martedì 31 luglio 2012

LIVIDE


Bretagna. Durante il primo giorno di tirocinio infermieristico, la giovane Lucie viene a sapere che nella villa di Deborah Jessel, ex istruttrice di danza ormai ridotta a un vegetale, si nasconde un tesoro ben custodito. Rivelato il segreto al fidanzato William, la ragazza si lascia convincere a penetrare nella sinistra dimora dopo un’iniziale riluttanza. Così, la notte di Halloween, Lucie, William e l’amico comune Ben si intrufolano nell’abitazione della decrepita Jessel intenzionati a scovare il misterioso tesoro.


“Al limite del Bosco Nero, Christophe si fermò. Senza voltarsi, il corpo inclinato e il collo teso in avanti, fece un gesto rapido con la sua mano aperta. Gli altri due si erano immobilizzati qualche passo dietro di lui. Trattenendo il respiro, ascoltavano senza staccare gli occhi dalla sua sagoma che si stagliava contro il cielo ancora chiaro”: inizia così Malataverne (1960) di Bernard Clavel, riferimento letterario fondante di Livide. Un romanzo sulla perdita dell’innocenza che si sviluppa attorno alla preparazione di un furto da parte di tre adolescenti ai danni della vecchia e sorda mère Vintard, proprietaria della fattoria eponima. All’origine di Livide vi è sostanzialmente questa domanda: quale potrebbe essere il pendant fantastico di Malataverne? Si tratta insomma di uno spunto estrapolato dal libro di Clavel (donde il cognome dell’eroina del film Lucie), un classico della letteratura francese studiato nelle scuole che si concentra quasi esclusivamente sulle fasi preliminari del colpo (all’irruzione nella fattoria sono dedicate soltanto le ultime dieci pagine) e si conclude drammaticamente quando i giovani protagonisti entrano nella sinistra proprietà di mère Vintard, luogo minaccioso fin dal nome (“Malataverne c’est le coin du malheur…”). Una vera e propria espansione/rivisitazione fantastica di un classico della letteratura adolescenziale francese.


Ma se lo spunto iniziale affonda le radici nella letteratura, il sostrato cinematografico si nutre di suggestioni provenienti dai film di Argento e dalle produzioni Hammer, in una sorta di crossover orrorifico-gotico sul quale si innesta il tentativo di elaborare una mitologia vampiresca che si riallacci ai racconti del folklore celtico e bretone (l’ambientazione in Bretagna, le leggende sui fuochi fatui,) e che, al contempo, si distacchi dall’iconografia convenzionale (la fotofobia, i parafernali religiosi). Il secondo lungometraggio del duo Bustillo-Maury compie dunque una brusca sterzata rispetto alla tranciante violenza di À l’intérieur: il realismo tangibile del film d’esordio, già divenuto oggetto di culto e impostosi come punta di diamante della Nouvelle trouille, trascolora in arrangiamenti stilistici più contemplativi ed eleganti, in configurazioni audiovisive spinte progressivamente verso tonalità macabre intrise di morboso lirismo. Ed è nella disciplina della danza, comunemente associata al binomio grazia/bellezza, che Bustillo e Maury individuano una pura sofferenza da declinare in chiave fantastica: il personaggio di Deborah Jessel (interpretata dalla ballerina Marie-Claude Pietragalla) coagula paradossalmente in sé i tratti antitetici di orrore presente (il ripugnante status di mummia/vampiro) e perfezione passata (l’intransigente istruttrice di una scuola rinomata).

