venerdì 14 ottobre 2016

FRANTZ

 




Al termine della Prima guerra mondiale, in una cittadina tedesca, Anna si reca tutti i giorni sulla tomba del fidanzato Frantz, morto al fronte in Francia. Un giorno incontra Adrien, un giovane francese anche lui andato a raccogliersi sulla tomba dell'amico tedesco. La presenza dello straniero nella cittadina tedesca susciterà reazioni sociali molto forti e sentimenti estremi (dal pressbook). 






Presentato in concorso alla 73ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia.
Premio Marcello Mastroianni a Paula Beer per la miglior attrice emergente.
Distribuito nelle sale cinematografiche italiane il 22 settembre 2016.

I - Premessa autoreferenziale: il principio vitale della metamorfosi 


Nel secondo numero di INLAND. Quaderni di cinema, ho tentato di individuare ciò che, semplificando quel tanto che basta a rappresentarsi le cose, ho definito l'"elemento ozoniano", vale a dire quell'elemento capace di assumere la posizione di fulcro nell'intero cinema di François Ozon, assicurando all'insieme dei suoi film un'organizzazione dinamica e singolare. Mi permetto di rimandare spudoratamente al contributo di INLAND poiché lì passo in rassegna la sua intera filmografia alla luce di questo ipotetico elemento fondamentale (cosa che mi asterrò scrupolosamente dal fare in questa sede). Mette comunque conto riportare sinteticamente l'ipotesi formulata in quel breve saggio, perché di fatto è la stessa che orienta le seguenti riflessioni. In La pelle e la traccia: riscritture del sé. Il cinema trasformazionale di François Ozon ipotizzo dunque che questo fatidico elemento risieda nell'esigenza di cambiare continuamente pelle, mantenendo come traccia permanente la riscrittura dell'identità: "Non una variazione sul tema identitario condotta con sguardo immutabile, ma una dialettica che impegna e investe lo statuto dello stesso sguardo: l'epidermide muta di pellicola in pellicola, la traccia persiste nella metamorfosi stessa". Nel cinema di Ozon, insomma, ogni pellicola (alla lettera "piccola pelle") non farebbe che ripeterci questo: l'identità resta florida solo a condizione di mutare, il suo nucleo vitale non coincidendo affatto con l'unità definitiva e difensiva ma, al contrario, con la trasformazione permanente. Questo, in estrema sintesi, quello che ritengo essere l'elemento specifico, originario e semplicemente irrinunciabile del suo cinema, elemento che a mio avviso trova compiuta incarnazione in Ricky, infante alato nel quale convergono, facendo e facendosi corpo, i tratti di un'identità rigogliosa poiché libera di dispiegare le marche della differenza e quelli di un cinema che della metamorfosi ha fatto un vero e proprio principio vitale.

Osservato da questa angolazione, il radicale del cinema di Ozon coinciderebbe quindi con la mutazione pellicolare e, al tempo stesso, con l'identità come trasformazione, movimento continuo, plasticità dinamica. Ovviamente non si tratta del cencioso concetto di adattamento (il che trascinerebbe l'intero discorso sul versante del conformismo), ma, più precisamente, della necessità di non lasciarsi intrappolare dal protocollo affettivo ricevuto e assumere soggettivamente, riscrivendolo, il destino già programmato per ciascun individuo dal complesso di norme e istituzioni sociali (la famiglia in primo luogo). Tuttavia, lo ripeto, questo movimento non interessa soltanto i personaggi messi in scena di film in film, ma coinvolge lo stesso dispositivo cinematografico di Ozon, sottoponendolo a torsioni, deformazioni e riconfigurazioni ininterrotte (è una cosa che Melvil Poupaud ha detto con invidiabile essenzialità: "Gira molto e cambia stile ogni volta, restando personale al tempo stesso"). Questa esigenza trasformazionale è così irrinunciabile da aver portato Ozon a concepire persino il "film-mix" Quand la peur dévore l'âme (2007), ibrido intertestuale creato con la libera combinazione di parti di Secondo amore (Douglas Sirk, 1955) e La paura mangia l'anima (Rainer Werner Fassbinder, 1974). Mi pare assolutamente evidente che questo mediometraggio inveri formalmente il principio vitale della poetica ozoniana: plasmare nuove identità a partire dalla riconfigurazione di quelle ereditate.


