C’era una volta un giovane principe che fu inviato dal proprio padre, il
re dell'Est, in Egitto per trovare una perla. Ma quando il principe
arrivò, gli abitanti del luogo gli versarono una coppa. Bevendola, egli
scordò di essere il figlio di un re, si dimenticò della perla e cadde in
un sonno profondo (traduzione dalla prima sinossi del film: “Once there
was a young prince whose father, the king of the East, sent him down
into Egypt to find a pearl. But when the prince arrived, the people
poured him a cup. Drinking it, he forgot he was the son of a king,
forgot about the pearl and fell into a deep sleep”).
Per un’introduzione ai motivi gnostici presenti nell’ultima produzione di Terrence Malick, si rimanda alle recensioni di The Tree of Life e To the Wonder,
nelle quali è delineato il sistema religioso di riferimento e sono
presi in considerazione alcuni risvolti della stessa impronta
tradizionale (il movimento gnostico ebbe la sua massima diffusione nei
primi secoli del cristianesimo). Detto altrimenti, la lettura della
seguente trattazione non può prescindere da ciò che è stato sviluppato
nelle precedenti riflessioni su The Tree of Life e To the Wonder,
di cui rappresenta un ulteriore e più approfondito sviluppo. Sebbene
l’impianto degli ultimi tre film di Malick (ai quali, in virtù di
segnali e affinità meno evidenti, si potrebbero aggregare anche The New World e La sottile linea rossa)
sia contraddistinto da un libero arrangiamento sincretistico, non
tenere conto della componente riconducibile al pensiero gnostico
impedirebbe, secondo chi scrive, di coglierne il tratto più consistente,
ingenerando plateali malintesi (accuse di estetizzante vaniloquio
ermetico) o sviste colossali (disinvolte attribuzioni ai più svariati
sistemi dottrinali). Non sorprende dunque che la prima locandina
ufficiale del film (riportata a fianco) raffiguri L’albero dell’anima
del tedesco Dionysius Andreas Freher (1649-1728), mistico cristiano
saldamente legato all’opera di Jacob Böhme (1575-1624), figura
ampiamente associata alla tradizione gnostica. Chi scrive, consapevole
del grado di arbitrarietà e opinabilità che essa presenta, rivendica
infine la paternità di questa chiave di lettura, elaborata alcuni anni
fa durante una revisione di The Thin Red Line e consolidata nel 2011 durante la visione di The Tree of Life.
Allegorie: dal Pellegrinaggio del cristiano all’Inno della Perla
Il viaggio del pellegrino da questo mondo a quello venturo presentato in forma di sogno: posta all’inizio del film e recitata dalla voce narrante di John Gielgud, la citazione dell’opera The Pilgrim’s Progress from This World to That Which Is to Come Delivered under the Similitude of a Dream (1678) di John Bunyan mette subito le cose in chiaro, dicendoci esplicitamente che quella raccontata da Knight of Cups
non sarà altro che una gigantesca allegoria, la storia di un viaggio
emblematico sotto forma di immagini raffiguranti la condizione
dell’essere umano costretto a errare su questa terra in un pericoloso
pellegrinaggio. Tuttavia non si tratta di un’allegoria generica e
intercambiabile con qualsiasi altra vicenda simbolica, si tratta
precisamente e quasi letteralmente dell’oggettivazione cinematografica
di un testo gnostico del III secolo: l’Inno della Perla. Nella recensione di To the Wonder,
si era già accennato a questo testo esemplare della tradizione
gnostica, ma in quel caso il riferimento possedeva un significato
ironico e sostanzialmente inconcludente, poiché l’aquila incaricata di
recare il messaggio di risveglio e ricordo delle origini regali non
produceva alcun effetto sull’atteggiamento di Marina/Olga Kurylenko.
Con Knight of Cups,
invece, siamo in presenza di una vera e propria traduzione in immagini
(ovviamente libera, rapsodica e parziale) dell’Inno, la prima parte del
quale è stata addirittura utilizzata, in forma sintetica, quale sinossi
del film stesso. Mette conto riportare questa parte dell’Inno per
facilitare il confronto tra il testo gnostico e la prima trama ufficiale
del film (in seguito ne è stata rilasciata un’altra più convenzionale):
“Quando ero bambino e abitavo nel regno della casa di mio Padre e mi
dilettavo della ricchezza e dello splendore di coloro che mi avevano
allevato, i miei genitori mi mandarono dall’oriente, nostra patria, con
le provviste per il viaggio. Delle ricchezze della nostra casa fecero un
carico per me: esso era grande, eppure leggero, in modo che potessi
portarlo da solo... Mi tolsero il vestito di gloria che nel loro amore
avevano fatto per me, e il manto di porpora che era stato tessuto in
modo che si adattasse perfettamente alla mia persona, e fecero un patto
con me e lo scrissero nel mio cuore perché non lo potessi scordare:
‘Quando andrai in Egitto e ne riporterai l’Unica Perla che giace in
mezzo al mare, accerchiata dal serpente sibilante, indosserai di nuovo
il tuo vestito di gloria e il manto sopra di esso, e con tuo fratello,
prossimo a noi in dignità, sii erede nel nostro regno’. Lasciai
l’Oriente e m’avviai alla discesa, accompagnato da due messi reali,
poiché il cammino era pericoloso e difficile ed io ero troppo giovane
per un tale viaggio; oltrepassai i confini di Maishan, punto d’incontro
dei mercanti dell'Oriente, giunsi nella terra di Babel ed entrai nelle
mura di Sarburg. Scesi in Egitto e i miei compagni mi lasciarono. Mi
diressi deciso al serpente e mi stabilii vicino alla sua dimora in
attesa che si riposasse e dormisse per potergli prendere la Perla.
Poiché ero solo e me ne stavo in disparte, ero forestiero per gli
abitanti dell’albergo. […]. Tuttavia mi vestii con i loro abiti, perché
non sospettassero di me, che ero venuto da fuori per prendere la Perla, e
non risvegliassero il serpente contro di me. Ma in qualche modo si
accorsero che non ero uno di loro e cercarono di rendersi graditi a me;
mi mescerono nella loro astuzia [una bevanda], e mi dettero da mangiare
della loro carne; e io dimenticai che ero figlio di re e servii il loro
re. Io dimenticai la Perla per la quale i miei genitori mi avevano
mandato. Per la pesantezza del loro cibo caddi in un sonno profondo.”
(traduzione di Hans Jonas basata specialmente sul testo siriaco).
