Devereaux è un uomo molto potente. Un uomo che gestisce miliardi di
dollari al giorno e che controlla il destino economico delle nazioni. Ma
Deveraux è anche un uomo posseduto da un irrefrenabile e insaziabile
appetito sessuale. Un uomo che sogna di salvare il mondo ma che non è in
grado di salvare se stesso, un uomo terrorizzato, un uomo perso.
Deveraux è un uomo al comando del mondo, che vedrete precipitare nel
vuoto... (dal sito ufficiale)
Questo film è ispirato a un caso giudiziario le cui fasi pubbliche sono state filmate, trasmesse e commentate dai media del mondo intero.
Ma i personaggi del film e le sequenze che li rappresentano nella loro vita privata rientrano nel dominio della finzione, dal momento che nessuno può pretendere di ricostituire la complessità e la verità della vita degli attori e testimoni di questo caso, sulla quale ciascuno conserva il proprio sguardo.
Nel caso giudiziario che ha ispirato questo film, le indagini sono state abbandonate dopo che il procuratore ha concluso che la mancanza di credibilità della querelante rendeva impossibile di sapere, al di là del ragionevole dubbio e quale che sia la verità, ciò che è avvenuto durante l'incontro nella suite dell'hotel.
Questo film è ispirato a un caso giudiziario le cui fasi pubbliche sono state filmate, trasmesse e commentate dai media del mondo intero.
Ma i personaggi del film e le sequenze che li rappresentano nella loro vita privata rientrano nel dominio della finzione, dal momento che nessuno può pretendere di ricostituire la complessità e la verità della vita degli attori e testimoni di questo caso, sulla quale ciascuno conserva il proprio sguardo.
Nel caso giudiziario che ha ispirato questo film, le indagini sono state abbandonate dopo che il procuratore ha concluso che la mancanza di credibilità della querelante rendeva impossibile di sapere, al di là del ragionevole dubbio e quale che sia la verità, ciò che è avvenuto durante l'incontro nella suite dell'hotel.
Presentato
al Marché del 67º Festival di cannes e distribuito in streaming su
varie piattaforme internazionali (si parla di e-cinema, vale a dire una
modalità di distribuzione che scavalca l’uscita in sala in favore del
web), Welcome to New York ha suscitato le attese e
immancabili diatribe/polemiche/querele connesse agli ovvi riferimenti
all’affaire Dominique Strauss-Kahn (per informazioni rivolgersi alla
rete). Indubbiamente l’ultimo film di Abel Ferrara non può non evocare
le gesta dell’ex direttore generale del Fondo Monetario Internazionale
per motivi fin troppo palesi (a partire dalle didascalie iniziali),
eppure fermarsi alle somiglianze col caso giudiziario senza scorgere
quanto le affinità tra DSK e Devereaux (Gérard Depardieu) siano soltanto
un pretesto per realizzare una congiunzione tra singolare e universale
(sfruttare la notorietà del personaggio per mettere in luce aspetti
potenzialmente presenti in ogni essere umano) e, soprattutto, senza
rilevare quanto la vicenda messa in scena si adatti alla poetica del
cineasta newyorkese sarebbe imperdonabilmente miope. Da qualsiasi
angolazione lo si voglia considerare (maniaco, depravato, irreferenabile
o semplicemente folle), Devereaux appartiene alla galleria di
personaggi dipendenti che attraversano la filmografia di Ferrara (basti
pensare al Lieutenant di Il cattivo tenente o alla Kathleen di The Addiction),
scongiurando risolutamente l’effetto cronaca (non sfugga la
cancellazione pressoché totale dell’attività finanziaria del
protagonista dall’intera durata della pellicola).
Abel e io abbiamo deciso che questo film interessa tutti i
francesi. Non solo quelli che vivono vicino a un cinema. Non solo quelli
che sono disposti ad aspettare parecchi mesi, mentre in altri paesi
ognuno può avervi accesso. Vogliamo questo film disponibile per tutti e a
casa, sul tuo televisore o computer. E soprattutto… contemporaneamente
alla sua proiezione a Cannes. Non è mai stato fatto prima e questo è il
motivo per cui ci piace! (Gérard Depardieu)
Considerare
la satiriasi di Devereaux - se così è dato chiamarla - come una
semplice allegoria del potere o come una perversione prodotta dal potere
stesso sulla libido del soggetto sarebbe tanto comodo quanto
fuorviante, ma è proprio da un’associazione simile che il film di
Ferrara prende nettamente le distanze (in questo senso ogni accusa di
diffamazione manca clamorosamente il bersaglio, ovvero il film stesso).
