Recensione pubblicata su www.spietati.it.
martedì 31 luglio 2012
LIVIDE
Recensione pubblicata su www.spietati.it.
domenica 15 luglio 2012
Take Shelter (2011), Jeff Nichols
Recensione pubblicata su www.spietati.it.
giovedì 12 luglio 2012
Bertrand Bonello
Speciale dedicato a Bertrand Bonello pubblicato su www.spietati.it.
Introduzione a cura di Giulio e Alessandro :)
Franto e mobile, estatico e divagante, il cinema di Bertrand Bonello è
un’Odissea identitaria che non conosce il paradigma del racconto di
formazione. Una danza di corpi che s’agitano per non rimanere
cristallizzati in etichette, il divincolarsi scomposto del soggetto per
sfuggire alla trama della psicologia, il conflitto tra carne e società,
la violenza con cui la seconda determina il destino della prima
(cronenberghianamente, ammette egli stesso in una sorprendente
analogia). Quello di Bonello è cinema del reale: perché guarda al
mistero opaco della semplice presenza, ai corpi nello spazio e nel
tempo, e scandaglia - evocandolo tramite lo specifico del cinema - il
fantasma che aleggia sulla realtà, la messa dei desideri che lega i
personaggi, la viva tensione immaginaria che li muove. Frammenti
irrelati, scene indigeste ai manuali di sceneggiatura si associano al
montaggio, creano una dimensione indifferente alle logiche realistiche
della cronologia, della causa e dell’effetto, per cercare una visione
differente, sottratta alle abitudini, agli schemi interpretativi, in un
cinema che rigetta le formule e cerca la purezza, piana e violenta,
delle atmosfere.
Il cinema di Bonello è, sempre, un tentativo, un’incertezza in attesa di
una verifica che non può che essere nello spettatore. Per questo è
antintellettuale e sensoriale, per questo le parole, nei suoi film, non
sono veicoli preferenziali di significato, ma un elemento, come un
altro. Per questo il cinematografo e la sua Storia sono urgenze che non
si sedimentano tanto sul suo sguardo, ma sugli occhi e il cuore, sul
mistero irriducibile del mondo dei suoi protagonisti: la sua cinefilia è
delegata, la sua opera parte necessariamente dall’uomo, non dal cinema,
rimanendo estranea dunque alla poetica di registi obliqui, tra verità e
citazione, come Ozon, Donzelli, Honoré, ai quali solo superficialmente,
per un diffuso sentimento nouvelle vague, il nome Bonello si potrebbe
accostare. E se la struttura, il respiro, sono quelli di un cinema
anticanonico, garreliano, dove la narrazione è esplosa e le scene madri
sono disperse, è il carattere affettivo a meravigliare, imploso dentro a
corpi che faticano a trattenerlo, in dialogo con accorgimenti,
dettagli, aperture musicali, che dalla sobrietà bressoniana giungono al
romanticismo esibito.
Questo musicista convertito alla composizione visiva, tenacemente
accudito dalla fotografia della compagna Josée Deshaies e sfacciatamente
assecondato dalla spigolosa fisicità dell’attore “non-feticcio” Laurent
Lucas, predilige il movimento trattenuto dalle immagini alla frenesia
servile della marcia narrativa. Movimento di corpi in spazi chiusi,
spesso abbozzi di movimento (la danza sur place di Romane Bohringer in Quelque chose d’organique, la pacatezza estatica di Mathieu Amalric in De la guerre)
che suggeriscono lavorio interiore, sensibilità e abbandono. Tracce di
un processo intimo letteralmente infilmabile, increspature appena
accennate sulla tela dell’inquadratura che offrono una direzione senza
indicarla, propongono una traiettoria senza imporla: quella
dell’identità unica e irripetibile dei soggetti ripresi. Ecco perché
questi germi di movimento possono improvvisamente scatenarsi in balli
vertiginosamente accelerati (la danza in vorticoso fast forward di Jérémie Renier sulle note di Marcia Baila dei Rita Mitsouko in Le Pornographe) o culminare in gesti oscuramente sacrificali (il prefinale di Tiresia):
ciò che conta è esclusivamente il loro peso specifico, la loro
umanissima, insondabile profondità. L’imperscrutabile altrove dal quale
provengono.
