Un’indagine poliziesca stravagante, improbabile e burlesca condotta su strani crimini avvenuti nei pressi di un villaggio costiero del Boulonnais e su una banda di monelli guidata da P’tit Quinquin e dalla fidanzatina Ève (traduzione dal dossier de presse).
Breve
premessa non del tutto irrilevante: chi scrive ricorda troppo
chiaramente le risate di scherno, gli applausi sarcastici e gli ululati
fragorosi che accompagnarono la proiezione pubblica di Twentynine Palms
a Venezia 60 per non nutrire una divertita perplessità nei confronti
dell’entusiasmo suscitato dall’ultimo lavoro di Bruno Dumont.
Corroborato da triviali messaggi affissi sul cosiddetto “muro delle
stroncature” e ufficializzato da recensioni che definivano i
protagonisti del film "due deficienti", il linciaggio riservato nel 2003 a Twentynine Palms
fu letteralmente indimenticabile: i pochi spettatori che, alla fine di
una proiezione piuttosto turbolenta, ebbero la malaugurata idea di
applaudire il film vennero guardati con maliziosa supponenza e pietosa
commiserazione o, addirittura, apertamente apostrofati come stupidi.
Ebbene, nell’arco di dieci anni - e senza che una sola pellicola di
Dumont successiva a Twentynine Palms sia stata distribuita in Italia - siamo passati dal pubblico ludibrio alla consacrazione cinefila ufficiale.
Anziché filmare qualcos’altro, mi sono rivolto verso me stesso e, finalmente, mi sono fatto la parodia (“P'tit Quinquin”: rencontre avec Bruno Dumont - Olivier Père - ARTE).
Eppure
la perplessità non è del tutto giustificata, poiché, nonostante la
momentanea adozione di toni più scanzonati rispetto al passato (con la
maggiore fruibilità che ne deriva), P’tit Quinquin
potrebbe essere tranquillamente considerato il primo lungometraggio di
Bruno Dumont: il fatto che sia una miniserie conta soltanto per
l’ampiezza della scrittura, l’impronta estetica complessiva restando
palesemente inalterata (cinemascope, freddezza dell’impianto visivo, colori vivi e totale assenza di giallo nell’immagine). Detto altrimenti, P’tit Quinquin non si discosta troppo dalla prassi riepilogativa di Hors Satan:
se il film-summa del 2011 radunava gli elementi disseminati nei film
precedenti portandoli alle estreme conseguenze, la miniserie televisiva
girata per Arte trascrive su uno spartito più lungo e in una chiave
musicale alterata le note tipiche della composizione dumontiana. La
chiave di questo pentagramma espanso è precisamente quella della parodia
- o meglio dell’autoparodia grottesca. E dal momento che la parodia
riposa sul procedimento della caricatura, ovvero l’esasperazione dei
tratti caratteristici del modello, in P’tit Quinquin i
connotati del cinema di Dumont si danno a vedere con inaudita chiarezza.
Ecco perché si potrebbe considerare il suo primo lungometraggio: le
forme visive, le configurazioni narrative e le ossessioni fondanti del
suo cinema sono mostrate per la prima volta in modo ingigantito,
inconfondibile e perfettamente leggibile.
A proposito di La vie de Jésus: Penso che la
mancanza sia interessante, perché di fatto è una porta d’ingresso, una
faglia, permette di entrare. […] Occorre, nella rappresentazione,
trovare una faglia (Rencontre avec Bruno Dumont, “Mauvais genres”, 01/11/2014, France Culture).
Quinquin
costituisce di fatto il personaggio maschile primordiale del cinema di
Dumont: come non pensare a una versione infantile del Freddy di La vie de Jésus?
Entrambi capibanda razzisti e attaccabrighe ed entrambi affetti da
patologie (epilessia Freddy, ipoacusia Quinquin) che non intaccano
minimamente la loro supremazia nel gruppo; entrambi scorrazzanti per le
campagne del Nord-Pas-de-Calais su due ruote (Quinquin lascia cadere al
suolo la sua bicicletta come Freddy la sua mobylette) ed entrambi legati
sentimentalmente a figure femminili dai nomi primigeni (Quinquin-Ève,
Freddy-Marie). Il commissario della “Gendarmerie nationale” di P’tit Quinquin rappresenta inoltre una versione infantilizzata e ancora più improbabile del tenente di polizia di L’Humanité (si noti, di passata, che ambedue portano i nomi di due pittori fiamminghi: Rogier van der Weyden e Pharaon de Winter)
e, come Pharaon, ha un debole per le donne dei sospettati. Solo che,
essendo un personaggio infantilizzato, non possiede ancora una
sessualità completamente sviluppata e il suo desiderio non fa ancora
differenza tra motociclette, corpi femminili e corpi equini (basti
pensare alla voluttà con la quale, nell’ultimo episodio, accarezza il
cavallo “boulonnais” del padre di Quinquin).
