovvietà di
una constatazione lapalissiana.
Jackie,
dunque, non è soltanto ossessionata dal controllo della propria
immagine, ma, secondo una dinamica più insidiosa e perversa, è
controllata ossessivamente dalla propria immagine, in un circuito chiuso
di rappresentazione iconica condannata a descriverla. Il processo
erosivo nei confronti di questo circolo vizioso si conclude
emblematicamente nel prefinale quando, abbandonata la Casa Bianca e
seppelliti i due figli ad Arlington accanto al marito, Jackie vede dalla
limousine alcuni manichini a sua immagine e somiglianza nelle vetrine
della città e altri scaricati da un camion per essere esposti: la
reificazione iconica ha completato il suo percorso, trasformandola in
vero e proprio oggetto di consumo visivo, simulacro mercificato,
fantoccio da esposizione. E così il mosaico di sintomi paranoici,
nevrotici e narcisistici che compone il ritratto di Jackie sbozzato da
Larraín sulla sceneggiatura di Noah Oppenheim rimbalza sull'iconofilia
contemporanea per interposta bacheca, finendo per mostrarci
tautologicamente la nostra dipendenza dall'immagine nella costruzione
inesausta della nostra identità social.
A
questo invero logoro motivo di riflessione si congiunge, infine, un
altro elemento di non straordinaria originalità, quello
dell'ineludibilità consolatoria della dimensione narrativa. La favola
leggendaria recuperata da Jackie per mitizzare idealmente l'era Kennedy,
difatti, si delinea in modo sempre più evidente come una costruzione di
fantasia necessaria a incapsulare il nucleo traumatico realmente
vissuto. Senza armatura narrativa il reale si presenterebbe a Jackie
come un vuoto letteralmente insopportabile, donde la necessità di
compensare e rivestire questo vuoto con una
fabula che ne smorzi
il potenziale distruttivo e disgregativo, trasfigurandolo in racconto
mitologico ("Don't let it be forgot/That once there was a spot/For one
brief, shining moment/That was known as Camelot", recita il refrain del
brano tanto amato dal compianto marito). Dal vuoto reale della morte
alla pienezza consolatoria del mito favoloso, passando per la
vischiosità dell'ossessione iconica: ecco la parabola tracciata con
limpido rigore disegnativo da Larraín. Messa in scena che nevrotizza,
aggiornandoli, i parametri stilistici della regia televisiva americana
anni '60 (l'impressione di trovarsi in una sorta di TV show impazzito è
suscitata dalla frontalità, dalla secchezza e dalla frammentazione del
dettato visivo), commento musicale sinuosamente dissonante di Mica Levi
(le riconoscibili frenate sonore della compositrice britannica si aprono
gradualmente ad ariose vibrazioni di fiati e archi) e interpretazione
di necrofilo mimetismo di Natalie Portman, che nell'epilogo stringe
guantata il suo John/Jack, danzando beatamente tra le sue braccia,
quelle di un cadavere squisito. Continuamente sospesa tra questo corpo e
la scena.