II - Spostamento del punto di vista: condividere l'inconsapevolezza

 

Ebbene, questo movimento di riappropriazione e soggettivazione è esattamente quello che permea Frantz, film liberamente ispirato a L'uomo che ho ucciso (Broken Lullaby, 1932) di Ernst Lubitsch - pellicola a sua volta basata sulla pièce teatrale L'Homme que j’ai tué di Maurice Rostand. Il rapporto coi lavori di Rostand e Lubitsch è molto simile a quello che contraddistingue Quand la peur dévore l'âme: pièce e pellicola vengono assunti come testi da rispettare esteriormente e riscrivere intimamente. Ne scaturisce una sorta di palinsesto che si nutre delle raschiature e delle interpolazioni imposte soggettivamente alla materia di partenza. La ripresa soggettiva di Broken Lullaby si compie infatti all'insegna di uno stravolgimento plateale: il ribaltamento del punto di vista dominante. Se il lavoro teatrale di Rostand e la pellicola di Lubitsch sposavano il punto di vista del protagonista maschile, Ozon sposta il baricentro emotivo e cognitivo sullo sguardo della fidanzata del soldato tedesco ucciso in trincea. Lo spostamento del punto di vista induce una profonda riconfigurazione della materia di partenza, poiché, pur mantenendo la tela narrativa di fondo (ambientazione storica e dinamiche drammaturgiche di base), l'adozione del nuovo angolo visuale comporta un posizionamento dello spettatore radicalmente differente: non più una posizione onnisciente e trepidante per il senso di colpa provato dal giovane francese che si reca in Germania per piatire il perdono, ma una condizione di inconsapevolezza e curiosità condivisa con la protagonista femminile che ha perso il fidanzato in guerra. In termini narratologici, ci troviamo in una situazione di focalizzazione interna, ovvero sappiamo soltanto ciò che sa Anna (Paula Beer) e ogni sua acquisizione cognitiva coincide con un nostro passo in avanti verso la scoperta della verità. Il desiderio di Ozon, come espresso dalle dichiarazioni contenute nel pressbook, si concentra fondamentalmente su questo nuovo orientamento narrativo: "il film di Lubitsch (…) è molto simile allo spettacolo teatrale e adotta lo stesso punto di vista, quello del giovane francese. Il mio desiderio invece era di adottare il punto di vista della ragazza che, così come lo spettatore, non sa perché quel giovane francese si reca sulla tomba del suo fidanzato".

È fin troppo semplice rilevare come questa dislocazione del punto di vista scateni l'attività congetturale dello spettatore. Detto più semplicemente, lo spettatore, privato dell’onniscienza di cui godeva nella pièce di Rostand e nella pellicola di Lubitsch, si trova costretto a formulare ipotesi sulla reale identità di Adrien (Pierre Niney) e sulla relazione che questo sconosciuto aveva con Frantz (Anton von Lucke). Chi è questo giovane francese spuntato dal nulla? Quale rapporto lo lega a Frantz? Perché è così ossessionato dalla memoria del defunto? Tutte queste domande non hanno luogo in Broken Lullaby, dal momento che lo spettatore sa fin dall'inizio che Paul (questo il nome del soldato francese nel film di Lubitsch) ha ucciso l'imbelle Walter in trincea (donde l'eloquente titolo L'uomo che ho ucciso). Insomma, in Frantz non è più la colpevolezza del soldato francese a menare le danze e costituire il nucleo emotivo della vicenda, ma l'inconsapevolezza equamente condivisa tra Anna e lo spettatore. Ed è proprio questa condizione d'inconsapevolezza condivisa a creare i presupposti di quella metamorfosi identitaria che, come abbiamo visto, costituisce il principio vitale del cinema di Ozon: è solo sulla base di questa incertezza che può svilupparsi la disponibilità all'apertura e alla trasformazione soggettiva. In palio c'è qualcosa di molto più cruciale del semplice intrattenimento: lo spostamento del punto di vista non risponde soltanto all'accrescimento del mistero intrigante, ma, soprattutto, all'allestimento di un teatro interiore propizio al dispiegamento della metamorfosi. Una metamorfosi che, naturalmente, investirà in primo luogo l'identità della protagonista, ma che, grazie alla centralità del suo punto di vista, coinvolgerà indirettamente e provvisoriamente (quanto meno per la durata della visione) anche quella dello spettatore.