Introduzione a cura di Giulio e Alessandro :)
Spazi chiusi, si diceva. Ma non spazi di squilibrio o alienazione. In
questo cinema liberamente aritmico in cui ogni sequenza reimposta il
metronomo e genera un tempo singolare, i microcosmi a tenuta stagna
configurano spazi di stabilità e comprensione. La chiusura non coincide
banalmente con l’oppressione, ma fornisce l’occasione di un confronto
serrato con l’altro e l’osservazione minuziosa - o meglio la viva
esperienza - di stati dell’essere ignoti al soggetto che li prova: nel
chiuso degli spazi, il chiuso della coscienza si apre a territori di
esistenza inesplorati. Quelque chose d’organique: la casa nella periferia di Montreal diviene il laboratorio in cui osservare in vivo il disfacimento molecolare dell’amore di Marguerite e Paul. Le Pornographe:
la camera di Jacques si tramuta in una cella monastica nella quale, tra
reminiscenze bressoniane e sentori quasi petrarcheschi, l’appesantito
pornografo riflette sul passato e medita sul presente, consegnando le
residue speranze all’avvenire. Tiresia: nell’angustia
di un carcere domestico, Terranova scruta dallo spioncino l’irreparabile
degradazione della copia perfetta, l’appassire della rosa presa in
ostaggio. E si ha addirittura quest’impressione paradossale: più gli
spazi si riducono più la viva esperienza della conoscenza si amplifica,
s’intensifica. Come avviene in De la guerre: non solo
l’isolamento giubilatorio nel Reame, ma persino l’asfissiante reclusione
in una bara diventa anticamera del sublime (non come concetto astratto,
ma come esperienza sensibile). Infine L’Apollonide:
casa chiusa per antonomasia, il postribolo parigino si spalanca in una
serie di pannelli che restituiscono ai soggetti femminili quell’identità
e quella dignità negate loro dalla società e dalla scienza. Se la maison close imprigiona le ragazze nell’istituto sociale della prostituzione, Bonello, con i suoi Souvenirs,
le sprigiona cinematograficamente. Detto altrimenti, nel cinema di
Bonello la coercizione ambientale non comporta repressione individuale o
riduzione a oggetto di consumo visivo, ma, al contrario, acuisce la
sensibilità e precisa l’identità (non è fortuito che nel suo cinema
persino gli esterni siano ripresi come fossero interni: non ambienti che
contengono il soggetto ma frammenti di spazio che si dispiegano attorno
al soggetto). Spazi chiusi, luoghi dell’essere.
lunedì 2 luglio 2012
C'era una volta in Anatolia (2011), Nuri Bilge Ceylan
Nel paesaggio lunare dell’Anatolia, una carovana di tre macchine vaga
alla ricerca di un cadavere seppellito in un campo. Nella prima, col
commissario Naci, il dottor Cemal e l’agente di sorveglianza, si trova
Kenan, il reo confesso. Nella seconda viaggia il procuratore Nurset
insieme all’autista e agli addetti allo scavo. Nella terza, una jeep
dell’esercito, è custodito Ramazan, il secondo sospettato. La
perlustrazione gira a vuoto, dal momento che Kenan afferma di non
ricordare esattamente il luogo del seppellimento poiché era ubriaco, ma
la sosta notturna in un piccolo villaggio cambia le carte in tavola.
Definire C’era una volta in Anatolia un poliziesco tout court
sarebbe una sciocchezza sesquipedale, eppure il sesto lungometraggio
del cineasta turco Nuri Bilge Ceylan si ispira a un’autentica indagine
poliziesca: la ricerca di un cadavere effettivamente compiuta da Ercan
Kesal (cosceneggiatore del film nonché interprete nel ruolo del sindaco
Mukhtar) quando prestava servizio come medico in Anatolia. Insieme allo
stesso Kesal e alla moglie Ebru (cineasta, attrice e sceneggiatrice),
Ceylan ripropone la squadra creativa de Le tre scimmie
per riscrivere lo spunto di partenza in chiave cinematografica. Il primo
scoglio da superare consiste nella durata: comprimere un evento durato
circa dodici ore in due ore e mezzo (il minutaggio finale, notevole ma
perfettamente giustificato dalle esigenze della narrazione, è il
risultato della scrematura di un primo montaggio di circa duecentodieci
minuti). Il secondo accorgimento riguarda invece la costruzione di un
racconto in cui gli spettatori condividano il sapere dei personaggi
senza avere immediatamente la soluzione dell’enigma (la conoscenza dei
fatti si delinea letteralmente strada facendo). Il terzo espediente,
infine, concerne la determinazione di una coscienza centrale che, pur
non monopolizzando la scena, fornisca un punto di riferimento visivo e
cognitivo allo spettatore (centralità assegnata al dottor Cemal,
interpretato da Muhammet Uzuner, che col passare dei minuti si afferma
come personaggio cardine).
