mercoledì 21 ottobre 2015

SUBURRA

“Nell’antica Roma, la Suburra era il quartiere dove il potere e la criminalità segretamente si incontravano. Dopo oltre duemila anni, quel luogo esiste ancora. Perché oggi, forse più di allora, Roma è la città del potere: quello dei grandi palazzi della politica, delle stanze affrescate e cariche di spiritualità del Vaticano e quello, infine, della strada, dove la criminalità continua da sempre a cercare la via più diretta per imporre a tutti la propria legge. Il film è la storia di una grande speculazione edilizia, il Water-front, che trasformerà il litorale romano in una nuova Las Vegas. Per realizzarla servirà l’appoggio di Filippo Malgradi (Pierfrancesco Favino), politico corrotto e invischiato fino al collo con la malavita, di Numero 8 (Alessandro Borghi), capo di una potentissima famiglia che gestisce il territorio e, soprattutto, di Samurai (Claudio Amendola), il più temuto rappresentante della criminalità romana e ultimo componente della Banda della Magliana. Ma a generare un inarrestabile effetto domino capace di inceppare definitivamente questo meccanismo saranno, in realtà, dei personaggi che vivono ai margini dei giochi di potere come Sebastiano (Elio Germano), un PR viscido e senza scrupoli, Sabrina un’avvenente escort (Giulia Elettra Gorietti), Viola (Greta Scarano) la fidanzata tossicodipendente di Numero 8 e Manfredi (Adamo Dionisi) il capoclan di una pericolosa famiglia di zingari.” (dal presskit). 

Esistono almeno due modi di considerare Suburra: il primo - che rispecchia in maniera ragionevolmente fedele l’atteggiamento di chi scrive - consiste nel rimanere sostanzialmente indifferenti al cinema squadernato dal film: cinema bullo e romanocentrico, roboante e pieno zeppo di facce note, sempre uguale a se stesso perché sempre un po’ diverso. Un cinema che mette in scena lo spettacolo della morte ma perfettamente al riparo dalla morte dello spettacolo. Un cinema che racconta il racconto della corruzione pretendendo di raccontare la corruzione stessa. Cinema della mistificazione sistematica, della simulazione invulnerabile: anziché rielaborare la tragedia in narrazione, la spettacolarizza compiacendosi del proprio segno da farsa grottesca. Un cinema in cui ogni elemento è assoggettato e docilmente obbediente al primato della convenzione e della resa effettistica: celebrazione impeccabile di una credibilità esclusivamente stereotipata e caricaturale. Cinema dell’overacting anche quando - soprattutto quando - la recitazione assume pose trattenute e interiorizzate (vedasi Amendola). Cinema del dialetto capitolino come indice di veracità, cinema che scimmiotta modelli americani (Scorsese, Mann, Il cattivo tenente di Abel Ferrara) assimilando stilemi seriali e scaraventandoli in un’impaginazione da graphic novel. Cinema di dialoghi fieramente folkloristici, musiche di rinforzo e montaggi alternati di inossidabile dualismo (carezza e bacio al figlio dormiente, incatenamento e lancio del cadavere zavorrato). Cinema totalmente innocuo, infine, perché lascia lo spettatore esattamente dove e come si trovava prima di essere sequestrato per 130’. Risultato? L'indifferenza più imperturbabile. Questo l’atteggiamento di chi non accetta le regole del gioco postulate dal film di Stefano Sollima.

