Bretagna. Durante il primo giorno di tirocinio infermieristico, la
giovane Lucie viene a sapere che nella villa di Deborah Jessel, ex
istruttrice di danza ormai ridotta a un vegetale, si nasconde un tesoro
ben custodito. Rivelato il segreto al fidanzato William, la ragazza si
lascia convincere a penetrare nella sinistra dimora dopo un’iniziale
riluttanza. Così, la notte di Halloween, Lucie, William e l’amico comune
Ben si intrufolano nell’abitazione della decrepita Jessel intenzionati a
scovare il misterioso tesoro.
“Al
limite del Bosco Nero, Christophe si fermò. Senza voltarsi, il corpo
inclinato e il collo teso in avanti, fece un gesto rapido con la sua
mano aperta. Gli altri due si erano immobilizzati qualche passo dietro
di lui. Trattenendo il respiro, ascoltavano senza staccare gli occhi
dalla sua sagoma che si stagliava contro il cielo ancora chiaro”: inizia
così Malataverne (1960) di Bernard Clavel, riferimento letterario fondante di Livide.
Un romanzo sulla perdita dell’innocenza che si sviluppa attorno alla
preparazione di un furto da parte di tre adolescenti ai danni della
vecchia e sorda mère Vintard, proprietaria della fattoria eponima.
All’origine di Livide vi è sostanzialmente questa domanda: quale potrebbe essere il pendant fantastico di Malataverne?
Si tratta insomma di uno spunto estrapolato dal libro di Clavel (donde
il cognome dell’eroina del film Lucie), un classico della letteratura
francese studiato nelle scuole che si concentra quasi esclusivamente
sulle fasi preliminari del colpo (all’irruzione nella fattoria sono
dedicate soltanto le ultime dieci pagine) e si conclude drammaticamente
quando i giovani protagonisti entrano nella sinistra proprietà di mère
Vintard, luogo minaccioso fin dal nome (“Malataverne c’est le coin du
malheur…”). Una vera e propria espansione/rivisitazione fantastica di un
classico della letteratura adolescenziale francese.
Ma se lo spunto iniziale affonda le radici nella letteratura, il sostrato cinematografico si nutre di suggestioni provenienti dai film di Argento e dalle produzioni Hammer, in una sorta di crossover orrorifico-gotico sul quale si innesta il tentativo di elaborare una mitologia vampiresca che si riallacci ai racconti del folklore celtico e bretone (l’ambientazione in Bretagna, le leggende sui fuochi fatui,) e che, al contempo, si distacchi dall’iconografia convenzionale (la fotofobia, i parafernali religiosi). Il secondo lungometraggio del duo Bustillo-Maury compie dunque una brusca sterzata rispetto alla tranciante violenza di À l’intérieur: il realismo tangibile del film d’esordio, già divenuto oggetto di culto e impostosi come punta di diamante della Nouvelle trouille, trascolora in arrangiamenti stilistici più contemplativi ed eleganti, in configurazioni audiovisive spinte progressivamente verso tonalità macabre intrise di morboso lirismo. Ed è nella disciplina della danza, comunemente associata al binomio grazia/bellezza, che Bustillo e Maury individuano una pura sofferenza da declinare in chiave fantastica: il personaggio di Deborah Jessel (interpretata dalla ballerina Marie-Claude Pietragalla) coagula paradossalmente in sé i tratti antitetici di orrore presente (il ripugnante status di mummia/vampiro) e perfezione passata (l’intransigente istruttrice di una scuola rinomata).
Anche se il film è vagamente influenzato da Inferno per il suo côtè totalmente onirico e divagante, Suspiria,
letteralmente venerato da Bustillo e Maury, costituisce un nesso
intertestuale aperto e dichiarato. Il legame diretto si materializza
quando Lucie (Chloé Coulloud) illumina con la torcia elettrica il
diploma di danza di Deborah Jessel (rilasciato dalla Tanzakademie di
Freiburg, la scuola del film di Argento): la vecchia istruttrice è stata
allieva nientemeno che di Elena Markos, la Mater Suspiriorum. A questa ascendenza argentiana si sovrappongono, goticizzandola, risonanze da haunted house movie
(rumori inquietanti, presenze fantasmatiche, porte e finestre che si
chiudono autonomamente) e risvolti malinconici sempre più accentuati
(dai flashback medianici imbanditi dalla rediviva Jessel alle atmosfere
rarefatte del climax finale sulle falesie bretoni). Autentica spina
dorsale di Livide: la “malavilla”. Strutturata come un personaggio in carne e ossa, la maison Jessel
presenta una conformazione organica che elegge la camera della
ultracentenaria inferma a testa dell’edificio, la stanza della
figlia/bambola Anna (Chloé Marcq) a meccanismo cardiaco e la cantina
dalla quale penetrano Lucie, William (Félix Moati) e Ben (Jérémy Kapone)
ad apparato intestinale (è lì che si accumulano i residui domestici).
