“L’estate del giovane Arnaud si preannuncia tranquilla fino al momento
in cui incontra Madeleine, bella, fragile e appassionata di allenamenti
estremi e profezie catastrofiche. Arnaud non si aspetta nulla mentre
Madeleine si prepara alla fine del mondo... Tra i due, nasce una storia
d’amore e di sopravvivenza (o entrambe), fuori da ogni canone
prestabilito” (dal pressbook).
Prologo, tre atti, epilogo: questa la struttura drammaturgica di Les Combattants, discutibilmente tradotto in anglo-italiano con The Fighters - Addestramento di vita,
pellicola d’esordio di Thomas Cailley. Classe 1980, il regista e
sceneggiatore nato a Clermont-Ferrand arriva al lungometraggio dopo il
pluripremiato corto Paris Shanghai (2010), road movie
che racconta le peripezie di un viaggio meticolosamente programmato
dalla Francia alla Cina in bicicletta (19210 km su due ruote, come si
legge sul retro della maglietta di Manu, il protagonista). Scombussolata
dall’apparizione traumatica di un altro personaggio, Victor, che
travolge la bicicletta di Manu su una strada di campagna, la traiettoria
narrativa di Paris Shanghai si flette verso un buddy movie
che sposta le coordinate dell'itinerario dalla semplice dislocazione
geografica all’occasione di un autentico incontro con l’altro.
Analogamente a Les Combattants, infine, Paris Shanghai
combina l’immersione ambientale e l’interazione di due personaggi
conflittuali con la scoperta di una verità che nasce dalla rottura di un
percorso rigidamente prestabilito.
Questo è stato il mio punto di partenza: l’idea di una campagna
tranquilla con un lago calmo improvvisamente colpito da un tifone.
Questo tipo di collisione, lo scontrarsi di due elementi contrapposti, è
la visione che ho del rapporto tra Arnaud e Madeleine. Da quello ho
immaginato il percorso di crescita di questi due personaggi così diversi
e dalle personalità opposte, che alla fine si uniscono.
Girato in ordine cronologico per facilitare l’immedesimazione durante le sette settimane di riprese, Les Combattants
propone nuovamente l’idea del contrasto tra i due personaggi principali
come opportunità di apertura verso l’altro e la concezione del racconto
come un viaggio avventuroso - all’inizio la placida stazione balneare,
poi la precipitosa partenza per il corso militare e, infine, la fuga
ribelle nella foresta. Un viaggio articolato in tre tappe in cui lo
spostamento spaziale si accompagna a un progressivo allontanamento dalla
quotidianità e dal realismo in favore di una dimensione sempre più
connotata in chiave finzionale e utopica: se inizialmente la routine di
Arnaud (Kévin Azaïs) viene scompaginata dalla tumultuosa irruzione di
Madeleine (Adèle Haenel) che, come Victor in Paris Shanghai,
travolge e sconvolge le sue sicurezze e i suoi programmi, lo stage di
sopravvivenza dell’Armée de terre si rivela inadeguato alle radicali
aspettative di Madeleine, rendendo l’esperienza dell’addestramento una
delusione tanto cocente quanto insopportabile. Ai due personaggi, ormai
legati dal comune disorientamento, non resta che abbandonare questo
microcosmo già sensibilmente anomalo rispetto alla realtà di partenza e,
scavalcata la rete di recinzione, spingersi in un territorio nel quale
le strategie di adattamento non saranno imposte dall’alto ma verranno
decise soltanto da loro. È in quest’ultimo spazio che Arnaud e Madeleine
potranno finalmente agire e interagire senza ostacoli normativi (gli
obblighi professionali e familiari per lui, le dogmatiche e
inammissibili regole del campus per lei), stabilendo un autentico
contatto - anche fisico - e creare un nuovo mondo, autonomo, isolato e
fabbricato congiuntamente.