In Welcome to New York - e ignorare questo dato significa travisare completamente la pellicola - la dipendenza di Devereaux non agisce in combutta ma contro
il potere: è a causa dell’ossessione erotica che egli neutralizza il
mandato simbolico della moglie Simone (Jacqueline Bisset), vale a dire
la corsa alla carica presidenziale. Se è vero che il ruolo ufficiale di
Devereaux ne facilita enormemente la dipendenza (esattamente come il
ruolo di ufficiale di polizia favoriva le trasgressioni del Bad Lieutenant),
è altrettanto vero che la sua ossessione, perseguita con tenacia
suicidaria, aggredisce il potere stesso alle fondamenta, impedendo non
soltanto l’ipotesi dell’imminente candidatura presidenziale, ma
addirittura distruggendolo in quanto figura pubblica, in quanto
personaggio prestigioso e rispettabile. Abbiamo qui a che fare con la
rappresentazione di una dipendenza/ossessione (nel regolamento di conti
con Simone, Devereaux si pronuncia prima “sex addicted”, quindi
definisce “sickness” la propria erotomania) che va al di là dei principi
di realtà e piacere, un’esigenza incontrollabile che lo guida all’atto
senza curarsi delle conseguenze, una spinta irrefrenabile in cui egli si
identifica apertamente (“You know who I am, you know everything”,
dichiara candidamente alla moglie).
L’uomo come tale è una «natura malata», deragliata, fatta uscire dai binari dall’attrazione per una Cosa letale (Slavoj Žižek, L’oggetto sublime dell’ideologia).
Situato
oltre il mero piacere, il godimento di Devereaux si manifesta come
coazione a ripetere intimamente connessa alla dissipazione, alla
soddisfazione autodistruttiva, alla pulsione di morte (morte simbolica
in questo caso: la distruzione del legame sociale assicurato dalla
reputazione e dall’affidabilità). Jouissance, in una parola.
Incontrollato e indifferenziato (l’appetito sessuale di Devereaux non va
tanto per il sottile, indirizzandosi verso qualsiasi corpo femminile
più o meno disponibile), questo godimento si presenta come il tratto
unario che condensa e individua la verità del personaggio: succintamente
coperto da un asciugamano avvolto attorno all’enorme ventre, egli
domanda alla cameriera intimidita, poco prima di afferrarle
violentemente le braccia, “Do you know who I am?”. Una domanda che, al
di là del risvolto implicito pressoché immediato (“io sono un
personaggio potente e influente, non ti è concesso negarti”), significa
forse qualcosa di meno subdolo e ricattatorio: “io sono questo essere
nudo, deforme e famelico, non posso fare a meno del mio godimento qui e
ora”. Nell’essere tutt’uno con la propria jouissance, Devereaux
si colloca insomma in una dimensione distante tanto dalla sanzione
giudicante quanto dalla correzione ortopedica: immune all’esperienza
della detenzione e refrattario alle sedute di psicoterapia, egli, per
dirla in termini spericolatamente lacaniani, “non cede sul proprio
desiderio”. In ultima analisi, quello di Devereaux è un personaggio
intimamente patetico: soffre nel/per mantenere intatto e inalterato il
proprio godimento, rifiutando ogni ipotesi di adattamento alla realtà
(“No one can save anyone. And you know why, doctor? Because no one wants
to be saved”, sentenzia con disarmante sicurezza allo psicoterapeuta
interpretato da Christ “Chris” Zois, peraltro autore dello script
insieme a Ferrara).
The appetite is insatiable (Kathleen Conklin/Lili Taylor in The Addiction).
La
raffigurazione della dipendenza come condizione inarginabile e
indisciplinabile non è certo una novità per Abel Ferrara, anzi
probabilmente costituisce l’ossessione più riconoscibile del suo cinema:
se in The Bad Lieutenant essa s’intrecciava con l’ansia della redenzione e del sacrificio tossico, in The Addiction si rifletteva nell’origine della malvagità sospendendo ogni soluzione in un epilogo misteriosamente tombale, mentre in R-Xmas
si polverizzava in assuefazione alla quotidianità narcotica dello
spaccio. Superfluo sottolineare quanto Ferrara abbia trasferito (e
seguiti a trasferire) in queste vicende di addiction la propria
esperienza di dipendenza da sostanze stupefacenti e alcol. Alla domanda
diretta di un intervistatore che gli chiede, riferendosi a Dominique
Strauss-Kahn, “Can you relate to this guy?”, la risposta è altrettanto
diretta: “Yeah, thousand percent, on every level, man”. Ancora
l'intervistatore: “His story, can you relate to that?”. AF: “His story?
