Il ministro dei trasporti Bertrand Saint-Jean viene svegliato in piena
notte dal suo capo di Gabinetto. Un pullman è precipitatao in un
burrone. Non ha scelta, deve recarsi sul posto. Comincia così l'odissea
di un uomo di Stato in un mondo sempre più complesso e ostile. Velocità,
lotte di classe, caos, crisi economica... Tutto si incatena e si
scontra. Un'urgenza via l'altra. A quali sacrifici sono pronti gli
uomini? Fino a che punto resisteranno? Lo Stato divora coloro che lo
servono (dal pressbook).
Stato
Leviatano, ovviamente: entità sovrana cui assoggettarsi e sacrificare
gli appetiti personali, giacché, come sentenzia Hobbes, “I patti senza
la spada sono solo parole”. Occorre forse evocare l’ambiguità del
termine “soggetto” come libero agente e soggezione al potere? Non è
affatto fortuito che L'Exercice de l'État, personalizzato in italiano col titolo Il ministro - L’esercizio dello stato
si apra con una sequenza onirica che ritrae una figura femminile
completamente nuda darsi voluttuosamente in pasto a un gigantesco
coccodrillo (conviene ricordare che una delle forme attribuite alla
mostruosa creatura biblica è proprio il coccodrillo). Se la donna
(Brigitte Lo Cicero), incarnazione della Repubblica e avvenente
personificazione del corpo sociale, divarica le gambe, il rettile
spalanca le fauci invitandola a entrare nella sua bocca. Il senso,
almeno per chi scrive, è fin troppo evidente: lo Stato fagocita ogni
desiderio e la conseguente erezione del ministro Saint-Jean (Olivier
Gourmet) non fa che ribadire la chiave di lettura. La sua eccitazione
notturna non è scatenata dalla semplice nudità femminile, ma dalla
fantasia di divorare, dall’insaziabile famelicità del potere. Già,
perché L'Exercice de l'État, secondo capitolo di una trilogia iniziata con Versailles
(2009), è né più né meno che un film sul potere, sui suoi grotteschi
cerimoniali, sulla sua libido frenetica e indifferenziata (non è dato
conoscere l’orientamento del governo: l’aurea necessità dell’apparato
trascende ogni determinazione politica).
La variazione di prospettiva rispetto al film precedente propone e impone un netto stravolgimento del punto di vista: se Versailles,
dramma nomade con vertiginosi abissi di pietismo, si calava
nell’impasse degli esclusi per raffigurare la società francese vista dai
marciapiedi e dalle baracche (prima inquadratura: una panoramica
dall’alto verso il basso), Il ministro - L’esercizio dello stato
si solleva dal pauperismo cinematografico per cogliere l’imperiosa
ritualità del potere, osservata tanto nella sua imperturbabile fissità
(le scene riservate a Gilles/Michel Blanc, il capo di Gabinetto) quanto
nella sua tumultuosa attività sul campo (le sequenze dei fulminei
sopralluoghi del ministro dei trasporti). E in questa abolizione del
partito preso risiede il maggior punto di forza del film: pur settata su
parametri vagamente calligrafici, la modulazione dei registri visivi
(stilizzazione, accelerazione, ibridazione mediatica, solennità)
restituisce con innegabile perspicuità i lineamenti di un mondo dominato
dall’ossessione della manipolazione e del presenzialismo. Agire
rapidamente, piegare a proprio vantaggio le trasformazioni in atto,
consolidare la propria posizione: sono queste le parole d’ordine
dell’esercizio del potere. E quando la strategia si rivela
insufficiente, occorre affidarsi all’intuito, alla percezione: “Nella
comunicazione di crisi la realtà non conta, non c’è che la percezione a
valere”, tuona il ministro dei trasporti al suo sbigottito entourage.
Precipitato di una concezione cinematografica sostanzialmente illustrativa, L'Exercice de l'État
si trova tuttavia confinato nel recinto della chiarezza espositiva,
della messaggistica filmica. Scrutare gli sferraglianti ingranaggi
dell’amministrazione statale, svelare la struttura gerarchica che
condiziona la condotta governativa (attenzione: il protagonista occulto
del film è Matignon, la sede del primo ministro), mettere a nudo la
funzione direttiva del Gabinetto ministeriale (il cui capo, Gilles, si
nutre segretamente dell’oratoria di Malraux): il film di Pierre
Schoeller è interamente consacrato alla logica dimostrativa, alla
meticolosa rappresentazione dell’organigramma. Non conta che questa
anatomia del potere finisca per produrre una sensazione labirintica, il
metodo che la genera resta inconfondibilmente epidittico. Sicché
all’appello non può mancare il personaggio incaricato di simboleggiare
l’uomo comune, il cittadino volitivo e sfortunato, epitome della
diffidenza nei confronti della politica. Interpretato dal non
professionista Sylvain Deblé, l’autista Kuypers rispecchia il volto
taciturno del popolo che presta i suoi servigi a un’autorità invadente
(la cena nella roulotte con Josepha) e categoricamente fatale (l’ordine
impartito da Saint-Jean all’imbocco dell’autostrada non ancora aperta al
traffico). Un’autorità che vive di frasi a effetto (“E noi saremo delle
tigri affamate nella nera notte”, recita il ministro a se stesso) ed
esteriorizzazioni compulsive (l’orazione funebre sussurrata in chiesa).
Tutto già noto e con un retrogusto di cinema nato morto, certo, ma si
tratta di un funerale sfarzosamente, grottescamente allestito. Per i
premi assegnati rivolgersi altrove.
Pubblicata su www.spietati.it.
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