È la magia del cinema: poter oscillare dal visibile all’invisibile
ed entrare nel cuore delle cose, nei misteri della nostra natura, nei
luoghi più oscuri della contraddizione. Ci si riesce, di fatto, ma per
equivalenze: non ci si arriva mai di fronte, impossibile. Ci si arriva
sempre per la metafora e per le corrispondenze, unicamente attraverso le
corrispondenze. In effetti il visibile corrisponde all’invisibile, è
per questo che siamo toccati dal paesaggio. […] I miei personaggi
passano il loro tempo a guardare o a mettersi sotto un bunker a
osservare il mare, ma questo paesaggio significa qualcos’altro: non
filmo la Manica, non è più la Manica” (Laure Adler s’entretient avec le cinéaste Bruno Dumont, “Hors-champs”, 26/11/2014, France Culture).
L’insistenza
sul carattere infantile del comandante Van der Weyden non è affatto
fortuita: l’intera miniserie riposa difatti sullo sguardo di Quinquin.
Anzi, volendo andare più lontano, si può sostenere non troppo
irragionevolmente che le vicende raccontate e rappresentate nei quattro
episodi non siano altro che la messa in scena dell’immaginazione del
piccolo Quinquin. Tornano in mente le dichiarazioni di Dumont a
proposito di
Flandres:
“Penso che tutto il film non sia altro che la rappresentazione del
fuoco del desiderio di Demester per Barbe e che il passaggio alla guerra
sia innescato dalla rivalità con l’altro: la guerra non che è la messa
in moto della rivalità nel desiderio. È per questo motivo che la guerra
non si svolge da nessuna parte, perché è la volontà di distruggere il
rivale. Demester desidera perdutamente Barbe, ma Barbe non è una donna
per lui. […] La violenza, lo scatenamento omicida è la volontà assoluta
di sopprimere il suo rivale e ottenere Barbe. […] È un film totalmente
astratto, interiore” (Rencontre avec Bruno Dumont, “Mauvais genres”, 01/11/2014, France Culture). Come Flandres, dunque, P’tit Quinquin
scaturisce dall’interiorità di un soggetto interno al film stesso, un
personaggio che acquisisce lo statuto di protagonista non tanto per le
azioni che compie, quanto in virtù dello sguardo che getta sulla realtà,
riconfigurandola a suo uso e consumo. In un'intervista rilasciata il 2 gennaio a Philippe Vandel durante la trasmissione “Tout et son contraire”
di France Info, alla domanda del conduttore radiofonico, sorpreso dal
titolo dedicato a un personaggio tutto sommato marginale, Dumont
risponde in questo modo: “Perché è l’eroe, è il ragazzino che è l’eroe e
guarda svolgersi questa storia coi suoi grandi occhi stupiti. Dunque si
tratta al tempo stesso della mescolanza di bambini e adulti, tutto ciò
si mescola”. Incalzato dalla reazione meravigliata dell’intervistatore
(“Per me è un personaggio ma non è l’eroe, non fa niente!”, esclama
Vandel), il cineasta di Bailleul replica con sorridente serenità: “Ecco,
è per questo che è l’eroe, perché non fa niente […] Guarda, dice sempre
che ama la sua fidanzatina ed è tutto”.
Il processo cinematografico è un processo mistico di apparizione, è questa la messa in scena. (Laure Adler s’entretient avec le cinéaste Bruno Dumont, “Hors-champs”, 26/11/2014, France Culture).
I primi minuti di P’tit Quinquin
sono ovviamente determinanti per individuare il procedimento di
astrazione. Stante la caricaturale esemplarità della miniserie,
l’inquadratura inaugurale ci mostra in tutta la sua grandezza il primum movens
del cinema di Dumont: un piano di fondazione su un agglomerato rurale
inquadrato in campo lunghissimo. In principio è lo spazio. Ma ogni film
di Dumont nasce dall’incontro generativo tra uno spazio e un personaggio
che lo abita e vivifica: gli incipit di L’Humanité, Twentynine Palms, Flandres e Hadewijch
non lo testimoniano forse a sufficienza? La sequenza introduttiva ci
mostra dunque il piccolo Quinquin che guarda, prima in semisoggettiva e
poi in soggettiva, Ève e la sorella Aurélie oltre la cancellata che
separa la loro fattoria dalla strada. Il colloquio di sguardi tra Ève e
Quinquin ci dice già tutta la loro complicità e la corrente affettiva
che li lega, ma per il momento siamo ancora in un reale non
trasfigurato. La trasfigurazione si produrrà poco dopo, quando, chiamato
dalla madre, Quinquin entra in casa, esce con la scodella di
caffellatte - bevanda che nella simbolica dumontiana concretizza la
mescolanza dei contrari - e, attraversata la stalla, appoggia la schiena
alla parete per fare colazione in pieno sole, guardando dritto davanti a
sé. La preparazione della soggettiva immediatamente successiva è
inequivocabile e richiama con forza una situazione tipica nei film di
Dumont (basti menzionare le sequenze iniziali di Flandres):
inquadrato in mezza figura e con gli occhi socchiusi per via della luce
particolarmente pungente del Nord, Quinquin fissa per alcuni secondi
qualcosa davanti a sé. Un mucchio di letame in primo piano e, sullo
sfondo, prati da pascolo e campi coltivati: è questo lo spazio
soggettivo - uno spazio fertilmente vuoto - che il piccolo Quinquin
riempirà con la propria immaginazione. Non più e non solo un paesaggio
reale, ma un paesaggio eminentemente mentale: una faglia, una porta
d’ingresso all’interiorità del personaggio.