III - Il movimento come materializzazione del percorso di trasformazione

 

È il movimento, in effetti, a rappresentare l'aspetto più appariscente di Frantz, un movimento che dapprima interessa la sola Anna, ma che, per interposta protagonista, finisce per contagiare lo spettatore: nel movimento del personaggio vediamo materializzarsi il suo stato e le sue potenzialità dinamiche, immedesimandoci nel suo percorso fisico e psicologico. Non è affatto fortuito che il film si apra sulla camminata della ritrosa Anna per le strade, i vicoli e le scalinate (elemento dinamico tutt'altro che secondario nel cinema di Ozon, basti pensare alla rilevanza scenografica della scala in 8 donne e un mistero) della cittadina tedesca di Quedlinburg. In questo silenzioso e solitario tragitto, non a caso completamente assente nel film di Lubistch in cui una dissolvenza incrociata elide classicamente il percorso dal negozio di fiori al cimitero, ci mettiamo in cammino insieme al personaggio, osservando il suo disinteresse per gli uomini che la guardano, interrogandoci sulla sua condizione, ipotizzando gli sviluppi futuri della vicenda. È del resto lo stesso Ozon a sottolineare l'importanza di questo incipit itinerante: "Mi piace molto riprendere i tragitti percorsi, è un modo concreto di materializzare l'idea del movimento dei personaggi e di mettere il film e i protagonisti in un luogo geografico. Era importante mostrare quella cittadina tedesca, quei tragitti dalla casa al cimitero, e poi fino alla Gasthaus. Guardare quel tragitto è interrogarsi sul personaggio, capire il suo percorso. All’inizio Anna è un po' ferma, gira su se stessa in questa cittadina. Per poi affrontare il grande viaggio che la porterà in Francia e la farà andare oltre le apparenze".

Ed è un indizio altrettanto rivelatorio il fatto che l'epilogo di Frantz sia scandito da un'altra camminata della protagonista, ma di senso diametralmente opposto a quello luttuoso e rassegnato dell'incipit: stavolta siamo al Louvre e Anna, di nuovo Giovane e bella (è stata la madre, spronandola a partire per Parigi, a sussurrarle "sei giovane e bella, non perdere questa chance!"), percorre i corridoi del museo con passo sicuro e spregiudicato, finalmente consapevole e disponibile all'incontro con l'altro (il dialogo conclusivo davanti al quadro di Manet ha quasi il sapore di un abbordaggio). Tuttavia non si tratta soltanto di emancipazione femminile, ma, più ampiamente, di trasformazione sentimentale, apertura all'esistenza. Ancora Ozon: “La sceneggiatura del film è costruita come un Bildungsroman, come un romanzo di formazione. Non ci conduce in un mondo di sogni o di evasione ma segue l'educazione sentimentale di Anna, le sue disillusioni riguardo alla realtà, alla bugia, al desiderio, alla maniera di un racconto iniziatico". Tra l'incipit chiuso nel dolore funereo e il finale aperto alla voglia di vivere ("Il me donne envie de vivre", dice Anna guardando il dipinto Le Suicidé) c'è l'incontro con Adrien, palese doppio di Frantz, c'è l'azione consolatoria della menzogna da lui avallata e, soprattutto, c'è la diversa piega che l'elaborazione del lutto prende per i due protagonisti. Momentaneamente ravvivato dalle bugie di Adrien, il romanticismo di Anna viene soffocato dalla scoperta della verità (le colorite passeggiate nella natura, ispirate alla pittura romantica di Caspar David Friedrich, perdono all'improvviso ogni umore cromatico). E se Adrien si rifugia vigliaccamente nell'abbraccio letale della famiglia, Anna non si lascia abbattere dalle disillusioni incassate a ripetizione, trovando al contrario, nell'acquiescenza del giovane francese, uno stimolo a cercare la propria indipendenza al di fuori della confortevole e mortale cornice domestica. Detto altrimenti, Adrien sopravvive fisicamente alla guerra in trincea e muore sentimentalmente tra le quattro mura della sua lussuosa dimora (il matrimonio programmato dalla madre con Fanny/Alice de Lencquesaing); mentre Anna, tentato il suicidio nelle fredde acque di un lago sassone per la disperazione, rinasce a nuova vita proprio dopo aver assaporato fino in fondo il veleno delle costrizioni familiari e averne osservato gli irreversibili effetti su Adrien (l'ultimo dialogo con la di lui perfida madre/Cyrielle Clair).