Disseminato
di indizi cinefili come l’insegna del pub della madre di William
(“L’agneau abattu”, traduzione letterale del “The Slaughtered Lamb” di Un lupo mannaro americano a Londra) e assortito di rugginose autocitazioni (pur ossidate, le forbici di À l’intérieur conservano una loro perforante utilità), Livide
ha nell’allusiva dichiarazione della (in)fida madame Wilson (Catherine
Jacob) il suo intrigante principio (intrigante poiché insinuante e
funzionale all’intreccio): “Il valore di un tesoro risiede talvolta nel
suo segreto”. Vero è che la seconda parte (dall’irruzione nella villa in
poi) non possiede l’angosciosa compattezza che caratterizzava la
pellicola d’esordio del duo: a sequenze di maciullante ferocia (il corpo
a corpo tra Willam e Ben, lo smascellamento della vecchia Jessel) si
alternano parentesi intimiste che oscillano tra il calligrafico e il
comico involontario (le disarticolate evoluzioni della bambola vivente
Anna, l’ultima lezione di danza impartita dalla Jessel alla figlia). Ma,
al netto di un budget leggermente inferiore a quello di À l’intérieur
(tra il milione e mezzo e i due milioni di euro), l’intento di Bustillo
e Maury di smarcarsi dal flagrante realismo del loro primo
lungometraggio e dei successivi horror French Frayeur può dirsi
essenzialmente riuscito.
Pur
tenendo conto del vistoso e progressivo sfilacciamento del film in una
serie di pannelli orrorifico-fantastici di variabile intensità ed
efficacia, nonché della sarabanda di finali potenziali (se ne contano
almeno quattro), Livide si segnala in ultima analisi
per un paio di aspetti tutt’altro che irrilevanti. Il primo consiste
nella deliberata cancellazione della componente sociopolitica ricorrente
nella maggior parte dei titoli della Nouvelle trouille (oltre ai ben
noti Frontière(s), Martyrs e allo stesso À l’intérieur, è impossibile non menzionare i meno noti Le village des ombres di Fouad Benhammou e, soprattutto, il sottostimatissimo survival franco-canadese Territoires di Olivier Abbou). Il secondo concerne invece la pietrificazione dei corpi: dal seminale Maléfique
(2002) in poi, il nuovo horror francese non ha fatto altro che
esasperare la tangibilità dei corpi femminili, la loro plasticità e
vulnerabilità (in un chiaro movimento allegorico, secondo chi scrive, di
investimento politico). Livide, al contrario,
devitalizza e imbalsama i corpi, assimilandoli gradualmente e
perentoriamente ai crocifissi di pietra che si stagliano “contro il
cielo ancora chiaro” nell’incipit. La presentazione di Lucie in posa
statuaria e immobile alla fermata del bus, la mummificazione comatosa
della vecchia istruttrice di danza, la conversione della figlia Anna in
automa, il trasferimento di tratti organici alla villa Jessel: tutti
segnali di pietrificante reificazione dei corpi. Su questa superficie
marmorea - irradiata dalle luci à la Georges de La Tour del
direttore della fotografia Laurent Barès e scolpita dal lapidario
montaggio di Baxter - lo sguardo di Bustillo e Mary non può che
scivolare e pattinare ininterrottamente, talvolta precipitando
rovinosamente, talaltra (come nell’epilogo aereo), librandosi in volo
alla deriva. Senza giustificazioni didascaliche o tronfie spiegazioni,
semplicemente sfrecciando verso l'orizzonte.
Recensione pubblicata su www.spietati.it.
Recensione pubblicata su www.spietati.it.