Nei
primi minuti del film assistiamo inoltre a un’autentica illustrazione
dell’Inno: dopo i titoli di testa, accompagnati dalla declamazione del
titolo esteso e dell’incipit dell’opera di John Bunyan, vediamo l’arrivo
sulla terra del protagonista Rick (Christian Bale). In termini
allegorici, si tratta della sua discesa verso l’Egitto, regione che
nella letteratura gnostica rappresenta a tutti gli effetti il mondo
materiale. Hans Jonas, nel suo studio intitolato Lo gnosticismo
(SEI, Torino 1991), commenta così il motivo simbolico dell’Egitto
presente nel testo gnostico: “L’Egitto come simbolo del mondo materiale è
molto comune nello gnosticismo (e fuori di esso). La storia biblica
della schiavitù e della liberazione d’Israele si prestava magnificamente
a quel tipo d’interpretazione spirituale che piaceva agli Gnostici. Ma
la storia biblica non è l’unico riferimento che vedeva l’Egitto nella
sua funzione allegorica. Fin dai tempi antichi l’Egitto era stato
considerato come la sede del culto dei morti e perciò il regno della
Morte; questo ed altri aspetti della religione egiziana, quali i suoi
dèi con la testa di bestia e la grande parte che vi aveva la magia,
ispirarono agli Ebrei e più tardi ai Persiani un particolare orrore e li
portarono a considerare l’«Egitto» come la personificazione di un
principio demoniaco. Gli Gnostici allora si valsero di questa concezione
per fare dell’Egitto un simbolo di «questo mondo», cioè il mondo della
materia, dell’ignoranza e di una religione perversa: «Tutti gli
ignoranti [ossia coloro che sono privi di gnosi] sono ‘Egiziani’»,
afferma un detto peratico citato da Ippolito.” (p.119).
In
queste prime inquadrature siamo ancora in una fase transitoria: le
vedute della terra osservata da altezze celesti, seguite da immagini di
un’infanzia all’insegna della levità e della luminosità, introducono
alla voce narrante del padre che recita, parafrasandolo, il testo
dell’Inno: “Ricordi la storia che ti raccontavo quand’eri piccolo?
Quella di un giovane principe, un cavaliere, che fu mandato da suo
padre, Re dell’Oriente, a occidente, in Egitto per trovare una perla.
Una perla proveniente dagli abissi del mare”. È esattamente in questo
momento, in concomitanza col riferimento alle profondità del mare, che
la camera si immerge letteralmente nelle onde marine con l’obiettivo
puntato verso la superficie illuminata dal sole, l’inquadratura
successiva mostrando Rick immerso nell’acqua sullo sfondo e in primo
piano le due ragazze giapponesi con le quali si sta dirigendo in
macchina a una festa sulla terrazza di un grattacielo. Lungi dall’essere
un espediente bizzarro ed estetizzante, l’immersione nell’acqua
possiede una funzione ben definita, quella di raffigurare l’ingresso
definitivo nel mondo della materia e della corruzione (nel corso del
film vedremo altre figure precipitare letteralmente nell’universo
narrativo con un tuffo nell’acqua). Questo un eloquente frammento del
commento di Hans Jonas al passaggio del Canto della Perla dedicato alle
acque : “Il “mare” o le “acque” sono un simbolo gnostico fisso per il
mondo della materia o delle tenebre nel quale è immerso il divino. […] I
Perati interpretavano il Mar Rosso, che doveva essere attraversato
andando o tornando dall’Egitto, come «l’acqua della corruzione» e lo
identificavano con Kronos, cioè il «tempo» e il «divenire».” (p.119).
L’immersione nell’acqua indica dunque, in questo frangente come in altri
momenti del film, l’immersione nel mondo materiale e il passaggio
attraverso stati mentali progressivi che scandiscono l’itinerario
spirituale di trasformazione dell’interiorità.
L’illustrazione
del Canto della Perla prosegue per l’intera durata della festa: alle
parole “Ma quando il principe arrivò, gli offrirono una coppa che gli
fece dimenticare tutto” vediamo Rick abbracciato dalle due ragazze
giapponesi che gli fanno bere un bicchiere dopo l’altro. Immagini di
stordimento e abbandono alcolico di Rick scandiscono il seguito del
racconto: “Dimenticò di essere il figlio del re. Si dimenticò della
perla. E cadde in un sonno profondo”. “Il re, però, non aveva
dimenticato suo figlio. Continuò a mandare lettere, messaggeri, guide”,
prosegue la voce narrante, mentre la festa volge al termine e Rick si
aggira solitario negli spazi del grattacielo. Il racconto paterno si
chiude su queste parole: “Ma il principe continuava a dormire”,
preparando la sequenza successiva nella quale un terremoto, anticipato
dal frullare delle ali di un uccello, sveglia Rick costringendolo a
uscire di casa (la stessa abitazione che vedremo deserta nel finale) e
scendere per strada, procurandogli per la prima volta quella sensazione
di spaesamento che lo accompagnerà per gran parte del film. Non è
soltanto la terra a tremare, ma anche e soprattutto la sua coscienza:
l’evento sismico produce un primo cambiamento in Rick, causandogli
smarrimento e facendogli perdere interesse nelle cose del mondo. È
l’inizio di un processo che, tappa dopo tappa, lo condurrà alla
liberazione completa dai vincoli materiali nel capitolo finale
emblematicamente intitolato Libertà. A proposito del risveglio,
Jonas osserva: “Pertanto, il primo effetto della chiamata è sempre
descritto come «risveglio» (…). Spesso l’esortazione semplicemente
formale: «Svegliati dal sonno» (o «dall’ebbrezza», o meno frequentemente
«dalla morte»), con elaborazione metaforica e con frasario differente,
costituisce il solo contenuto del richiamo gnostico alla salvezza.
Tuttavia questo imperativo formale racchiude implicitamente tutto lo
schema speculativo nel’'ambito del quale le idee di sonno, ebbrezza,
risveglio, assumono il loro significato specifico; e di regola la
chiamata rende esplicito tale schema come parte del suo contenuto, cioè
collega il comando del risveglio con i seguenti elementi dottrinali: il
“ricordo” dell’origine celeste e della storia trascendente dell’uomo; la
“promessa” della redenzione, in cui è compresa anche la ragione della
missione del redentore e della sua discesa nel mondo; e infine
l’“istruzione” pratica sul come vivere d’ora in avanti nel mondo, in
conformità della «conoscenza» recentemente acquisita e in preparazione
dell’eventuale ascesa”. (pp.85-86).
