“La storia dell’edificio simbolo di Milano, a partire dalla notte in cui
Gian Galeazzo Visconti sognò il diavolo che gli intimava di costruire
un luogo maestoso. La sua risposta fu immediata: concedere l’uso delle
cave di Candoglia a una Veneranda Fabbrica per costruire una cattedrale
degna dei sogni di grandezza della casata. Dalla fine del ’300 ai primi
anni del ’900, quando l’ultima porta di bronzo venne posizionata, dalle
cave sono partiti in barca più di mezzo milione di blocchi di marmo. I
due cineasti ci conducono attraverso i secoli in quello che appare un
lavoro in continuo divenire. Primo atto della quadrilogia Spira
Mirabilis sul concetto di immortalità attraverso gli elementi della
natura, L’infinita fabbrica del Duomo rappresenta la Terra. I testi adattati da Milano in mano di Guido Lopez e Silvestro Severgnini e Storia della Veneranda fabbrica
di Carlo Ferrari da Passano rappresentano un contrappunto al racconto
per immagini e alla riflessione su finitezza e immortalità” (dalla
scheda del FilmMakerFest 2015).
Le inquadrature iniziali de L’infinita Fabbrica del Duomo, primo pannello di una tetralogia sugli elementi naturali intitolata Spira Mirabilis,
sono dedicate all’olmo più antico d’Italia, piantato nel 1386 ai piedi
della montagna dalla quale, nello stesso anno, si estraeva il primo
blocco di marmo per la costruzione della cattedrale. Scrutato dal nodoso
interno della sua cavità e osservato nelle sue poderose ramificazioni
sorrette da stampelle, l’olmo di Mergozzo si collega alla vicenda del
Duomo non soltanto per concomitanza cronologica e geografica, ma
soprattutto per tradizione leggendaria, poiché, come recita la
didascalia che chiude il prologo: “La leggenda dice che finché l’olmo
vivrà, anche la cattedrale rimarrà in piedi”. È precisamente questa la
traiettoria dell’ultimo lavoro di Martina Parenti e Massimo D’Anolfi:
ricavare dagli elementi (in questo caso la terra) un dialogo organico
che, pur non smarrendo il punto focale di osservazione, restituisca la
loro incessante compenetrazione, la loro continua sovrapposizione. Ed è
così che procede L’infinita Fabbrica del Duomo: con un
movimento ascensionale che dalle viscere delle montagne di Candoglia
conduce alla sommità della cattedrale e al cielo che si staglia dietro
le statue svettanti sulle guglie. Dalla terra all’aria, dall’elemento
terrestre a quello celeste passando per l’infinito lavorio degli uomini,
soprattutto quelli umili, anonimi e dimenticati.
Autentica
chiave di volta del titolo, l’aggettivo “infinita” esprime insieme
grandezza e miseria: grandezza di un’opera che, per ambizione e sfarzo,
tende alla “gloria di colui che tutto move” e miseria di un lavoro che,
per glorificare il divino, implica privazioni e violenza. Privazioni di
chi, lavorando nell’ombra e sacrificando le proprie risorse alla
Veneranda Fabbrica, ha contribuito all’edificazione e alla manutenzione
della maestosa cattedrale; violenza praticata da secoli sugli elementi
per creare un gigantesco simbolo del dominio sul creato: “Nel caso del
Duomo abbiamo trovato interessante l’idea che sia stato realizzato con
le più alte intenzioni, ma a partire comunque da un atto di violenza nei
confronti della natura. L’estrazione del marmo, della materia prima
dalla montagna è un gesto violento: il taglio di queste vene marmoree è
il primo segno di una perdita di innocenza. L’opera dell’uomo ha sempre e
comunque a che fare con qualcosa di brutale” (Massimo D’Anolfi).
Una violenza, dunque, che, pur animata da intenti solennemente
celebrativi e apotropaici (la terza didascalia recita: “Tutto cominciò
la notte in cui Gian Galeazzo Visconti, signore di Milano, sognò il
diavolo in persona che gli intimava di costruire un luogo maestoso e
ricco di immagini sataniche e demoniache. Pena le fiamme dell’inferno”),
è intrinsecamente e inevitabilmente connessa all’azione umana, al suo
intervento diretto sugli elementi naturali. Edificare un tempio alla
gloria celeste significa contemporaneamente sventrare montagne, alterare
la fisionomia del territorio, operare un intervento sul corpo della
natura (alcune immagini in negativo e alcune immagini d’archivio delle
cave di Candoglia sono piazzate davanti ai nostri occhi e sfogliate
clinicamente come radiografie).
