“Nell’antica Roma, la Suburra era il quartiere dove il potere e la
criminalità segretamente si incontravano. Dopo oltre duemila anni, quel
luogo esiste ancora. Perché oggi, forse più di allora, Roma è la città
del potere: quello dei grandi palazzi della politica, delle stanze
affrescate e cariche di spiritualità del Vaticano e quello, infine,
della strada, dove la criminalità continua da sempre a cercare la via
più diretta per imporre a tutti la propria legge. Il film è la storia di
una grande speculazione edilizia, il Water-front, che trasformerà il
litorale romano in una nuova Las Vegas. Per realizzarla servirà
l’appoggio di Filippo Malgradi (Pierfrancesco Favino), politico corrotto
e invischiato fino al collo con la malavita, di Numero 8 (Alessandro
Borghi), capo di una potentissima famiglia che gestisce il territorio e,
soprattutto, di Samurai (Claudio Amendola), il più temuto
rappresentante della criminalità romana e ultimo componente della Banda
della Magliana. Ma a generare un inarrestabile effetto domino capace di
inceppare definitivamente questo meccanismo saranno, in realtà, dei
personaggi che vivono ai margini dei giochi di potere come Sebastiano
(Elio Germano), un PR viscido e senza scrupoli, Sabrina un’avvenente
escort (Giulia Elettra Gorietti), Viola (Greta Scarano) la fidanzata
tossicodipendente di Numero 8 e Manfredi (Adamo Dionisi) il capoclan di
una pericolosa famiglia di zingari.” (dal presskit).
Esistono almeno due modi di considerare Suburra:
il primo - che rispecchia in maniera ragionevolmente fedele
l’atteggiamento di chi scrive - consiste nel rimanere sostanzialmente
indifferenti al cinema squadernato dal film: cinema bullo e
romanocentrico, roboante e pieno zeppo di facce note, sempre uguale a se
stesso perché sempre un po’ diverso. Un cinema che mette in scena lo
spettacolo della morte ma perfettamente al riparo dalla morte dello
spettacolo. Un cinema che racconta il racconto della corruzione
pretendendo di raccontare la corruzione stessa. Cinema della
mistificazione sistematica, della simulazione invulnerabile: anziché
rielaborare la tragedia in narrazione, la spettacolarizza compiacendosi
del proprio segno da farsa grottesca. Un cinema in cui ogni elemento è
assoggettato e docilmente obbediente al primato della convenzione e
della resa effettistica: celebrazione impeccabile di una credibilità
esclusivamente stereotipata e caricaturale. Cinema dell’overacting anche
quando - soprattutto quando - la recitazione assume pose trattenute e
interiorizzate (vedasi Amendola). Cinema del dialetto capitolino come
indice di veracità, cinema che scimmiotta modelli americani (Scorsese,
Mann, Il cattivo tenente
di Abel Ferrara) assimilando stilemi seriali e scaraventandoli in
un’impaginazione da graphic novel. Cinema di dialoghi fieramente
folkloristici, musiche di rinforzo e montaggi alternati di inossidabile
dualismo (carezza e bacio al figlio dormiente, incatenamento e lancio
del cadavere zavorrato). Cinema totalmente innocuo, infine, perché
lascia lo spettatore esattamente dove e come si trovava prima di essere
sequestrato per 130’. Risultato? L'indifferenza più imperturbabile.
Questo l’atteggiamento di chi non accetta le regole del gioco postulate
dal film di Stefano Sollima.