Dualismo e salvezza
Jonas
definisce lo gnosticismo “religione dualistica trascendente di
salvezza” (p.44): il dualismo risiede nella recisa e inconciliabile
opposizione tra tenebroso mondo materiale e luminoso principio divino,
tra il binomio carne-anima (quest’ultima non essendo altro che un
ulteriore rivestimento concepito dalle maligne potenze cosmiche) e
l’elemento spirituale o “pneuma” che risiede, come scintilla perduta,
nell’interiorità più recondita dell’individuo (alcune correnti gnostiche
dividevano l’umanità in tre categorie di rango discendente: pneumatici,
psichici e sarchici o carnali). Ancora Jonas: “Il Dio gnostico non è
semplicemente estramondano e sopramondano, ma nel suo significato ultimo
contromondano. L’unità sublime del cosmo e di Dio è spezzata, i due
vengono separati e si apre tra di essi un abisso che non sarà mai
completamente colmato: Dio e il mondo, Dio e la natura, spirito e
natura, fanno divorzio, estranei l’uno all’altro, persino contrari. Ma
se questi due sono estranei l’uno all’altro, allora anche l’uomo e il
mondo sono estranei l’uno all’altro, e questo in termini di sentimento è
molto probabilmente il fatto primario. C’è una fondamentale esperienza
di una frattura assoluta tra l’uomo e ciò in cui si trova situato, il
mondo. […] Codesta impostazione dualistica è alla base di tutto
l’atteggiamento gnostico e unifica le espressioni grandemente diverse,
più o meno sistematiche, che quell’atteggiamento assunse nel rituale e
nella fede gnostica” (p.234). Dio e mondo da una parte e uomo e mondo
dall’altra si trovano in questo modo nettamente e irriducibilmente
contrapposti: gli appetiti e le seduzioni dei sensi così come le leggi
morali e l’etica terrena altro non sono che stratagemmi escogitati dal
potere demiurgico e dagli arconti (i governanti al suo servizio,
guardiani della prigione cosmica) per tiranneggiare e tenere sotto
scacco gli uomini: “Come il mondo è ciò che aliena da Dio, così Dio è
ciò che aliena e libera dal mondo” (p.235), oppure “Il Dio gnostico, in
quanto distinto dal demiurgo, è il totalmente differente, l’altro, lo
sconosciuto. In lui l’assoluto che è al di là trasparisce attraverso gli
involucri cosmici che lo racchiudono” (p.253).
Se
il dualismo configura questa frattura insanabile, la prospettiva di
salvezza conduce a una presa di posizione altrettanto radicale nei
confronti del mondo terreno e delle sue leggi. La salvezza,
invariabilmente vincolata al riconoscimento dell’elemento pneumatico che
risiede nel soggetto e ne costituisce il vero sé, consiste proprio nel
conoscere con mezzi spirituali la propria origine divina e dirigere
tutte le energie a disposizione nel mantenimento di tale consapevolezza,
disinteressandosi sistematicamente di tutto ciò che ostacola questa
verità trascendente: “Per gli Gnostici, «guardare a Dio» significa (…)
saltare al di là delle realtà interposte, che per questa diretta
relazione non sono altro che legami ed ostacoli, o tentazioni che
distraggono, o, tutt’al più, realtà irrilevanti. La somma di queste
realtà interposte è il mondo, compreso il mondo sociale. L’interesse
eminente per la salvezza, l’occuparsi esclusivamente del destino dell’io
trascendentale, «snatura», per così dire, tali realtà e distacca il
cuore da esse quando è inevitabile occuparsene” (p.250). Ebbene, gli
otto capitoli di Knight of Cups non fanno altro che
raccontare questo distacco dal mondo sociale e questo superamento delle
realtà interposte tra il principio divino e l’elemento pneumatico di
Rick, in un processo associato agli arcani maggiori - non privo di
ostacoli - che muove dalla Luna alla Libertà (unico capitolo il cui titolo non corrisponde a una carta dei tarocchi), passando per L’Appeso, L’Eremita, il Giudizio, La Torre, La Papessa e la Morte. Ogni capitolo coincide piuttosto chiaramente con un incontro e un commiato. La Luna:
incontro con Della (Imogen Poots), che rimprovera Rick di non volere
l’amore ma solo un’esperienza d’amore, e separazione improvvisa; L’Appeso:
incontro col fratello Barry (Wes Bentley) e il padre Joseph (Brian
Dennehy), entrambi accecati da rabbia e sensi di colpa, e graduale
distacco (torneranno brevemente, sempre più collerici e inquieti, tanto
nel quinto capitolo La Torre quanto nel settimo Morte); Giudizio:
incontro con l’ex moglie Nancy (Cate Blanchett), che gli rinfaccia di
essere stato sempre più assorbito dal mondo, nuova separazione e così
via.
Visioni di unità e frammentazione dell’io, lo straniero e il salvatore salvato
Il
crescente disinteresse di Rick nei confronti dell'attività
professionale (quella di sceneggiatore hollywoodiano a un punto di
svolta) si manifesta con evidenza nel capitolo La Luna e si definisce ulteriormente in quello intitolato La Torre. È in questo capitolo, il quinto, che, mentre Rick vaga in macchina per le strade di Los Angeles, ascoltiamo Hyperborea: un brano tratto dall’album Substrata (1997) del musicista norvegese Biosphere (Geir Jenssen). Il brano ambient riporta quasi integralmente il racconto della visione del maggiore Garland Briggs (Don S. Davis) al figlio Bobby (Dana Ashbrook) nel primo episodio (Che il gigante sia con te) della seconda stagione di Twin Peaks:
"Parlo di una visione radiosa, chiara come un torrente di montagna,
dove l’anima può rivelare tutti i suoi segreti [“the mind revealing
itself to itself” nell’originale]. Nella mia visione mi trovavo sulla
veranda di una grande costruzione, un palazzo lussuoso di proporzioni
gigantesche, al suo interno sembrava di vedere una luce proveniente dai
riflessi del candido marmo. Conoscevo questo posto, era la casa dove
sono nato e cresciuto. Da tanto tempo non vi ritornavo, è stato come
ritrovare il senso profondo della mia stessa esistenza. Mi aggiravo per
le camere e notavo che tutto era rimasto come ai tempi della mia
giovinezza. A dire il vero c’erano più stanze di quante ne ricordassi,
ma disposte in modo da integrarsi perfettamente con la costruzione
originale, io stesso non riuscivo a cogliere la differenza. Mentre mi
dirigevo verso l’ingresso della casa, ho udito bussare alla porta, c’era
mio figlio dietro quella porta. Era spensierato, era felice come lo è
chi ha una vita da vivere in profonda armonia, con gioia. Ci siamo
abbracciati, un abbraccio caldo e affettuoso, ci eravamo ritrovati.