Ed è innegabile che, forte di questa triangolazione tra durata, andatura indiziaria e punto focale, C’era una volta in Anatolia
sia di gran lunga e senza ombra di dubbio la pellicola più convincente e
risolta di Nuri Bilge Ceylan: gli inospitali ammiccamenti di Uzak, la compiaciuta indolenza de Il piacere e l’amore e soprattutto la dissonante incongruenza de Le tre scimmie
lasciano spazio a una riuscitissima sintesi stilistica. Stavolta
narrazione e rappresentazione armonizzano mirabilmente, dando vita a un
film in cui la coralità dell’impianto (la carovana delle tre macchine
scarrozza una quindicina di personaggi) non ostacola la precisazione dei
singoli caratteri né intralcia il ritmo di una progressione drammatica
che, episodio dopo episodio, si carica di sfumature confidenziali e
lampi inaspettati (la crescente intesa tra il dottore e il procuratore
Nurset; la folgorante comparsa di un volto scolpito nella pietra che
spaventa il medico appartatosi a mingere nella steppa). Il tono del
racconto oscilla felicemente tra il grottesco delle beghe burocratiche e
la mestizia delle confessioni intime: se il primo registro colora la
narrazione con tinte ridicole (rese ancora più squillanti dalla
lontananza dai luoghi del potere), il secondo la impregna di note
profondamente malinconiche (il racconto della morte annunciata della
moglie del procuratore; la rassegnazione del commissario Naci).
Concentrata
sulla caratterizzazione dei personaggi e sulla tenuta narrativa, la
scrittura si tiene alla larga dallo psicologismo spicciolo, anche quando
si dedica alla raffigurazione di dinamiche meschine e potenzialmente
avvilenti (le dispute tra il procuratore e il commissario, le accuse di
sadismo rivolte al reo confesso Kenan). A contare non è tanto la
costruzione di personalità rigidamente qualificate e di facile lettura
(per quanto alcune figure di contorno sfiorino la caricatura, come il
sergente ultrazelante), ma il tratteggio di caratteri a bassa
definizione e soggetti al mutamento: il confronto reciproco tra i
personaggi apre continui varchi nei loro partiti presi, li obbliga a
ripensare agli altri e a se stessi (lo sconcerto provato dal commissario
di fronte all’irriducibile altruismo di Kenan; l’incapacità del dottore
nel sostenere il proprio sguardo davanti allo specchio). Non c’è
scetticismo o autoindulgenza che tenga, la notte passata nel cuore
dell’Anatolia lascia un segno indelebile nelle coscienze dei singoli (la
comparsa della bellissima figlia del sindaco nel villaggio di Ceceli:
un cataclisma a lume di candela). Un processo di trasformazione che si
nutre delle suggestioni ambientali come cassa di risonanza
dell’interiorità (si pensi al dialogo “alabiale” tra il dottore e
l’autista Arab: disancorate dalla sorgente sonora umana, le parole
sembrano scaturire direttamente dalle vibrazioni del paesaggio).
Ciononostante - e in questo, secondo chi scrive, risiede il limite non solo del film ma del cinema di Ceylan - C’era una volta in Anatolia
tradisce una dipendenza dalla dimensione narrativa che gli impedisce di
svincolarsi dall’obbligo di raccontare, di liberarsi, sia pur
provvisoriamente, dalla tirannia dell’intenzione comunicativa (“Sono
consapevole del fatto che sia un film difficile per lo spettatore, ma al
tempo stesso rivendico la presenza di un contenuto. Non vi è nulla
sullo schermo che io non possa giustificare e sono in grado di
rispondere a domande relative a ciascun dettaglio e di spiegare il
comportamento o le battute di ciascun personaggio”, dal pressbook).
Persino i momenti di apparente deriva visiva (la camera che segue la
caduta di una mela dall’albero finché non si ferma nel greto di un
ruscello) o di enfatizzazione del fuori campo (l’autopsia non mostrata
esplicitamente ma resa tangibile dai rumori della rimozione degli organi
e dallo sgocciolio), sono pienamente riconducibili al dominio
metaforico (l’inchiesta si incaglia; il dottore si sporca di sangue).
Sudditanza narratologica che tuttavia toglie poco o nulla alla riuscita
di un film splendidamente girato in digitale (con una Sony F35) e
magnificato da un formato panoramico che esalta la stepposa vastità
della regione anatolica. Grand Prix Speciale della Giuria al 64º
Festival di Cannes.
Recensione pubblicata su www.spietati.it.
Iscriviti a:
Post (Atom)