Marsiglia, 1975. Pierre Michel, giovane magistrato appena arrivato da
Metz con moglie e figli, viene incaricato di un’inchiesta sul crimine
organizzato. Appena insediatosi decide di attaccare la cosiddetta French
Connection, un’organizzazione mafiosa che esporta eroina in tutto il
mondo. Rifiutandosi di dare ascolto a chi lo invita alla cautela, Pierre
s’imbarca in una crociata personale contro il leggendario e intoccabile
padrino Gaetan Zampa, ma deve rendersi conto che se vuole ottenere dei
risultati deve cambiare tattica… (dal pressbook)
Non inganni il logo Gaumont anni ’80 che precede French Connection,
secondo lungometraggio del trentottenne cineasta marsigliese Cédric
Jimenez: si tratta di un ammiccamento nostalgico che non avrà alcuna
ripercussione sull’impianto estetico del film. O forse sì, ma nel senso
del vintage più deteriore, del cimelio esibito come ornamento tutto
esteriore: inutile orpello di un film che si gloria della ricostruzione
d’epoca, spacciando l’autenticità urbana per credibilità cinematografica
e gabellando la filologia criminale per esattezza drammaturgica. Il
guaio è che, dopo un decennio di crescita culminata nella serie
televisiva prodotta da Canal+ Braquo (2009), il polar francese molto probabilmente sta perdendo colpi: basti pensare a 96 Heures (2014) di Frédéric Schoendoerffer, Mea Culpa (2014) di Fred Cavayé o al pericolante Colt 45
(2014) di Fabrice Du Welz, giusto per citare titoli recenti e
ovviamente non distribuiti in Italia. Registi come Schoendoerffer o
Cavayé, già autori di polar rimarchevoli quali Scènes de crimes (2000) e Truands (2007) o Pour elle (2008) e À bout portant
(2010), segnano visibilmente il passo con pellicole artificiose,
compiaciute e virtuosistiche - per quanto di gran lunga più personali di
questo La French. Discorso simile, infine, per il gran visir del genere Olivier Marchal, che, chiusa la trilogia della solitudine con L'ultima missione (2008) e codiretta la serie Braquo con Schoendoerffer, ha realizzato il meno incisivo Les Lyonnais (2011).
Pomposo, carnascialesco e caricaturale, French Connection
conferma la fase calante del polar, gonfiando la carenza di originalità
con iniezioni di budget (più di 20 milioni di euro), cast a tre stelle
(Dujardin/Lellouche/Magimel) e magniloquenza da affresco storico (lo
scontro tra giustizia e criminalità nella Marsiglia di metà anni ’70).
Se il thriller cibernetico Aux yeux de tous (2012),
esordio al lungometraggio di Jimenez, cercava affannosamente una sua
formula cinematografica accatastando immagini da telecamere di
sorveglianza, webcam e soggettive di un hacker sedicenne, La French si accontenta di servire stracotto di Scorsese (sequenze musicali a episodi in stile Quei bravi ragazzi)
aromatizzato con spolverate di Friedkin (il traffico di eroina negli
Stati Uniti, le intercettazioni) e guarnizione manniana (il faccia a
faccia tra Dujardin e Lellouche in territorio neutro). La mancanza di
uno stile personale, compensata da grossolane rimasticature
americanizzanti, è manifesta. Tra smaccati espedienti di montaggio
(l’alternato ingannevole tra l’irruzione della polizia in casa di
Charles Peretti e le operazioni di raffinazione dell’eroina nel
laboratorio situato altrove), un’accattivante playlist di brani pop anni
’70 (C’est comme ça que je t’aime di Mike Brant, Comic Strip di Serge Gainsbourg, The Snake
di Al Wilson e via di seguito) e figure femminili impeccabilmente
convenzionali (devota e premurosa la moglie del bandito, esigente e
lamentosa quella del giudice), French Connection
sacrifica la specificità francese del polar sull’altare dello spettacolo
anodino e tonitruante. E la tanto sbandierata verosimiglianza
marsigliese si riduce a solare oleografia da cartolina mediterranea:
perché a Marsiglia piove solo piombo.
Pubblicata su Gli Spietati.
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