Eravamo una sola persona in quel momento, una sola. La visione era
finita e io mi sono svegliato con una straordinaria sensazione di
ottimismo e di totale fiducia in te e nel tuo futuro. Così ti vedo io,
figliolo. Sono tanto felice di aver avuto l’opportunità di parlarti di
questo. Io desidero solo di poterti aiutare in tutte le cose.”. Nel film
di Malick, il brano si interrompe dopo il riferimento alla luce che
sembra emanare dall’interno del marmo radioso e splendente, tuttavia il
frammento riportato è più che sufficiente non soltanto a stabilire una
connessione tra le due sequenze, ma soprattutto a suggerire l’affinità
di contenuto tra il racconto del maggiore Briggs e il componimento
gnostico che innerva Knight of Cups: entrambi parlano
di luminosi ritorni e riconciliazioni unificanti. Riconoscimento,
rispecchiamento e gioia nell’unità ritrovata tra padre e figlio. Questa
la parte finale dell’Inno (corsivo mio): “Trovai la lettera che mi aveva
ridestato davanti a me sul mio cammino; e come mi aveva svegliato con
la sua voce, ora mi guidava con la sua luce che brillava dinanzi a me; e
con la voce incoraggiava il mio timore e col suo amore mi traeva. E
andai avanti... I miei genitori... mandarono incontro a me a mezzo dei
loro tesorieri, a cui erano stati affidati, il vestito di gloria che
avevo tolto e il manto che doveva coprirlo. Avevo dimenticato il suo
splendore, avendolo lasciato da bambino in casa di mio Padre. Mentre ora
osservavo il vestito, mi sembrò che diventasse improvvisamente uno
specchio-immagine di me stesso: mi vidi tutto intero in esso ed esso
tutto vidi in me, cosicché eravamo due separati, eppure ancora uno per
l'uguaglianza della forma… […]. E con i suoi movimenti regali si
offerse tutto a me e dalle mani di quelli che lo portavano si affrettò
perché potessi prenderlo; e anch’io ero mosso dall'amore a correre verso
di esso per riceverlo. E mi protesi verso di lui, lo presi, e mi
avvolsi nella bellezza dei suoi colori. E gettai il manto regale intorno
a tutta la mia persona. Così rivestito, salii alla porta della
salvezza e dell’adorazione. Inchinai la testa e adorai lo splendore di
mio Padre che me lo aveva mandato, i cui comandi avevo adempiuto perché
anch'egli aveva mantenuto ciò che aveva promesso... Mi accolse
gioiosamente ed ero con lui nel suo regno, e tutti i suoi servitori lo
lodarono con voce di organo, cantando che egli aveva promesso che avrei
raggiunto la corte del Re dei Re e avendo portato la mia Perla sarei
apparso insieme a lui»." (p.117).
Quella
di Rick, insomma, è la tipica figura gnostica del "salvatore salvato":
il nobile uomo straniero (il principe proveniente dal regno orientale)
inviato in Egitto (il mondo terreno) per trovare la perla che giace
nelle profondità marine (la scintilla divina imprigionata nella realtà
materiale), ma che durante la sua missione, a causa delle narcotizzanti
seduzioni del mondo delle tenebre, cade nel sonno e dimentica il compito
assegnatogli. Occorre dunque un intervento dall’alto (una voce che
parli alla sua interiorità, segni che lo spronino al ricordo della
ricerca e figure che lo guidino al ritorno nella dimora celeste),
affinché si svegli e ricordi la sua missione: "C’è un inconfondibile
accenno ad una doppia funzione, attiva e passiva, dell’unica e medesima
entità. In ultima analisi, lo Straniero che discende redime se stesso,
cioè quella parte di sé (...) persa un tempo nel mondo e per lei egli
stesso diviene straniero nella terra delle tenebre ed è infine un
«salvatore salvato»." (p.84). Non è senza motivo che la voce narrante,
una voce interiore/interiorizzata e perciò distinta dall’inquieta figura
del padre Joseph che vediamo aggirarsi nel film, gli attribuisca
esplicitamente lo statuto di straniero: "Tu vivi in esilio. Straniero in
un paese straniero. Un pellegrino. Un cavaliere", gli sussurra
interiormente la voce flautata esattamente a metà film. Ma la condizione
di estraneità era già stata formulata, nei primi minuti del film, in un
passaggio che sanciva l’identificazione sostanziale di padre e figlio:
"Figlio mio... sei esattamente come me. (…) Un pellegrino, su questa
Terra. Uno straniero. Frammenti... Pezzi... di un uomo". A proposito
della frammentazione che ha intaccato la pienezza originaria (il
Pleroma) e della conseguente necessità di ristabilire l’unità
primordiale nella prospettiva della salvezza, Jonas osserva: "Di
conseguenza la salvezza implica un processo di raccolta, di collezione
di ciò che era andato disperso, e la salvezza mira al ristabilimento
dell’unità primitiva. «Io sono tu e tu sei io, e dove tu sei io sono, e
in tutte le cose sono disperso. E da ovunque tu vuoi, tu mi raccogli; ma
raccogliendomi, tu raccogli te stesso». Questa raccolta di sé viene
considerata come procedente "pari passu" con il progresso della
«conoscenza», e il suo adempimento come una condizione per la definitiva
liberazione dal mondo: «Colui che raggiunge tale gnosi e raccoglie se
stesso dal cosmo... non è più trattenuto quaggiù, ma sale al di sopra
degli Arconti»; e proclamando questo stesso fatto l’anima che ascende
risponde alla sfida dei guardiani celesti: «Sono giunto a conoscere me
stesso ed ho raccolto me stesso da ogni parte»" (p.68).
Se
l’idea della frammentazione rimanda alla necessità di una raccolta
inesausta delle particelle divine sparpagliate e imprigionate nel mondo
(una raccolta che coinvolge nel suo svolgimento tanto il destino del
singolo quanto quello dell’essere universale), lo statuto di “straniero
in un paese straniero” chiama in causa uno dei concetti chiave del
repertorio gnostico. Considerata la sua importanza nel sistema di
pensiero gnostico, mette conto riportare per esteso il passo nel quale
Jonas illustra il carattere fondamentale e praticamente inedito
dell’attributo riferito tanto all’Essere supremo quanto all’Uomo (il
“redentore redento”): “Il concetto di Vita straniera è una delle
parole-simbolo maggiormente espressive che si incontrano nel linguaggio
gnostico, ed è nuova nella storia del linguaggio umano in generale. Ha
equivalenti in tutta la letteratura gnostica, per esempio nel concetto
di Marcione del «Dio straniero» o soltanto dello «Straniero», «l’Altro»,
«lo Sconosciuto», «l’Innominabile», «il Nascosto»; o il «Padre
sconosciuto» di parecchi scritti gnostico-cristiani. […]. Ma anche al di
fuori di questi usi teologici in cui è uno dei predicati di Dio o
dell’Essere supremo, la parola «straniero» (e i suoi equivalenti) ha il
suo proprio significato simbolico come espressione di una elementare
esperienza umana, e questo è il fondamento dei differenti significati
della parola in parecchi contesti teoretici. […]. Straniero è ciò che
proviene da altro luogo e non appartiene a questo qui. A coloro che sono
di qui appare strano, non familiare e incomprensibile; ma il loro mondo
dal canto suo è altrettanto incomprensibile allo straniero che viene ad
abitarvi e simile ad una terra straniera dove si trova lontano da casa.
