Introduzione a cura di Giulio e Alessandro :)
Franto e mobile, estatico e divagante, il cinema di Bertrand Bonello è
un’Odissea identitaria che non conosce il paradigma del racconto di
formazione. Una danza di corpi che s’agitano per non rimanere
cristallizzati in etichette, il divincolarsi scomposto del soggetto per
sfuggire alla trama della psicologia, il conflitto tra carne e società,
la violenza con cui la seconda determina il destino della prima
(cronenberghianamente, ammette egli stesso in una sorprendente
analogia). Quello di Bonello è cinema del reale: perché guarda al
mistero opaco della semplice presenza, ai corpi nello spazio e nel
tempo, e scandaglia - evocandolo tramite lo specifico del cinema - il
fantasma che aleggia sulla realtà, la messa dei desideri che lega i
personaggi, la viva tensione immaginaria che li muove. Frammenti
irrelati, scene indigeste ai manuali di sceneggiatura si associano al
montaggio, creano una dimensione indifferente alle logiche realistiche
della cronologia, della causa e dell’effetto, per cercare una visione
differente, sottratta alle abitudini, agli schemi interpretativi, in un
cinema che rigetta le formule e cerca la purezza, piana e violenta,
delle atmosfere.
Il cinema di Bonello è, sempre, un tentativo, un’incertezza in attesa di
una verifica che non può che essere nello spettatore. Per questo è
antintellettuale e sensoriale, per questo le parole, nei suoi film, non
sono veicoli preferenziali di significato, ma un elemento, come un
altro. Per questo il cinematografo e la sua Storia sono urgenze che non
si sedimentano tanto sul suo sguardo, ma sugli occhi e il cuore, sul
mistero irriducibile del mondo dei suoi protagonisti: la sua cinefilia è
delegata, la sua opera parte necessariamente dall’uomo, non dal cinema,
rimanendo estranea dunque alla poetica di registi obliqui, tra verità e
citazione, come Ozon, Donzelli, Honoré, ai quali solo superficialmente,
per un diffuso sentimento nouvelle vague, il nome Bonello si potrebbe
accostare. E se la struttura, il respiro, sono quelli di un cinema
anticanonico, garreliano, dove la narrazione è esplosa e le scene madri
sono disperse, è il carattere affettivo a meravigliare, imploso dentro a
corpi che faticano a trattenerlo, in dialogo con accorgimenti,
dettagli, aperture musicali, che dalla sobrietà bressoniana giungono al
romanticismo esibito.
Questo musicista convertito alla composizione visiva, tenacemente
accudito dalla fotografia della compagna Josée Deshaies e sfacciatamente
assecondato dalla spigolosa fisicità dell’attore “non-feticcio” Laurent
Lucas, predilige il movimento trattenuto dalle immagini alla frenesia
servile della marcia narrativa. Movimento di corpi in spazi chiusi,
spesso abbozzi di movimento (la danza sur place di Romane Bohringer in Quelque chose d’organique, la pacatezza estatica di Mathieu Amalric in De la guerre)
che suggeriscono lavorio interiore, sensibilità e abbandono. Tracce di
un processo intimo letteralmente infilmabile, increspature appena
accennate sulla tela dell’inquadratura che offrono una direzione senza
indicarla, propongono una traiettoria senza imporla: quella
dell’identità unica e irripetibile dei soggetti ripresi. Ecco perché
questi germi di movimento possono improvvisamente scatenarsi in balli
vertiginosamente accelerati (la danza in vorticoso fast forward di Jérémie Renier sulle note di Marcia Baila dei Rita Mitsouko in Le Pornographe) o culminare in gesti oscuramente sacrificali (il prefinale di Tiresia):
ciò che conta è esclusivamente il loro peso specifico, la loro
umanissima, insondabile profondità. L’imperscrutabile altrove dal quale
provengono.
Spazi chiusi, si diceva. Ma non spazi di squilibrio o alienazione. In
questo cinema liberamente aritmico in cui ogni sequenza reimposta il
metronomo e genera un tempo singolare, i microcosmi a tenuta stagna
configurano spazi di stabilità e comprensione. La chiusura non coincide
banalmente con l’oppressione, ma fornisce l’occasione di un confronto
serrato con l’altro e l’osservazione minuziosa - o meglio la viva
esperienza - di stati dell’essere ignoti al soggetto che li prova: nel
chiuso degli spazi, il chiuso della coscienza si apre a territori di
esistenza inesplorati. Quelque chose d’organique: la casa nella periferia di Montreal diviene il laboratorio in cui osservare in vivo il disfacimento molecolare dell’amore di Marguerite e Paul. Le Pornographe:
la camera di Jacques si tramuta in una cella monastica nella quale, tra
reminiscenze bressoniane e sentori quasi petrarcheschi, l’appesantito
pornografo riflette sul passato e medita sul presente, consegnando le
residue speranze all’avvenire. Tiresia: nell’angustia
di un carcere domestico, Terranova scruta dallo spioncino l’irreparabile
degradazione della copia perfetta, l’appassire della rosa presa in
ostaggio. E si ha addirittura quest’impressione paradossale: più gli
spazi si riducono più la viva esperienza della conoscenza si amplifica,
s’intensifica. Come avviene in De la guerre: non solo
l’isolamento giubilatorio nel Reame, ma persino l’asfissiante reclusione
in una bara diventa anticamera del sublime (non come concetto astratto,
ma come esperienza sensibile). Infine L’Apollonide:
casa chiusa per antonomasia, il postribolo parigino si spalanca in una
serie di pannelli che restituiscono ai soggetti femminili quell’identità
e quella dignità negate loro dalla società e dalla scienza. Se la maison close imprigiona le ragazze nell’istituto sociale della prostituzione, Bonello, con i suoi Souvenirs,
le sprigiona cinematograficamente. Detto altrimenti, nel cinema di
Bonello la coercizione ambientale non comporta repressione individuale o
riduzione a oggetto di consumo visivo, ma, al contrario, acuisce la
sensibilità e precisa l’identità (non è fortuito che nel suo cinema
persino gli esterni siano ripresi come fossero interni: non ambienti che
contengono il soggetto ma frammenti di spazio che si dispiegano attorno
al soggetto). Spazi chiusi, luoghi dell’essere.
che ve lo dico a fare..bravi come sempre..
RispondiEliminagrazie Nick :)
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