lunedì 16 gennaio 2012

Día de los muertos

Kent Harrington, Día de los muertos (1997), Meridiano zero, 2000, pp.207, € 14,00

In Messico il 2 novembre non è un giorno come gli altri: si festeggia il Día de los Muertos, la più sentita delle celebrazioni pagane e la seconda festa per importanza nel paese. Ma anche per Vincent Calhoun, ufficiale della DEA a Tijuana, non è un giorno come gli altri: il suo complice nel trasporto illegale di uomini negli USA Miguel Castro, capitano dei judiciales (la polizia federale messicana), ha organizzato tre consegne, una al mattino, una nel tardo pomeriggio e una alla sera. Troppe anche per un giorno caotico e difficilmente controllabile come quello dei Morti. Inoltre, ironia della sorte, davanti agli occhi increduli di Calhoun si materializza Celeste Stone, appena rilasciata dalla prigione di Rio Sangre e scaricata da un furgone cellulare in Plaza Tijuana. È lei, giovane e di una femminilità irresistibile, la causa delle sue sventure. Eppure Calhoun ne è ancora attratto, inesorabilmente.

Chi è Vincent Calhoun, protagonista indiscusso di Día de los muertos? Un poliziotto senza scrupoli che sfrutta il grado di ufficiale della Drug Enforcement Agency per trasportare clandestinamente uomini dall’altra parte del confine o un romantico avventuriero che non esita un istante ad aiutare i più vulnerabili? Un giocatore incallito e inconsapevolmente autolesionista o un uomo fermamente intenzionato a rifarsi una vita con Celeste Stone, la donna che dieci anni prima ha compromesso la sua carriera di insegnante di spagnolo nel liceo di Palmdale? Un americano irrimediabilmente omofobo o un gringo irreversibilmente infettato dal virus della pazzia messicana? Calhoun è contraddizione: eccesso di vitalità e attrazione per il vuoto. La dengue - la febbre spaccaossa - gli provoca percezioni discinetiche, lo fa delirare. Gli infuocati pomeriggi di Tijuana lo terrorizzano, lo fanno sentire troppo vivo. È la notte che viene a salvarlo, a cancellare quella scomoda sensazione.

Come tutti i grandi noir, Día de los muertos corteggia l’incoerenza, celebra l’ambiguità, getta sgradevolezza sui personaggi senza sommergerli integralmente (Frank Guzman, miliardario morbosamente obeso trasportabile solo con l’ausilio di un carrello per frigoriferi che, “per essere un miliardario”, è “uno a posto”). E come tutti i grandi noir non parla soltanto del destino di un uomo (le continue ruminazioni mentali di Calhoun sulla suerte), ma abbraccia un orizzonte spaziale e temporale che spalanca ben più vasti scenari economici e politici (la crisi della valuta, la rapida ascesa del Partido Fascista Nacional): “Due mesi prima il peso era crollato. […] Tutte le città di confine erano in preda all’isteria. Era quell’isteria tipicamente maschile che le nazioni e i dirigenti medi hanno nei momenti critici: diventano molto quieti e brutali prima di esplodere con testosterone e sangue, e allora accadono cose insensate, nessuna delle quali positiva”.

Un’instabilità finanziaria e sociale che fomenta l’irrazionale e intollerante sentimento nazionalista ma che si inscrive nella persistenza degli sfarzosi segni dell’influenza americana, come quella che si respira nel Winner’s Circle, il vizioso locale del cinodromo di Caliente: “C’erano molti tocchi Anni Cinquanta: sculture in metallo di levrieri alle pareti, e le bibite in bicchieri decorati con disegni a rombi neri e oro. In Messico gli Anni Cinquanta non erano mai morti. Marilyn Monroe non era mai morta. Il machismo non era mai morto”. In questo teatro sempre più eccitato e inebriato dalla festa incipiente, entrano in scena personaggi improbabili e figure spaventosamente incisive: non solo Paloma Vasco, amante di Celeste e paragonata a una ragazza disegnata da Vargas, o il già menzionato Frank Guzman, potente caduto in disgrazia e ricercato da tutti i poliziotti di Tijuana, ma anche l’inglese Slaughter, principale committente e usuraio di Calhoun, o il dottor Hughes, “noto pederasta anche secondo i bassi standard di Tijuana”.

In ventisette capitoli rigorosamente introdotti da didascalie che indicano ore e luoghi, Kent Harrington squaderna una narrazione di infallibile precisione nella scansione degli eventi e nella descrizione degli ambienti, orchestrando un crescendo che nelle ultime quaranta pagine degenera in autentico pandemonio. L’intera città è messa a soqquadro da una rivolta che cambia improvvisamente le carte in tavola e amplifica la frenesia ubriaca di una festa che impazza incurante della sommossa. Spigliatamente tradotta da Katia Bagnoli, la scrittura di Harrington, pullulante di ispanismi, ha il suo baricentro in Calhoun: pur essendo declinato in terza persona e dialettizzandosi spesso in dialoghi ad alto tasso di strafottenza, il dettato narrativo passa attraverso le sensazioni del protagonista, assumendo episodicamente le febbrili movenze del delirio in soggettiva: “Ho un topo dentro. Mi sono trasformato quasi completamente in un topo. Ecco cosa sono, un topo peloso e sudicio e terrorizzato dalla luce del giorno”. Leggere Día de los muertos è come guardare un film magistralmente diretto da John Huston, ma sarcasticamente sceneggiato dai fratelli Coen.

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