Soffre perciò il destino dello straniero che è solitario, senza
protezione, incompreso e incapace a comprendere, in una situazione piena
di pericoli. Angoscia e nostalgia della patria sono parte del destino
dello straniero. Egli che non conosce le strade del nuovo paese girovaga
sperduto; se impara a conoscerle troppo bene, dimentica di essere uno
straniero e si perde in un senso diverso, soccombendo all’attrattiva del
mondo straniero e diventando estraneo alla sua propria origine. Diviene
così un «figlio della casa», ed anche ciò fa parte del fato del
forestiero. Nell’alienazione da se stesso l’angoscia è sparita, ma
questo stesso fatto è il culmine della tragedia dello straniero. La
reminiscenza della sua origine, il riconoscimento del suo posto di
esilio per quello che è, è il primo passo indietro; il risveglio del
desiderio della patria è l’inizio del ritorno. Tutto ciò appartiene al
lato di «sofferenza» dell’estraneità; tuttavia in relazione alla sua
origine è allo stesso tempo un segno di eccellenza, una fonte di potere e
di vita segreta, sconosciuta all’ambiente circostante, e in ultima
analisi impermeabile per esso, perché è incomprensibile alle creature di
questo mondo. In questa superiorità dello straniero, che lo distingue
anche quaggiù, sebbene segretamente, sta la sua gloria manifesta nel
regno nativo, che è al di fuori di questo mondo. In tale situazione lo
straniero è il remoto, l’inaccessibile, e la sua singolarità significa
maestà. Perciò lo straniero preso assolutamente è il totalmente
trascendente, l’«al di là», e un attributo eminente di Dio. Entrambi gli
aspetti dell’idea dello «straniero», il positivo e il negativo,
l’estraneità come superiorità e sofferenza, come prerogativa di distanza
e fato di essere coinvolto nel mondo, si alternano come le
caratteristiche di un unico e medesimo soggetto: la «Vita». […] Nella
sua suddivisa esistenza in questo mondo essa partecipa in modo tragico
all’interpenetrazione di entrambi gli aspetti; e l’attualizzazione di
tutte le caratteristiche delineate sopra, in una drammatica successione
che è governata dal tema della salvezza, compone la storia metafisica
della luce esiliata dalla Luce, della vita esiliata dalla Vita e
coinvolta nel mondo: la storia della sua alienazione e del suo
ritrovamento, la sua «via» giù e attraverso il basso mondo e su di
nuovo. Secondo i vari stadi di questa storia, il termine «straniero» o i
suoi equivalenti possono entrare in molteplici combinazioni: «la mia
anima straniera», «il mio cuore oppresso dal mondo», «la vigna
solitaria», si applicano alla condizione umana, mentre «l’uomo
straniero» e «l’estraneo» si applicano al messaggero del mondo della
Luce (…).” (pp.60-61).
Rick,
dunque, si configura chiaramente ed esplicitamente come un personaggio
allegorico che ripropone nella contemporaneità la figura tradizionale
dell’uomo straniero: quel “redentore redento” dell’Inno della perla che,
dimentico della sua missione e della sua natura a causa dell’attrattiva
del mondo (piacere carnale, affermazione professionale, concupiscenza e
ambizione), è divenuto un “figlio della casa” (non è fortuito che nel
capitolo finale Libertà l’appartamento in cui egli ha dimorato
nella sua esistenza terrena sia totalmente deserto). È proprio in virtù
del terremoto iniziale e delle continue esortazioni della voce paterna
(si ribadisce che si tratta di una voce interiore, quindi virtualmente
proveniente dal “Padre sconosciuto”) che Rick viene risvegliato e inizia
a provare quelle sensazioni di angoscia e nostalgia della patria che
“sono parte del destino dello straniero” (non sfugga inoltre questo
dettaglio apparentemente insignificante: la prima volta che Rick compare
sul set si stropiccia gli occhi come se si fosse appena svegliato e
vaga sperduto tra i teatri di posa). Ma se è il terremoto a scuotere
inizialmente la sua coscienza, è la voce interiore del padre a
costituire il vero e proprio filo conduttore del suo pellegrinaggio:
lungo tutto il film è questo flatus vocis a rammentare in
continuazione la ricerca e il suo oggetto. Queste alcune delle formule
impiegate: “La perla. Da qualche parte, nel mare”; “Ricorda. La perla.
Che sussurra. Che fa un cenno. Ogni uomo… ogni donna. Una guida. Un dio
”. E soprattutto, subito dopo il riferimento alla condizione di
“straniero in un paese straniero”, esattamente al centro del film,
l’accorata esortazione “Trova la tua strada dall’oscurità alla luce”
(“Find your way from darkness to light”). È questo il passaggio cruciale
di Knight of Cups, per inciso un’altra carta dei
tarocchi (il Cavaliere o Fante di Coppe): nientemeno che l’esortazione,
indirizzata allo spettatore per interposto personaggio, a trovare il
proprio percorso spirituale dall'oscurità alla luce.
Trilogia gnostica, l’anima e il pneuma, la ricaduta nel sonno
In questo senso e al netto di future smentite, Knight of Cups, The Tree of Life e To the Wonder
comporrebbero una “trilogia gnostica” modulata su tonalità differenti,
il primo film ponendo maggiormente l’accento sulla cosmogonia, il
secondo sull’errore di amore (profano e sacro: la passionalità che
inganna e l'Amor Dei come coercizione), il terzo, infine,
sull’esemplarità del pellegrinaggio terreno (Il viaggio del
pellegrino da questo mondo a quello venturo presentato in forma di
sogno, nel quale si scopre il modo in cui si mette in viaggio, le sue
pericolose avventure e, infine, l’arrivo alla destinazione desiderata).
Secondo chi scrive, i tre film configurerebbero un macrotesto di genere
protrettico, vale a dire teso a proporre un itinerario di conversione
ed esortare il risveglio delle anime - anche se in questo caso sarebbe
più pertinente parlare di spirito o, ancora più correttamente, di
“pneuma”: “Il termine “pneuma” è usato in genere nello gnosticismo greco
come equivalente dell'espressione «sé» spirituale, per il quale il
greco, a differenza di alcune lingue orientali, manca di un termine
proprio. In tale funzione lo troviamo impiegato nella cosiddetta
Liturgia di Mitra con aggettivi quali «santo» e «immortale», in
contrasto a "psyche" o «potere umano psichico». L’alchimista Zosimo usa
«il nostro “pneuma” luminoso», «l’uomo interiore pneumatico», eccetera.