Eppure
a imporsi, agli occhi di chi scrive, è soprattutto l’indocilità della
materia, la sua resistenza ai tagli inferti dall’uomo. Una riluttanza
che s’indovina, non troppo diversamente da ciò che accadeva con
l’umanità residuale di Materia oscura o Il castello,
nei detriti inutilizzabili, nelle fragorose cascate di pietrisco, nella
consunzione che sfigura i volti e abrade le forme delle statue, in una
lucertola che fa capolino dalla cavità di un frammento lapideo dismesso,
nel candido pulviscolo che imbianca le officine dei cantieri. È qui che
la materia prende la sua rivincita, ribellandosi alla proterva
brutalità dell’opera umana, negando il segno netto e incisivo impresso
dal lavoro dell’uomo. Sotto l’apparente celebrazione della solerte e
inesausta laboriosità umana (la Fabbrica del Duomo è Veneranda per
definizione: degna di rispetto e ammirazione) si disegna quindi un’altra
storia, quella del perenne antagonismo tra uomo e ambiente, tra azione
umana e materia prima: è questo l’autentico fulcro del cinema di Martina
Parenti e Massimo D’Anolfi (ancora D’Anolfi: “In Materia oscura siamo davanti a una brutalità stupida e ottusa, mentre in L’infinita fabbrica
è quasi connaturata all’azione umana nel momento in cui si rapporta con
la natura; c’è sempre una sorta di sentimento di appropriazione, anche
quando si vogliono fare cose buone”). Insomma, più vedo i loro film e
più mi convinco che siano l’antagonismo e la residualità a costituire il
nucleo del loro fare cinema: la tenace umanità interstiziale de Il castello o di Materia oscura resiste alla violenza del potere così come la marmorea materialità de L’infinita Fabbrica del Duomo resiste alla superbia della significazione umana (significare nel senso di “signum facere”: fabbricare appositamente un segno).
Così,
alla storia ufficiale del Duomo, raffigurato apertamente come un
gigantesco organismo che possiede i propri ritmi, i propri rumori e le
proprie funzioni quasi fisiologiche (si presti attenzione allo
sgocciolamento della cera, raccolta quotidianamente alla stregua di
deiezioni animali), si contrappone la storia segreta di questa
indocilità della materia segnata dallo scarto, dal deperimento, dalla
caducità (le sculture e i frammenti lapidei eccessivamente corrosi
vengono accantonati nel cimitero delle statue). Scandito da ventisette
didascalie ricavate dai documenti custoditi nell’archivio della Fabbrica
e cadenzato dal metronomo di un montaggio che genera una musicalità
visiva pullulante di ritmi interni, L’infinita Fabbrica del Duomo
si sviluppa in quattro movimenti ascendenti intrecciati tra loro (le
cave, l’archivio, il cantiere e la cattedrale), lasciando che il motivo
cimiteriale s’insinui lieve tra una sezione e l’altra come un Leitmotiv
(o meglio una Totentanz) sommessamente dissacrante - una sorta di
disadorna vanitas che contrasta la monumentale grandiosità
dell’opera, riportando in terra l’anelito celeste. Ricondurre la
sfrenata ambizione umana alla concretezza minerale della natura, la
maestosità della cattedrale alla dimensione originaria della conchiglia,
come chiarisce definitivamente la penultima didascalia: “Sicché,
scolpito in questo grandioso monumento, noi vediamo il racconto di tante
generazioni, ma anche il segno profondo della natura che impiega 10.000
anni per trasformare un deposito di conchiglie in una vena di marmo
rosa. Il Duomo è cresciuto da una conchiglia, le conchiglie sono
cattedrali”. Il segreto del cinema di Martina Parenti e Massimo
D’Anolfi? Immagini che racchiudono il mondo senza rinchiuderlo
nell’angusta cornice di un quadro.
Già pubblicata su www.spietati.it.
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