“Profondo sud della Spagna, 1980. In un piccolo villaggio in cui il
tempo sembra essersi fermato – nei pressi di un labirinto di paludi e
risaie – si è installato un serial killer responsabile della scomparsa
di molte adolescenti delle quali nessuno sembra interessarsi. Ma quando
due giovani sorelle spariscono durante le festività annuali, la madre
spinge per un’indagine e due detective della omicidi arrivano da Madrid
per cercare di risolvere il mistero. Sia Juan che Pedro hanno una vasta
esperienza nei casi di omicidio, ma differiscono nei metodi e nello
stile. Dovranno ben presto fronteggiare ostacoli per i quali non sono
preparati. Uno sciopero dei lavoratori locali mette a rischio il
raccolto del riso e distrae i detective, messi sotto pressione affinché
il caso si risolva rapidamente. Con loro grande sorpresa, le indagini in
corso portano alla luce un’altra fonte di ricchezza per il villaggio:
il traffico di droga. Gli investigatori vengono intrappolati da una rete
di intrighi alimentata dall’apatia e dalla natura introversa della
gente del posto. Niente è ciò che sembra in questa isolata e opaca
regione e l’indagine incontra difficoltà inaspettate. Entrambi gli
uomini capiscono di dover mettere da parte le rispettive divergenze
professionali se vogliono fermare la persona responsabile della
scomparsa delle sorelle prima che altre ragazze facciano la stessa
fine.” (dal pressbook).
Alberto Rodríguez: “A conti fatti, La isla mínima
è un film che rivela un tocco classico, per quanto riguarda le indagini
e lo sviluppo dei personaggi, ma con uno sfondo che è torbido, fangoso,
denso e impenetrabile... come le vere paludi nelle quali è ambientato. La isla mínima
è la pellicola con cui mi sono avvicinato di più al fare cinema di
genere, ma allo stesso tempo possiede una sua identità che lo rende
differente, speciale”. Leggendo dichiarazioni simili, la tentazione di
collocare La isla minima nel macroscopico scaffale dei
prodotti-costruiti-a-tavolino è particolarmente forte, eppure il sesto
lungometraggio cinematografico del quarantaquattrenne cineasta
sivigliano non si lascia archiviare così pacificamente e
sbrigativamente. Nonostante la tronfia e convenzionale affermazione
testé riportata, La isla minima possiede alcuni tratti
che, pur non riscattandolo interamente dalla confezione derivativa, lo
rendono un film dotato di una sua singolarità. Se le risonanze con la
prima stagione di True Detective
risultano francamente assordanti, l’ambientazione andalusa, negli
acquitrini intorno al piccolo centro abitato di Villafranco del
Guadalquivir, sprigiona un’atmosfera palustre e stagnante che ben si
attaglia all'andatura tortuosa e vischiosa delle indagini di Pedro (Raúl
Arévalo) e Juan (Javier Gutiérrez), due detective inviati in missione
nella sperduta regione per motivi antiteticamente punitivi (eccessivo
dissenso nei confronti della gerarchia militare per il primo, eccessivo
coinvolgimento col regime franchista per il secondo).
Siamo
nel settembre del 1980 e i postumi dell’era franchista si fanno ancora
sentire, non soltanto per l’influenza più che palpabile della gerarchia
militare (Pedro è stato allontanato da Madrid, nonché da una promettente
carriera, a causa di una lettera inviata a un giornale in cui provocava
un generale), ma soprattutto per il clima di omertà e sudditanza nei
confronti di un sistema signorile che regna incontrastato nel territorio
del Basso Guadalquivir (l’intera regione è dominata dal signore del
luogo, che esercita un potere pressoché assoluto sui lavoratori e sulla
popolazione). In questa sacca di tradizionalismo e superstizione,
contraddistinta dal lavoro stagionale per il raccolto e dal contrabbando
di sigarette e stupefacenti, i due detective s’imbattono sì nelle
immancabili resistenze dei locali (reticenza, negligenza e connivenza),
ma trovano anche l’aiuto inaspettato di alcuni individui ai margini del
consorzio sociale (l’indisciplinato bracconiere Jesús e il giornalista
antimilitarista, memore dei metodi usati dalla Brigata Politico-Sociale
durante il regime). E così, in rigorosa focalizzazione interna (lo
spettatore conosce solo i particolari della vicenda scoperti
gradualmente dai due detective), il racconto poliziesco si snoda
progressivamente in virtù di una gestione misurata dei tempi narrativi e
di una controllata distribuzione delle informazioni strettamente
necessarie allo sviluppo dell’intrigo.
L'improvvisa
e simultanea apparizione delle due piste che condurranno alla soluzione
del caso (una per ciascun detective, naturalmente) accresce la
sensazione di trovarsi di fronte a un ingranaggio tanto padroneggiato
quanto programmato, confermando l’impressione di uno schema compositivo
che sfrutta il genere per dimostrare l’abilità cinematografica di
Rodríguez e collaboratori (non sorprende affatto il banco regio di
riconoscimenti - ben dieci - ai Premi Goya 2015).
Ne è ulteriore riprova l’uso smaccatamente scolastico delle soggettive
lungo l’intero film: anziché immergerci nel morboso mistero
dell’universo esplorato (cosa che, giusto per citare un paio di titoli
sottostimati, riusciva assai bene In the Cut e Le paludi della morte),
servono soltanto a far procedere l’indagine secondo una logica
rigidamente funzionale e meccanicistica (lo spettatore ne deve sapere
quanto i detective, quindi scoprirà tutti gli indizi attraverso i loro
occhi). Inevitabile dunque che, in questa supremazia del cognitivo sul
visivo, i rari squarci allucinatori suonino come stridenti e artificiosi
inserti introspettivi: nessun timore, non si rischia di smarrire la
strada maestra del racconto d’inchiesta, il timone segue la rotta
prestabilita. Analogamente, le sparute astrazioni grafiche del
territorio andaluso (ottenute per lo più con inquadrature aeree a
piombo) non possiedono la forza sufficiente a spalancare un’altra
dimensione espressiva nel film (si pensa di nuovo e per contrasto alla
prima stagione di True Detective,
in cui i campi lunghissimi trasfiguravano le paludi della Louisiana in
acquitrino mentale), ma si fermano allo stadio della belluria, del
calligrafismo ornamentale.
L’aspetto
più interessante della pellicola risiede invece nel fatto che il grande
marionettista, colui che tiene i fili e manipola i personaggi, non solo
si riduce a una macchia illeggibile su una fotografia a causa del flash
che ne occulta il riflesso su uno specchio, ma è anche lo stesso autore
degli scatti: è l’artefice delle immagini attorno alle quali si snodano
le indagini e che, alla fine della vicenda, resterà impunito. Se la sua
identità si costruisce gradualmente per via indiziaria, la sua
responsabilità sfugge emblematicamente alla sanzione della giustizia. Di
più: è proprio producendo queste immagini che egli ricatta le vittime e
manovra i personaggi conniventi. Detto più chiaramente, la produzione
di immagini coincide col ricatto, la manipolazione e l’impunità: siamo
insomma in presenza di un demiurgo tirannico che sfrutta le immagini per
signoreggiare impunemente e dominare arbitrariamente un microcosmo
saturo di credenze e superstizioni (difficile concepire una figura più
sinistra e autoritaria di auctor in fabula). È questo, secondo chi scrive, il risvolto più fruttuosamente inquietante e perversamente incisivo di La isla minima: l’immagine del potere è un'immagine accecante, colpevolmente innocente.
Pubblicata su www.spietati.it.
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