In alcuni gnostici cristiani è anche chiamato «scintilla» e «seme di
luce».” (p.125). È del resto il processo di affioramento degli elementi
gnostici a sorprendere e reclamare attenzione: se in The Tree of Life e in To the Wonder la trama gnostica, intrecciata a motivi autobiografici e sacri in senso lato, si poteva cogliere in filigrana, in Knight of Cups
viene praticamente abolita la distinzione tra significato essoterico
(esterno, letterale) e significato esoterico (interno, simbolico), il
percorso iniziatico del protagonista attestandosi esplicitamente quale
motore del racconto. Detto altrimenti, la parabola esemplare dell’Inno
della perla può benissimo rimpiazzare (lo ha fatto ufficialmente nella
prima sinossi del film) la vicenda dello sceneggiatore in crisi tra Los
Angeles e Las Vegas: anzi, senza la ricerca del vero sé rappresentato
dalla perla, Knight of Cups non avrebbe alcuna
traiettoria narrativa comprensibile. Il carattere fortemente protrettico
della trilogia, con un salto mortale che si avventura spericolatamente
nell’universo mentale dell’autore, potrebbe anche rendere conto
dell’improvvisa accelerazione creativa compiuta da Malick in questi
ultimi anni: tenuto conto che persino The New World
sarebbe suscettibile di essere letto in chiave dualistica (la lotta
precosmica tra i due arciprincipi della Luce e delle Tenebre in
un’ottica vicina al tipo iranico di speculazione gnostica), la
consapevolezza del dato anagrafico (oggi Malick ha 72 anni) potrebbe
averlo spinto a oggettivare cinematograficamente la prospettiva
religiosa in questione. Certo, si tratta di un’ipotesi rozzamente
psicologistica e puramente congetturale, ma difficilmente evitabile sul
piano spicciolo e sulla base davvero sorprendente di una proliferazione
produttiva così straordinaria.
Il pólemos eracliteo o il “panteismo senza Dio” di cui si è parlato per film come La sottile linea rossa e I giorni del cielo
(1978) - a proposito di quest’ultimo Bruno Fornara scrisse nel luglio
2004: “Lo si potrebbe definire un film panteista, se mai si potesse
pensare a un panteismo senza Dio” - non hanno più diritto di
cittadinanza in Knight of Cups: qui si dice di trattare
il mondo come merita, si afferma che nessuno è a casa, si dichiara che
il mondo è una palude e occorre volarci sopra, in alto, dove tutto è
solo un granello. Il conflitto, “padre e re di tutte le cose” (Fornara),
e la rigogliosa innocenza della natura (si rammenti l’ultima
inquadratura di The Thin Red Line,
col grosso seme che germoglia nell’acqua) hanno ceduto il passo a un
distacco dal mondo che rasenta il disprezzo esplicito e irrevocabile,
pur passando attraverso la concupiscenza inebriante e la seduzione
terrena. Anzi, gli otto pannelli che scandiscono il film, affinché
questa vicenda di distacco dalla terra sia davvero esemplare, devono
necessariamente passare attraverso l’attrattiva del mondo, le sue
lusinghe e i suoi inganni narcotizzanti. Perché se la scansione in
capitoli rimanda in prima istanza al significato dei tarocchi
(dall’invito a cercare il senso reale delle cose della Luna alla trasformazione e al rinnovamento simboleggiati dalla Morte),
in seconda battuta richiama le sfere cosmiche che, nella tradizione
gnostica, circondano la terra e rappresentano il governo arcontico:
“L’universo, il dominio degli Arconti, è come una vasta prigione la cui
cavità più interna è la terra, lo scenario della vita dell’uomo. Intorno
e al di sopra di esso le sfere cosmiche sono disposte in orbite
concentriche che lo racchiudono. Più spesso vi sono le sette sfere dei
pianeti circondati dall’ottava, quella delle stelle fisse” (pp.54-55). E
come le sfere cosmiche racchiudono l’uomo nel carcere terrestre, così
la carne e l’anima (il precipitato psichico delle potenze cosmiche)
imprigionano la scintilla divina che risiede dormiente in lui: “L’uomo,
l’oggetto principale di quest’ampia prospettiva, è composto di carne,
anima e spirito. Ma ridotto ai princìpi ultimi, la sua origine è
duplice: mondana ed extramondana. Non soltanto il corpo, ma anche
l’«anima» è un prodotto delle potenze cosmiche che hanno formato il
corpo ad immagine dell’Uomo Primigenio divino (o Archetipo) e lo hanno
animato con le loro proprie forze psichiche: queste sono gli appetiti e
le passioni dell'uomo naturale, ciascuna delle quali deriva e
corrisponde ad una delle sfere cosmiche, e tutte insieme formano l’anima
astrale dell’uomo, la sua «psiche». […] Racchiuso nell’anima c’è lo
spirito, o «pneuma» (chiamato anche «scintilla»), una porzione della
divina sostanza dell’aldilà che è caduta nel mondo; e gli Arconti
crearono l’uomo con l’espresso proposito di trattenerlo prigioniero
quaggiù. Perciò, come nel macrocosmo l’uomo è racchiuso dalle sette
sfere, così nel microcosmo umano lo spirito è racchiuso dai sette
rivestimenti dell’anima, originati da esse. Nel suo stato irredento il
pneuma, così immerso nell’anima e nella carne, non ha coscienza di se
stesso, è intorpidito, addormentato, o intossicato dal veleno del mondo:
in breve, è «ignorante». Il suo risveglio e la sua liberazione vengono
effettuate mediante la «conoscenza».” (pp.55-56).
La
stessa anima - o psiche - costituisce in definitiva il volto interiore
del potere cosmico e l’io dell’uomo si trova soggiogato alla tirannia di
potenze maligne che controllano e condizionano la sua volontà,
assoggettandola all’heimarméne (l’oppressivo destino cosmico):
“L’asservimento dell’anima ai poteri cosmici deriva dalla sua stessa
origine da questi poteri. È una loro emanazione; ed essere afflitto
dalla psiche, o abitare in essa, fa parte per lo spirito della
situazione cosmica. Il cosmo è per se stesso un sistema demoniaco: «non
c’è parte del cosmo vuota di demoni» (…); e se l’anima rappresenta il
cosmo nell’interiorità dell’uomo, ovvero per mezzo dell’anima «il mondo»
è nell’uomo, allora l’interiorità dell'uomo diventa la scena naturale
per l’attività demoniaca e il suo io è esposto al gioco di forze che non
può controllare” (pp.259-260). Il messaggio di salvezza della gnosi non
si rivolge dunque all’anima dell’uomo, ennesima invenzione diabolica
degli arconti, ma allo spirito o pneuma doppiamente imprigionato nella
carne e nella psiche: “È pertanto condizione naturale dell’uomo di
essere preda di forze estranee che tuttavia sono tanta parte di lui
stesso, ed occorre l’intervento miracoloso della gnosi dal di fuori per
dare la capacità al pneuma imprigionato di ritornare a ciò che gli è
proprio. «Coloro che sono illuminati nella parte spirituale da un raggio
della luce divina - e non sono che pochi - sono lasciati in pace dai
demoni... tutti gli altri sono trascinati e mantenuti nelle loro anime e
corpi dai demoni, amando e apprezzando le loro opere... Questo governo
terreno è esercitato dai demoni attraverso gli organi del corpo, e tale
governo è chiamato da Hermes ‘heimarméne’» (…). […] Perciò l’esistenza
nel mondo è essenzialmente uno stato di essere posseduto dal mondo, nel
senso letterale, ossia demonologico del termine” (p.261). Ecco il motivo
del dissidio e del tormento interiore, motivo che risponde alla
necessità di esprimere lo sgomento di fronte a forze che controllano la
psiche e spingono incessantemente la volontà ad assecondare appetiti e
passioni: “(…) lo sguardo atterrito degli Gnostici vedeva la vita intima
come un abisso dal quale sorgono potenze tenebrose per governare il
nostro essere, non controllato dalla nostra volontà, tale volontà
essendo strumento ed esecutrice di quelle potenze. Questa è la
condizione fondamentale dell’umana insufficienza. «Che cosa è Dio? bene
immutabile; che cosa è l’uomo? male immutabile» (…). Abbandonata al
turbine demoniaco delle proprie passioni, l’anima empia grida: «Brucio,
ardo... sono consumata, misera me, dai demoni che mi possiedono» (…)”
(pp.261-262).