Il
secondo modo, legittimo quanto il primo e forte degli stessi titoli di
nobiltà (la facoltà di incanaglirsi liberamente è garantita dalla carta
dei diritti dello spettatore), risiede nell’accettare più o meno
consapevolmente le regole del gioco - altri le chiamerebbero senza
esitazioni regole di genere - e godersi lo spettacolo sontuosamente
allestito da Sollima, Petraglia, Rulli, Bonini e De Cataldo, abilmente
spalleggiati dalla poderosa fotografia di Paolo Carnera (illuminazione e
cromatismi di indiscutibile virtuosismo), dalle certosine scenografie
di Paki Meduri (dall’emiciclo parlamentare alle stanze vaticane,
passando per ville al neon o arredi sfarzosamente eclettici) e dal
montaggio incalzante di Patrizio Marone (l’orchestrazione visiva della
sparatoria nel supermercato, l’implacabilità della carneficina nelle
baracche dei pescatori). Un atteggiamento, questo, che vedrà
plausibilmente inverarsi in Suburra un affresco nero
di sconcertante attualità in grado di reinventare la cinecriminalità
italiana, trasportando sul grande schermo l’irruenza ritmica della
migliore fiction e trascinando lo spettatore, con tecnica di rara
maestria ma sempre al servizio dell’emozione e dell’intensità
drammatica, nel melmoso abisso di un’Apocalisse che non salva niente e
nessuno. Un universo marcio e dai giorni contati nel quale Favino,
Germano e Amendola si superano letteralmente in prove attoriali da
applausi a scena aperta, peraltro affiancati da impressionanti
interpreti della nuova generazione quali Alessandro Borghi, Giacomo
Ferrara, Giulia Elettra Gorietti e, soprattutto, Greta Scarano, che con
la sua Viola dà vita a un personaggio indomito e tormentato capace di
riparare i torti subiti con una vendicatività tanto furente quanto
inesorabile. Una guerra senza quartiere e senza esclusione di colpi,
infine, irrobustita dalle sonorità dream pop e shoegaze degli M83. Se si
sta al gioco, insomma, ci si gode lo spettacolo di questa accattivante
“Settimana dell’Apocalisse” con voluttuosa e più che soddisfacente
adesione.
Un
terzo atteggiamento, puramente ipotetico ma verosimilmente più
interessante dei due sopra sbozzati, si lascia infine sollecitare (e
solleticare) dalla massiccia presenza di segnali necrotici che, in
maniera più o meno deliberata, costellano il corpo e i corpi di Suburra.
Una fitta serie di ferite mortali inferte sul tessuto filmico che,
colpendo senza pietà i corpi depositari di tradizioni cinematografiche e
pratiche consolidate dell’audiovisivo, fanno piazza pulita delle
concezioni incarnate da questi ectoplasmi in carne e celluloide. Si
tratta di una lettura sintomatica che, praticando una sorta di
necroscopia sulla salma Suburra, rileva una lunga lista
di cadaveri eccellenti. Innanzitutto il cinema italiano dagli anni ’80
in poi, sacrificato nella doppia eliminazione di Antonello Fassari e
Claudio Amendola: il primo suicida poiché incapace di comunicare col
figlio Sebastiano/Germano (il dialogo tra i due è un campionario di
incomprensioni più che un passaggio di testimone: “È stato uno sbaglio
farti venire qui”, sussurra rassegnato Fassari), il secondo giustiziato
con determinazione punitiva da Viola/Scarano, che liquida il tentativo
di patteggiare in extremis del Samurai, palese residuo di una
cinecriminalità ormai normalizzata, con un sarcastico “La prossima
volta!”. Altro cadavere: le serie televisive, freddate con l’esecuzione
di Numero 8/Borghi da parte di quello stesso cinema, il
Samurai/Amendola, che soccomberà davanti all’unica sopravvissuta di
questa ecatombe cinematografica. Il regolamento di conti non risparmia
il cinema italiano contemporaneo, esemplarmente rappresentato dal
binomio Favino/Germano: un cinema lasciato in vita soltanto formalmente
ma severamente offeso sia sotto il profilo fisico (nell’impietosa e
brutale animalità di Filippo Malgradi e nella repellente viscidità di
Sebastiano) che sotto quello morale (Favino puttaniere strafatto e
politico senza scrupoli, il giovane favoloso Germano convertito alle
delizie del lenocinio e della delazione). Un bodycount cinematografico
che, avvolto nel sudario di una recitazione smaccatamente necrofila e
marionettistica, fa di Suburra uno slasher sotto
mentite spoglie: Viola, finalmente trasfigurata in eroina da graphic
novel, esce dall’inquadratura lasciando dietro di sé il vuoto, irrorato
di pioggia e sangue.
Un ringraziamento a Elisa Schiavi per il suggerimento della terza chiave di lettura.
Pubblicata su www.spietati.it.
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