Il capitano Mattei sta per arrestare una famigerata gang di rapinatori
di banche, quando un cecchino appostato sul tetto di un edificio spara
contro i poliziotti per permettere ai complici di fuggire. In seguito al
grave ferimento di uno di loro, i rapinatori si trovano costretti a
cambiare i propri piani, rifugiandosi presso lo studio di un medico
corrotto e rimandando in questo modo la spartizione della refurtiva.
Mentre il capitano Mattei organizza una feroce caccia all'uomo per
catturare i criminali, emergono progressivamente dei particolari che
connettono strettamente i destini dei tre protagonisti e dei
coprotagonisti - tra cui Anna e Nico - in un vortice di misteri e
uccisioni che risale sino alla guerra in Afghanistan (dal pressbook).
Occorre
riconoscere a Michele Placido applicazione e dedizione nel misurarsi
con un genere storicizzato e strutturato come il polar: esplicitamente
indicato dai due sceneggiatori Cédric Melon e Denis Brusseaux quale
regista d’elezione, l’autore di Romanzo criminale si
avvicina con cautela e deferenza alla tradizione del poliziesco/noir
francese, assegnando a Daniel Auteil il grado di commissario e il nome
Mattei (gli stessi di Bourvil in I senza nome), nonché
filigranando il personaggio in chiave melvilliana (i modi insinuanti e
faziosi con cui conduce gli interrogatori rievocano quelli del
commissario interpretato da François Périer in Frank Costello faccia d’angelo). Su questa base ossequiosamente melvillienne s’innesta il gusto tipico del neopolar per l’azione concitata e crepitante - a riguardo si veda la prima stagione di Braquo
(2009), cofirmata da Olivier Marchal e Frederic Schoendoerffer - e una
concezione dei faccia a faccia di chiara impronta manniana (le dinamiche
degli incontri tra Auteil e Kassovitz richiamano quelle tra Al Pacino e
De Niro in Heat).
Sbalzata
dai cromatismi bluastri e biancheggianti di Arnaldo Catinari e sagomata
da un montaggio che alterna avvertitamente linee narrative e salti
cronologici senza disgregarsi, la prima parte di Le Guetteur
si mantiene in equilibrio tra studio dei personaggi, accelerazioni
cinetiche e tradimenti all’insegna dell’opportunismo. Benché le spalle
di Kassovitz siano troppo cadenti per reggere il gravoso ruolo di
Vincent Kaminski, tireur d’élite convertitosi al crimine e, al contrario, Olivier Gourmet schiacci il personaggio del toubib
Frank Vernon con un’interpretazione quasi laughtoniana, il film
frequenta la retorica del genere ritagliandosi una sua singolarità
compositiva. E se il sovraesposto Auteuil si cala con disinvoltura da professionnel
nei panni del commissario Mattei, volti e corpi dei comprimari
conferiscono il mordente d’insieme: non solo Francis Renaud nella parte
del morfinomane Eric e Jérôme Pouly in quella del granitico complice
David, ma anche Arly Jover (l’avvocato Kathy, ex amante di Vincent),
Luca Argentero (Nico, il solo membro della gang ferito durante la
rapina) e Violante Placido (Anna, la moglie di Nico) imprimono al film
un timbro ossessivo percorso da una vena di romanticismo soffocato.
Per
quanto corroso da un malinteso senso dei silenzi e del non detto
(anziché suggerire mistero, la laconicità di Vincent sbraita una
reticenza di prammatica), Il cecchino, per
quarantacinque minuti buoni, dispiega una narrazione a focalizzazione
variabile dignitosamente padroneggiata: ciò che sa un personaggio non
coincide mai con le informazioni possedute dagli altri o dallo
spettatore, e in virtù di queste discrepanze cognitive l’intreccio
rastrella ambiguità, sospetti e doppi giochi in predicato di vendetta. A
guastare la parziale riuscita della pellicola arriva però, esattamente a
metà film, la svolta tragico-orrorifica che scaraventa la narrazione
nelle sabbie mobili del fardello familiare (il figlio di Mattei deceduto
durante una missione segreta in Afghanistan, vedi caso accoppato
proprio da Kaminski) e della crudeltà straordinariamente inopinata (la
ragazza imprigionata e torturata dal medico corrotto, che a questo punto
si tramuta in un mostro sadico alla stregua di Peter Lorre). Da qui in
poi Le Guetteur, tragicamente listato a lutto e
imbrattato di emoglobina inacidita, inanella una serie di sequenze
improbabili (il colloquio tra Mattei e Vernon in cella ha un che di
surreale), che né l’apparizione di Fanny Ardant in un cameo a mano
armata (pare sia stato tagliato nella versione italiana) né i tocchi
coeniani del finale (l’attraversamento del Pont Neuf da parte di Vernon
con tanto di chitarrista mariachi, i ragazzini che fanno skate poco
prima del triello conclusivo) saranno in grado di risollevare. Menzione
d’onore per le musiche originali di Nicolas Errèra, Evgueni e Sacha
Galperine, oscillanti tra l’elettronica martellante e sibilanti
rarefazioni sonore. Umorismo non pervenuto.
Pubblicata su www.spietati.it.
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