Questa
frastornante dualità tra universo materiale e dimensione spirituale si
presenta in tutta la sua intensità nel sesto capitolo di Knight of Cups, intitolato La Papessa (The High Priestess):
precedentemente vittima di un furto in casa propria e abbandonata la
stesura della sceneggiatura alla quale stava lavorando, in questo
capitolo Rick incontra Karen (Teresa Palmer), una spogliarellista che
lo seduce, ammaliandolo con formule fumose (“Siamo come le nuvole, no?”
“Andiamo e veniamo”. “Non esiste il concetto di eternità”) e
incoraggiandolo a provare ogni tipo di esperienza (“La tua mente è un
teatro. Devi provare tutto. Perché no?”). Incantato dalle fantasie di
Karen, Rick cade di nuovo nel sonno (“Allora mi riaddormento”),
chiedendole di cantare e sognare ancora per lui (“Canta per me. E sogna
un altro sogno”). La nuova fantasia di Karen li porta a Las Vegas, dove
incontrano un uomo, molto probabilmente un pimp con le sue
prostitute, che illustra esattamente la condizione attuale di Rick. Alla
domanda “Sei religioso? Hai una croce al collo”, l’uomo replica:
“Certo, assolutamente sì. Oh, anche se sono nell’oscurità, credo nella
luce. Mi sono state date istruzioni di non essere parte del mondo né
delle cose che lo formano. Ma i miei occhi ora sono semplici e divento
carnale quando vedo belle donne, macchine grandi, molti soldi, e voglio
essere parte di tutto questo” (torna in mente la tripartizione già
menzionata tra uomini pneumatici, psichici e carnali). È qui, a Las
Vegas, che Rick sperimenta ancora una volta le illusorie tentazioni del
mondo: “E il mondo tirò su uno specchio. Qui. Prendi le cose che vuoi.
Possono essere tue”. In questo specchio, Rick vede riflesso il
condensato fittizio e frastornante delle meraviglie del mondo, fino a
stordirsi del tutto durante una serata in discoteca a base di
stupefacenti, nani e ballerine. Ma, anche in questo vortice allucinato,
la voce interiore del padre lo sprona a continuare la ricerca e trovare
la perla (“Vai. Trovala”), ridestandone la coscienza e facendolo uscire
dallo stato di alterazione in cui si trova.
Ascetismo e libertinismo, avvicinamento alla perla
Nel penultimo capitolo del film, Morte,
Rick incontra Elizabeth (Natalie Portman), una donna sposata con la
quale ha una relazione, e insieme a lei si reca nella sontuosa dimora di
Christopher (Peter Matthiessen, lo scrittore, naturalista e monaco Zen
scomparso nel 2014). Il passaggio di forte sapore buddhista offre
l’occasione di evidenziare una curiosa coincidenza tra l’ascetismo
monastico e il ciclo di rinascite in questa religione e alcune
concezioni gnostiche (l’etica manichea nella fattispecie), che prevedono
tanto il rigoroso ascetismo per gli “Eletti” quanto un destino di
reincarnazione per la gran massa dei credenti. Jonas ipotizza
addirittura l’influenza della tradizione buddista nella definizione di
queste concezioni: “Tuttavia il rigorismo così completo dell’etica
manichea è riservato ad un gruppo speciale, gli «Eletti» o «Veri», che
devono aver condotto una vita monastica di straordinario ascetismo,
forse plasmata sul monasticismo buddista e che certamente ebbe una
grande influenza sulla formazione del monacheismo cristiano. La gran
massa dei credenti, chiamati «Auditori» o «Soldati», viveva nel mondo
sotto regole meno rigide e tra le azioni meritorie c’era il mantenimento
degli Eletti, che rendeva possibile la loro vita di santificazione. Vi
erano dunque tre categorie di persone: gli Eletti, i Soldati e i
peccatori, un evidente parallelo della triade dello gnosticismo
cristiano formata di pneumatici, psichici e sarkici («uomini carnali»).
Di conseguenza ci sono tre «vie» per le anime dopo la morte: gli Eletti
vanno al «Paradiso della Luce»; i Soldati, i «guardiani della religione e
sostenitori degli Eletti», devono ritornare «nel mondo e nei suoi
terrori» così spesso e così a lungo «fintantoché la loro Luce e il loro
spirito siano stati liberati e dopo molto vagabondare raggiungono
l’adunanza degli Eletti»; i peccatori cadono in potere del Demonio e
finiscono nell'Inferno.” (p.216). Più avanti, trattando
dell’atteggiamento opposto, ovvero del libertinismo gnostico (anch’esso
contemplato non soltanto come comportamento lecito, ma talvolta
addirittura obbligatorio per trasgredire e danneggiare il disegno
arcontico), Jonas arriva persino a ipotizzare un vero e proprio
adattamento gnostico della legge del karma: “D’altra parte, la
combinazione in Carpocrate di questa dottrina [il libertinismo gnostico]
col tema della trasmigrazione rappresenta un curioso adattamento
dell’insegnamento pitagorico e forse anche della dottrina del “karma”
indiano, dove la liberazione dalla «ruota delle nascite» è l’interesse
dominante, sebbene in uno spirito molto diverso” (p.255).
Tuttavia,
al di là del sincretismo non soltanto compatibile col pensiero gnostico
ma essenzialmente caratteristico della sua espressione, il settimo
capitolo di Knight of Cups suggerisce l’avvicinamento
alla perla (“il nucleo spirituale indefinibile dell’esistenza”, p.306).