Anche se il film è vagamente influenzato da Inferno per il suo côtè totalmente onirico e divagante, Suspiria, letteralmente venerato da Bustillo e Maury, costituisce un nesso intertestuale aperto e dichiarato. Il legame diretto si materializza quando Lucie (Chloé Coulloud) illumina con la torcia elettrica il diploma di danza di Deborah Jessel (rilasciato dalla Tanzakademie di Freiburg, la scuola del film di Argento): la vecchia istruttrice è stata allieva nientemeno che di Elena Markos, la Mater Suspiriorum. A questa ascendenza argentiana si sovrappongono, goticizzandola, risonanze da haunted house movie (rumori inquietanti, presenze fantasmatiche, porte e finestre che si chiudono autonomamente) e risvolti malinconici sempre più accentuati (dai flashback medianici imbanditi dalla rediviva Jessel alle atmosfere rarefatte del climax finale sulle falesie bretoni). Autentica spina dorsale di Livide: la “malavilla”. Strutturata come un personaggio in carne e ossa, la maison Jessel presenta una conformazione organica che elegge la camera della ultracentenaria inferma a testa dell’edificio, la stanza della figlia/bambola Anna (Chloé Marcq) a meccanismo cardiaco e la cantina dalla quale penetrano Lucie, William (Félix Moati) e Ben (Jérémy Kapone) ad apparato intestinale (è lì che si accumulano i residui domestici).

Disseminato di indizi cinefili come l’insegna del pub della madre di William (“L’agneau abattu”, traduzione letterale del “The Slaughtered Lamb” di Un lupo mannaro americano a Londra) e assortito di rugginose autocitazioni (pur ossidate, le forbici di À l’intérieur conservano una loro perforante utilità), Livide ha nell’allusiva dichiarazione della (in)fida madame Wilson (Catherine Jacob) il suo intrigante principio (intrigante poiché insinuante e funzionale all’intreccio): “Il valore di un tesoro risiede talvolta nel suo segreto”. Vero è che la seconda parte (dall’irruzione nella villa in poi) non possiede l’angosciosa compattezza che caratterizzava la pellicola d’esordio del duo: a sequenze di maciullante ferocia (il corpo a corpo tra Willam e Ben, lo smascellamento della vecchia Jessel) si alternano parentesi intimiste che oscillano tra il calligrafico e il comico involontario (le disarticolate evoluzioni della bambola vivente Anna, l’ultima lezione di danza impartita dalla Jessel alla figlia). Ma, al netto di un budget leggermente inferiore a quello di À l’intérieur (tra il milione e mezzo e i due milioni di euro), l’intento di Bustillo e Maury di smarcarsi dal flagrante realismo del loro primo lungometraggio e dei successivi horror French Frayeur può dirsi essenzialmente riuscito.

Pur tenendo conto del vistoso e progressivo sfilacciamento del film in una serie di pannelli orrorifico-fantastici di variabile intensità ed efficacia, nonché della sarabanda di finali potenziali (se ne contano almeno quattro), Livide si segnala in ultima analisi per un paio di aspetti tutt’altro che irrilevanti. Il primo consiste nella deliberata cancellazione della componente sociopolitica ricorrente nella maggior parte dei titoli della Nouvelle trouille (oltre ai ben noti Frontière(s), Martyrs e allo stesso À l’intérieur, è impossibile non menzionare i meno noti Le village des ombres di Fouad Benhammou e, soprattutto, il sottostimatissimo survival franco-canadese Territoires di Olivier Abbou). Il secondo concerne invece la pietrificazione dei corpi: dal seminale Maléfique (2002) in poi, il nuovo horror francese non ha fatto altro che esasperare la tangibilità dei corpi femminili, la loro plasticità e vulnerabilità (in un chiaro movimento allegorico, secondo chi scrive, di investimento politico). Livide, al contrario, devitalizza e imbalsama i corpi, assimilandoli gradualmente e perentoriamente ai crocifissi di pietra che si stagliano “contro il cielo ancora chiaro” nell’incipit. La presentazione di Lucie in posa statuaria e immobile alla fermata del bus, la mummificazione comatosa della vecchia istruttrice di danza, la conversione della figlia Anna in automa, il trasferimento di tratti organici alla villa Jessel: tutti segnali di pietrificante reificazione dei corpi. Su questa superficie marmorea - irradiata dalle luci à la Georges de La Tour del direttore della fotografia Laurent Barès e scolpita dal lapidario montaggio di Baxter - lo sguardo di Bustillo e Mary non può che scivolare e pattinare ininterrottamente, talvolta precipitando rovinosamente, talaltra (come nell’epilogo aereo), librandosi in volo alla deriva. Senza giustificazioni didascaliche o tronfie spiegazioni, semplicemente sfrecciando verso l'orizzonte.

Recensione pubblicata su www.spietati.it.

Nessun commento:

Posta un commento