IV - Metamorfosi e suicidio: cambiare o morire

 

Tutto ciò ci riconduce, a posteriori, al principio della metamorfosi. Mi pare difatti che Frantz, analogamente e antiteticamente a Il tempo che resta, porti alle estreme conseguenze il discorso della trasformazione come questione di vita o di morte. Se il film del 2005 ci mostrava che persino la morte imminente poteva rappresentare un'occasione di apertura al cambiamento (il titolo del film fa pensare non solo al tempo che resta da vivere nella vita di un uomo, ma anche al tempo che rimane davvero della sua vita), Frantz ci mostra che l'ombra della morte può cadere sul soggetto in vita, perfettamente sano e con molti anni davanti a lui. In altri termini, se Il tempo che resta mostrava l'apertura alla vita perfino nella morte annunciata, Frantz mostra inversamente la chiusura mortale nella vita agiata. Con Frantz, insomma, ci troviamo di fronte alla formulazione definitiva delle conseguenze derivanti dall'incapacità di trasformarsi, dalla riluttanza nell'abbracciare il percorso della metamorfosi: rinunciare alla trasformazione equivale a una condanna a morte, al suicidio o alla morte in vita (che, in fondo, è esattamente la stessa cosa). E sono proprio i due tentati suicidi di Frantz a suggerire cinematograficamente questa equivalenza: nel momento in cui le possibilità di cambiamento appaiono sbarrate (Anna ha scoperto la menzogna di Adrien; Adrien è tornato in Francia con la coda tra le gambe), entrambi i personaggi provano a farla finita. Ma se Anna viene salvata dall'inopinato soccorso di un passante e, nonostante l'amarezza del disincanto, ritrova lentamente il desiderio di vivere (i genitori di Frantz e il confessore in questo senso favoriscono il suo recupero), Adrien, benché scampato al tentato suicidio, muore virtualmente rinunciando a spezzare la lapidaria linea familiare (quello di Adrien è fin troppo emblematicamente un destino di morte, le sue iniziali incise sulla tomba dello zio colonnello sanciscono per metonimia che il suo slancio vitale è ormai morto e sepolto). Non è pertanto fortuito che sia il solo tentato suicidio di Anna a essere rappresentato integralmente, mentre quello di Adrien è ricostruito per via indiziaria attraverso consultazioni di medici, registri clinici e, infine, testimonianze dello stesso giovane. È proprio questa mancata rappresentazione, che ovviamente non risponde a esigenze di sintesi (una breve scena dell'atto avrebbe occupato molto meno tempo della lunga e fuorviante indagine di Anna), a segnalarne tutto il peso specifico: affidando alla ragazza tedesca il ruolo attivo e ostinato di detective, il film allude al fatto che Adrien sia ormai un residuo passivo, un morto vivente sepolto in una tomba non meno marmorea di quella in cui è tumulato lo zio, il castello di famiglia. Nella ricerca dello scomparso Adrien (non suona più nell'orchestra, non è più ricoverato nella clinica psichiatrica, non è più a Parigi), Anna non ha fatto che passare da una tomba all'altra, da un sepolcro all'altro. E se lei continua a muoversi e cambiare, Adrien, ormai condannato a deperire comodamente, ha letteralmente smesso di farlo: "È troppo tardi", gli dice piangendo e dandogli un bacio in extremis mentre il suo treno per Parigi è sul punto di partire.