Durante una giocosa sequenza in riva al mare e sul molo insieme a
Elizabeth, la voce interiore di Rick pronuncia queste parole: “Quindi
siamo questo. Un fuoco”. Pur non accompagnato da formule
cinematografiche trionfali e consumatosi quasi in sordina, questo
avvicinamento prepara di fatto la definitiva liberazione dal mondo che,
dopo l’immancabile separazione da Elizabeth, culminerà nel capitolo
conclusivo, emblematicamente intitolato Libertà (si tratta
dell’unico capitolo, mette conto ripeterlo, che non mutua il titolo
dagli arcani maggiori). Pur non essendo, quello rappresentato dal film,
un evento assimilabile all’esperienza superlativa dell’illuminazione
estatica, non è ozioso riportare l’ennesimo brano tratto dallo studio di
Hans Jonas che chiarisce il tipo assolutamente peculiare di conoscenza
veicolata dalla gnosi: “La mistica “gnosis theoû” - visione diretta
della divina realtà - è già un pegno della consumazione futura. È la
trascendenza divenuta immanente; e sebbene sia preparata dagli atti
umani di trasformazione dell’io che attuano la giusta disposizione, il
fatto stesso è da attribuirsi all’attività divina e alla grazia. Perciò è
altrettanto un «essere conosciuti» da dio quanto un «conoscerlo», e in
questa reciprocità finale la gnosi va molto oltre la «conoscenza»
propriamente detta. Come visione di un oggetto supremo può essere detta
teoretica - di qui «conoscenza» o «cognizione»; come assorbimento,
trasfigurazione, la presenza dell’oggetto può essere considerata pratica
- di qui «apoteosi» o «rinascita»: ma né la qualità mediatrice della
conoscenza.... né quella strumentale della prassi... valgono quando
l’essere del conoscente è assorbito in quello dell’oggetto - il quale
«oggetto» significa la cancellazione di tutto il regno degli oggetti”
(p.263). Di nuovo solo e spaesato, in una situazione simile a quella del
prologo, Rick riprende il cammino mentre, in un montaggio che mescola
liberamente tempi e spazi diversi, raccoglie i frammenti della sua
esistenza, saluta per l’ultima volta, confortandoli, il padre e il
fratello e getta un ultimo sguardo al mondo che si appresta ad
abbandonare.
Sophia, orientamento, libertà
Fortemente
segnato dalla presenza di un’enigmatica ed eterea figura femminile
(Isabel Lucas), l’ottavo capitolo vede infine Rick intraprendere il
viaggio di ritorno verso la dimora celeste: la casa del Padre
nell’Oriente. La voce narrante lo esorta a dirigere il cammino verso est
confidando nel suo ricordo infantile e nella segnaletica astrale:
“Trova la luce che conosci a est. Come un bambino. La luna. Le stelle.
Ti sono d’aiuto. Ti guidano nel tuo cammino”. Il riferimento alla luna
(ricordiamo che Luna è anche il titolo del primo capitolo del
film) reclama un ultimo ricorso allo studio di Jonas, che ricorda come,
nel simbolismo gnostico, essa sia semplicemente il nome di un’emanazione
divina: “Nella spiritualizzazione gnostica, «Luna» è semplicemente il
nome esoterico della figura: il suo vero nome è Epinoia, Ennoia, Sofia e
Spirito Santo” (p.111). Sebbene la figura di Sophia, ossia “Sapienza”,
sia causa di immani catastrofi nella mitologia gnostica (soprattutto
nella gnosi valentiniana, nella quale rappresenta l’aspetto defettibile
di Dio), qualcosa di sensibilmente divino permane in lei. Benché questa
figura sia talvolta degradata a tal punto da essere definita
“Sophia-Prunikos” (“Sapienza-Prostituta”) o semplicemente “Prunikos”
(“la pruriente”), nel film di Malick il personaggio lunare (Della), così
come le altre figure femminili che attraversano il film di capitolo in
capitolo, possiede un’evidente funzione di orientamento (diversamente
dalle figure maschili, per lo più fallaci e disperate). Bastino, a
titolo di esempio, queste frasi pronunciate rispettivamente dalla stessa
Della, da Nancy e da Helen (Freida Pinto): “Non stiamo vivendo le vite a
cui siamo destinati. Siamo destinati a qualcos’altro”; “Non potevo
aiutarti a stare sulla retta via. La tua testa era girata nella
direzione sbagliata”; “C’è qualche altro posto in cui dobbiamo arrivare.
Lo so”.
Ebbene, nel pannello conclusivo Libertà
questa funzione di orientamento (alla lettera volgersi verso l’oriente e
stabilire la giusta direzione) diviene preponderante, la figura
femminile interpretata da Isabel Lucas perdendo qualsiasi altra
proprietà narrativa (non sappiamo da dove provenga, non conosciamo la
natura della sua relazione con Rick, ignoriamo che cosa la spinga a
sollecitarlo). La vediamo soltanto stare al suo fianco e pronunciare
impercettibili formule attorno alla fiamma di una candela o al di sopra
di un fuoco che arde tra le rocce. Alcune immagini interpolate dell’ex
moglie Nancy suggeriscono un’associazione tra le due donne, ma questa
figura appena sbozzata rimane troppo enigmatica per poterle attribuire
qualcosa di diverso dal semplice ruolo di guida. Le uniche parole che
proferisce sono quattro imperativi: “Sveglia. Voltati. Guarda. Esci
fuori”. Tornano in mente le frasi pronunciate in precedenza proprio da
Nancy (“Il mondo ti ha assorbito sempre di più. Non potevo aiutarti a
stare sulla retta via. La tua testa era girata nella direzione
sbagliata”), di cui questo quartetto di imperativi sembra costituire un
sintetico e ineludibile contrappunto. Poi, leggiadra, si bagna
nell’acqua lucente e di notte, totalmente scevra di ogni connotazione
erotica o sensuale, s’immerge nuda nella piscina: figura eterea
quant’altre mai, è lei ad accompagnare Rick alle soglie del mondo dopo
l’ennesima esortazione della voce paterna (“Figlio mio, ricorda”).
Rick
si trova di nuovo solo nel deserto, sostanzialmente nelle stessa
situazione del prologo, soltanto che stavolta il suo cammino segue la
direzione opposta: anziché scendere, continua a salire verso la sommità
della formazione rocciosa sulla quale si trova. Velato dalle nuvole, il
sole risplende maestoso in lontananza: la camera procede con un lento
movimento in avanti e l’inquadratura successiva, speculare
all’immersione iniziale, ci mostra l’uscita di Rick dalle acque torbide
del mare (come osservato in precedenza “simbolo gnostico fisso per il
mondo della materia o delle tenebre nel quale è immerso il divino”). Una
volta emerso, egli è virtualmente fuori da questo mondo: lo vediamo
un’ultima volta inquadrato fugacemente, la camera andando rapidamente a
seguire il volo di alcuni gabbiani e tornando su di lui dal basso verso
l’alto. La sua abitazione terrena è ormai vuota: non è più un «figlio
della casa» ed egli, ormai trasfigurato e ridotto a pura visione, può
finalmente iniziare l’ultima, ineffabile ascesa: “Inizia”.
Ringrazio Elisa Schiavi, Jean Claude Ciamporcero, Leo Benedetti
Pagni e, infine, il professor Amleto Spicciani per le preziose occasioni
di confronto, i suggerimenti bibliografici e gli insegnamenti ricevuti.