Penso che il paesaggio filmato non sia più il paesaggio, è un paesaggio mentale (Laure Adler s’entretient avec le cinéaste Bruno Dumont, “Hors-champs”, 26/11/2014, France Culture).
A
partire da questo istante, la rappresentazione sarà profondamente
impregnata e permeata dell’interiorità di Quinquin, saturazione che
peraltro rende perfettamente conto della tonalità infantile, della
stravaganza dei crimini e della disarticolazione burlesca del racconto.
Quinquin, insomma, è davvero il protagonista poiché si limita a
osservare: la sua attività principale risiede effettivamente nel cucire
insieme le varie sezioni narrative generate dalla sua attività visiva e
immaginativa (non sfugga la puntuale apparizione del bambino all’inizio,
nel bel mezzo o alla fine di ogni sequenza apparentemente autonoma o
svincolata dal suo sguardo). Quinquin è fisicamente/finzionalmente
onnipresente e questo lo rende a tutti gli effetti un auctor in fabula,
perché di favola si tratta: l’intera vicenda poliziesca, giusto per
fare un esempio macroscopico, prende avvio con l’apparizione magica di
un elicottero sulla spiaggia, sorta di gigantesco insetto che invita i
bambini a seguirlo. Ma possiamo andare ancora più lontano: l’indagine
del commissario Van der Weyden e del suo strampalato aiutante Carpentier
nasce da un desiderio preciso di Quinquin e da una situazione propizia
all’ideazione narrativa. La situazione propizia è quella dell’inizio
delle vacanze scolastiche (il padre di Quinquin, rimproverando al figlio
il lancio nel vuoto della bicicletta, sbotta: “È il tuo primo giorno di
vacanza ed è sempre così! […] Si direbbe che hai messo tutto
sottosopra!”). Ozio, noia, tempo da perdere: “A cosa servono le vacanze
se non si può non far niente?”, replica seccato Quinquin al padre che
gli fa puntigliosamente notare che le vacanze non sono una
giustificazione per bighellonare. E il desiderio, molto semplicemente, è
quello di intrattenere e conquistare totalmente la fidanzatina Ève:
Quinquin costruisce l’inchiesta poliziesca per lei, per avvincerla
mentalmente e fisicamente (nell’ultima inquadratura della serie Quinquin
la abbraccia con un’espressione visibilmente soddisfatta), provvedendo
nel frattempo a sbarazzarsi della rivale Aurélie, la sorella di Ève che
nella prima sequenza la teneva lontana da lui e che, agli occhi di
Quinquin, rappresenta una minaccia, un fattore di disturbo, separazione e
potenziale rottura del suo microcosmo ideale (un microcosmo a tenuta
stagna in cui non c’è posto per stranieri, eccentriche ambizioni
televisive o moleste invasioni mediatiche). Non diversamente dai film
precedenti di Dumont, in definitiva, l’origine della tensione è l’amore
ed è una rivalità a scatenare il conflitto che prende corpo nel racconto
(ancora una volta Flandres
s’impone come titolo di riferimento). Il discorso potrebbe continuare a
lungo prendendo in considerazione la matrice fantastica del cinema di
Dumont, una matrice che rifiuta l’intelligenza raziocinante in favore
della “simbolica del caffellatte”, o insistendo sul carattere spurio
dell’invenzione finzionale di Quinquin (la delucidazione dei
procedimenti generativi della narrazione non si lascia ridurre alla
retorica convenzionale del racconto: i personaggi di P’tit Quinquin sono al tempo stesso creature infantili e
individui adulti che blaterano di Zola, Rubens e dell’immanenza del
male). Ma questa recensione non ha la pretesa di illuminare
complessivamente il cinema del regista di Bailleul, nutre soltanto la
speranza di aver gettato una luce obliqua e singolare su una miniserie
televisiva che, nonostante le apparenze, dialoga in profondità con tutto
ciò che l’ha preceduta, derisione inclusa.
Pubblicata su www.spietati.it.
Questa mini-serie ha rappresentato il mio primo approccio con Dumont. Non posso quindi fare un paragone con le altre sue opere come hai fatto (ottimamente) tu.
RispondiEliminaPosso solo dire che presa così, singolarmente, l'ho adorata.
Grazie, Marco. Ti suggerisco di recuperare i suoi film precedenti: li troverai molto diversi per registro drammatico, ma apprezzerai senz'altro i numerosi elementi di continuità (soprattutto con L'Humanité). Grazie ancora e buone visioni.
RispondiElimina