Absolutely, one thousand percent. You know, guy out of control. You
know, his addiction is sexual. You know, an addiction is an addiction.
Especially now, you know, I’m going through sobriety and really
understanding what that is and how you confront that. You know, it’s a
virus that you do with it, you don’t cure it”.
- Have you looked at your life, are you satisfied with what and where you are in your life? What do you want to be different? (lo psicoterapeuta a Matty/Matthew Modine in Blackout).
Ma il titolo ferrariano che intrattiene il dialogo più profondo con Welcome to New York
è con ogni evidenza - un’evidenza che Ferrara smentirebbe senz’altro
perentoriamente - l’altro film sulla connivenza tra celebrità e
dipendenza che il cineasta newyorkese ha scritto insieme a Chris Zois: Blackout. Alla stregua di un Blackout vent’anni dopo, Welcome to New York
mette ancora una volta in scena un personaggio la cui notorietà agevola
e garantisce la floridezza della dipendenza, fornendogli continue e
illimitate occasioni di soddisfacimento fino a renderlo incapace di
distinguere il lecito dall’illecito (lo strangolamento in Blackout, l’abuso sessuale in WTNY).
Questo dittico sulla celebrità intossicata (Matty un divo del cinema,
Devereaux della finanza) presenta del resto un’identica scansione
drammaturgica in tre atti (eccesso trasgressivo che sfocia in
aggressività, intervento correttivo, epilogo solitario) e personaggi
femminili praticamente equivalenti (le caratteristiche delle due
compagne di Matty in Blackout, Anne/Béatrice Dalle e Susan/Claudia Schiffer, in WTNY
si trovano sintetizzate nella figura di Simone). Quello che cambia
sensibilmente, al contrario, è il trattamento della dipendenza, facendo
di WTNY il controtipo negativo di Blackout:
se in quest’ultimo l’atto favorito dall’eccesso produceva senso di
colpa e conduceva a una riconciliazione finale (nella nuotata suicida
Matty si ricongiungeva idealmente e in sovrimpressione alla ragazza
strangolata), in WTNY l’abuso non solo non genera alcun
senso di colpa (l’affermazione “je pense que c’est un peu de ma faute”,
pronunciata in francese all’analista, suona decisamente come una
concessione poco convinta, lettera morta), ma soprattutto non porta ad
alcuna redenzione. Tra tutti i personaggi addicted raffigurati da
Ferrara, Devereaux è senza ombra di dubbio il più irredento: “Qu’ils
aillent tous se faire inculer!”, tuona rabbiosamente guardando dritto in
macchina.
- Why did you accept to play this part?
- Because I don’t like him.
- Because I don’t like him.
Superate le esitazioni formali tra cinema e video che tempestavano Blackout
(precipitato visivo della rimozione omicida operata da Matty e del
ritorno del rimosso come immagine video), Ferrara prosciuga la messa in
scena da ogni vezzo confusionista e, spalleggiato dal direttore della
fotografia Ken Kelsch (al suo fianco da The Driller Killer),
leviga la superficie delle immagini fino a raggiungere una consistenza
quasi marmorea (i corpi stessi, sagomati dalle luci artificiali
dell’hotel o scolpiti dall’illuminazione fredda delle celle, assumono
una durezza statuaria). Rigorose, insistenti e preziosamente inclementi,
le inquadrature di WTNY non frammentano lo spazio in
funzione drammatica, ma osservano una distanza impassibile che
privilegia la descrizione fenomenologica e asseconda una recitazione sul
filo dell’improvvisazione: si pensi a tutta la parte carceraria con
tanto di schedatura/perquisizione integrale e alla lunga sequenza del
faccia a faccia tra Devereaux e Simone nel costoso appartamento
newyorkese da lei affittato (definito sarcasticamente “our little
prison”). È in frangenti come questi che le impressionanti doti
performative di Gérard Depardieu, esaltate per contrasto dalla rigidità
degli agenti e dalla respingente severità di Jacqueline Bisset, si
palesano con cristallina intensità, dispiegando un ventaglio espressivo
che va da tonalità infantili ad altezze totemiche passando per grugniti
ferini. Sono passati quasi trent’anni da Police (1985, Maurice Pialat), la cui ultima inquadratura risuona intimamente nell’epilogo frontale di Welcome to New York, ma lo sguardo di Depardieu, parafrasando Il mistero della camera gialla, non ha perduto nulla del suo fascino né del suo enigmatico splendore.
Grazie a Cecilia Ermini per il contributo.
Pubblicata su www.spietati.it
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