Azione castrante della madre di Adrien e morte in vita di quest'ultimo, funzione emancipatoria dei genitori di Frantz e del confessore e, infine, movimento/mutamento liberatorio di Anna: il quadro d'insieme sembrerebbe completo. Ma di fatto manca un dettaglio fondamentale: perché il film s'intitola Frantz anziché "Anna", "Anna e Adrien" e via ipotizzando? Quale posizione occupa il giovane tedesco ucciso ancor prima dell'inizio del film? In primo luogo, il suo ruolo di assente onnipresente non è troppo dissimile da quello rivestito dalle figure maschili nella celebre commedia Donne (The Women, 1939) di George Cukor: pur essendo rigorosamente esclusi dalla scena tutta al femminile, gli uomini sono i protagonisti assoluti dei dialoghi e delle dinamiche rappresentate. In virtù della sua assenza fisica, insomma, Frantz acquisisce una presenza drammaturgica così ingombrante da farsi chiodo fisso, ossessione inestirpabile: la replica di Anna alla madre di Adrien al termine del dialogo di congedo - "Non sono io che tormento suo figlio, signora, è Frantz" - esplicita definitivamente l'onnipresenza di questo fantasma aleggiante su tutto il film. In secondo luogo, di gran lunga più decisivo del primo, Frantz riassume esemplarmente in sé i tratti dell'auctor in fabula, non soltanto rivestendo il ruolo di doppio fantomatico di Adrien (col violino a fare da sonante oggetto mediatore tra i due), ma, soprattutto, assumendo a pieno titolo la funzione registica. Detto in termini più brutali, Frantz rappresenta lo stesso Ozon all'interno del film. Non è solo l'ovvia concatenazione lessicale "Frantz>Französisch>Français>François" a suggerire questa assimilazione, ma, meno banalmente, il suo agire nell'ombra e il suo palesarsi nel riflesso di Adrien. Che cosa fa Frantz oltre a morire in trincea e ossessionare i personaggi con la sua assenza? Scrive una lettera che funziona come una sceneggiatura, elegge Adrien a suo sostituto in una sorta di casting suicida e, dettaglio letteralmente determinante, vigila sornione sull'intera vicenda. È lui che, in albergo, occhieggia dall'altra parte dello specchio stabilendo una complice intesa con Adrien, complicità che suona distintamente come un'investitura ufficiale. È il suo sguardo a oggettivarsi virtualmente nei punti macchina: durante il primo pranzo in casa Hoffmeister, la camera inquadra la scena dalla prospettiva che nel film di Lubitsch era occupata dalla sedia vuota del giovane caduto, il "posto del morto". Sceneggiatore fantasma, occulto artefice del casting e benevolo promotore dell'incontro tra Anna e Adrien, Frantz è in definitiva l'autentico demiurgo che muove i fili dietro le quinte e che, in un estremo gesto di annichilimento a vantaggio della sua protegée, si suicida figuratamente e figurativamente per ridarle di nuovo “envie de vivre”. La metamorfosi si è compiuta, il bianco e nero funereo si è finalmente convertito in colore schioccante: Frantz/Adrien/François può definitivamente eclissarsi e fissarsi in pura immagine, ostacolo ormai estraneo alla gioiosa vitalità di Anna.

V - Postilla autoreferenziale: coazione a non ripetere

 

Al termine di questa smisurata celebrazione della metamorfosi, non posso fare a meno di interrogarmi brevemente sul limite più insidioso dell'intero discorso. Se è vero che il cinema di Ozon è rigorosamente anticonservativo (molto più che anticonvenzionale), è altrettanto vero che questo rigore ha qualcosa di programmatico e vagamente impositivo. La celebrazione del movimento trasformativo come fatto irrinunciabile non rischia forse d'irrigidirsi in norma tanto inderogabile e costrittiva quanto il protocollo notarile dal quale ci si vorrebbe smarcare? È questa ipoteca normativa ad apparirmi sempre più chiaramente come il limite interno (e nascosto) del suo cinema: in forma di domanda retorica, qual è la differenza tra coazione a ripetere e coazione a non ripetere?

Pubblicata su www.spietati.it.

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