Il secondo modo, legittimo quanto il primo e forte degli stessi titoli di nobiltà (la facoltà di incanaglirsi liberamente è garantita dalla carta dei diritti dello spettatore), risiede nell’accettare più o meno consapevolmente le regole del gioco - altri le chiamerebbero senza esitazioni regole di genere - e godersi lo spettacolo sontuosamente allestito da Sollima, Petraglia, Rulli, Bonini e De Cataldo, abilmente spalleggiati dalla poderosa fotografia di Paolo Carnera (illuminazione e cromatismi di indiscutibile virtuosismo), dalle certosine scenografie di Paki Meduri (dall’emiciclo parlamentare alle stanze vaticane, passando per ville al neon o arredi sfarzosamente eclettici) e dal montaggio incalzante di Patrizio Marone (l’orchestrazione visiva della sparatoria nel supermercato, l’implacabilità della carneficina nelle baracche dei pescatori). Un atteggiamento, questo, che vedrà plausibilmente inverarsi in Suburra un affresco nero di sconcertante attualità in grado di reinventare la cinecriminalità italiana, trasportando sul grande schermo l’irruenza ritmica della migliore fiction e trascinando lo spettatore, con tecnica di rara maestria ma sempre al servizio dell’emozione e dell’intensità drammatica, nel melmoso abisso di un’Apocalisse che non salva niente e nessuno. Un universo marcio e dai giorni contati nel quale Favino, Germano e Amendola si superano letteralmente in prove attoriali da applausi a scena aperta, peraltro affiancati da impressionanti interpreti della nuova generazione quali Alessandro Borghi, Giacomo Ferrara, Giulia Elettra Gorietti e, soprattutto, Greta Scarano, che con la sua Viola dà vita a un personaggio indomito e tormentato capace di riparare i torti subiti con una vendicatività tanto furente quanto inesorabile. Una guerra senza quartiere e senza esclusione di colpi, infine, irrobustita dalle sonorità dream pop e shoegaze degli M83. Se si sta al gioco, insomma, ci si gode lo spettacolo di questa accattivante “Settimana dell’Apocalisse” con voluttuosa e più che soddisfacente adesione.

Un terzo atteggiamento, puramente ipotetico ma verosimilmente più interessante dei due sopra sbozzati, si lascia infine sollecitare (e solleticare) dalla massiccia presenza di segnali necrotici che, in maniera più o meno deliberata, costellano il corpo e i corpi di Suburra. Una fitta serie di ferite mortali inferte sul tessuto filmico che, colpendo senza pietà i corpi depositari di tradizioni cinematografiche e pratiche consolidate dell’audiovisivo, fanno piazza pulita delle concezioni incarnate da questi ectoplasmi in carne e celluloide. Si tratta di una lettura sintomatica che, praticando una sorta di necroscopia sulla salma Suburra, rileva una lunga lista di cadaveri eccellenti. Innanzitutto il cinema italiano dagli anni ’80 in poi, sacrificato nella doppia eliminazione di Antonello Fassari e Claudio Amendola: il primo suicida poiché incapace di comunicare col figlio Sebastiano/Germano (il dialogo tra i due è un campionario di incomprensioni più che un passaggio di testimone: “È stato uno sbaglio farti venire qui”, sussurra rassegnato Fassari), il secondo giustiziato con determinazione punitiva da Viola/Scarano, che liquida il tentativo di patteggiare in extremis del Samurai, palese residuo di una cinecriminalità ormai normalizzata, con un sarcastico “La prossima volta!”. Altro cadavere: le serie televisive, freddate con l’esecuzione di Numero 8/Borghi da parte di quello stesso cinema, il Samurai/Amendola, che soccomberà davanti all’unica sopravvissuta di questa ecatombe cinematografica. Il regolamento di conti non risparmia il cinema italiano contemporaneo, esemplarmente rappresentato dal binomio Favino/Germano: un cinema lasciato in vita soltanto formalmente ma severamente offeso sia sotto il profilo fisico (nell’impietosa e brutale animalità di Filippo Malgradi e nella repellente viscidità di Sebastiano) che sotto quello morale (Favino puttaniere strafatto e politico senza scrupoli, il giovane favoloso Germano convertito alle delizie del lenocinio e della delazione). Un bodycount cinematografico che, avvolto nel sudario di una recitazione smaccatamente necrofila e marionettistica, fa di Suburra uno slasher sotto mentite spoglie: Viola, finalmente trasfigurata in eroina da graphic novel, esce dall’inquadratura lasciando dietro di sé il vuoto, irrorato di pioggia e sangue.

Un ringraziamento a Elisa Schiavi per il suggerimento della terza chiave di lettura.

Pubblicata su www.spietati.it.

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