Quando io e Claude Le Pape abbiamo scritto la sceneggiatura,
volevamo evitare a ogni costo di presentare dei personaggi «malati» che
il film avrebbe tentato di guarire. Il movimento del film non ha niente
di psicologico. Arnaud e Madeleine non smettono mai di agire, avanzare,
inventare. Sono sempre in movimento. Da qui il titolo “Les Combattants”.
Conformemente
a questo percorso tripartito verso la finzione, il film rappresenta lo
spazio come un vero e proprio prolungamento dei personaggi: nel primo
atto a dominare è il paesaggio associato alla figura di Arnaud, un
paesaggio stagnante e caratterizzato da una sostanziale piattezza (il
lago costituisce a tutti gli effetti lo specchio naturale del
personaggio), nel secondo è invece il dinamismo di Madeleine a
riverberarsi nell’ambiente del campus militare, riflettendosi in un
territorio più movimentato e accidentato (la regione del Béarn, nel sud
della Francia a ridosso dei Pirenei, con la sua alternanza di zone
pianeggianti, boschi e rilievi), mentre nel terzo, infine, è l’universo
inventato dai due a imporsi, una dimensione quasi fiabesca che si
traduce concretamente in una foresta delle Landes, regione in cui
Cailley è cresciuto, caratterizzata da un terreno sabbioso in cui gli
alberi non sono stabili e tendono a chiudersi sopra il fiume, creando
uno scudo protettivo che isola Arnaud e Madeleine dal resto del mondo.
Questa foresta-galleria diventa una sorta di spazio edenico: la fine del
mondo ipotizzata e attesa da Madeleine si tramuta inaspettatamente in
qualcosa di simile all’inizio del mondo, a una condizione primordiale e
originaria. Persino la tavolozza cromatica della pellicola varia di atto
in atto: curata da David Calley, fratello del regista, la fotografia
asseconda l’idea del viaggio finzionale, passando dalle tonalità fredde e
bluastre dell’inizio ai verdi punteggiati di nero e marrone della
seconda parte per accendersi, nell’ultimo atto, con verdi brillanti,
gialli dorati e chiarori diffusi.
Ho lavorato molto nelle fasi di preparazione col direttore della
fotografia, mio fratello David Cailley. Il film raccontava il tragitto
di due personaggi e anche la luce doveva raccontare questo tragitto. Non
volevamo fare un film monocromo. La pellicola inizia con tonalità blu
piuttosto fredde (il cielo estivo, la piscina, l’interno della
discoteca). Nella seconda parte tocchi di giallo si mischiano al blu per
dare il verde dell’esercito, al quale si mescolano toni neri e marroni.
Dolcemente la luce si riscalda. Poi, nella terza parte, la dominante
gialla si accentua nella foresta. I verdi si rischiarano, il fiume
assume un colore dorato, esattamente come i corpi, e le notti sono
illuminate da falò arancioni. Parallelamente, il quadro si fa sempre più
mobile intorno ai personaggi e si apre su orizzonti più larghi,
prospettive più ampie.
Ma il dato più significativo di Les Combattants,
vincitore di svariati premi alla Quinzaine des réalisateurs di Cannes
2014 e ai César del 2015 (tra i quali migliore opera prima, migliore
attrice per Adèle Haenel e migliore promessa maschile per Kévin Azaïs),
risiede nella sua personalità stilistica. Nonostante sia un film
accuratamente pensato (le dichiarazioni di Cailley ricavate dal dossier
de presse lo testimoniano a sufficienza) e scrupolosamente pesato in
ogni sua componente (basti pensare alla sequenza del soccorso finale,
vera e propria deriva in territori fantascientifici, o all’uso delle
sonorità elettroniche degli Hit’n’Run per dare una spinta supplementare
alle immagini), Les Combattants non indulge in
citazionismi o ammiccamenti cinefili, superando agilmente il complesso
d’inferiorità che affligge spesso i film d’esordio e schivando con
altrettanta disinvoltura il pericolo opposto, ovvero l’esibizione di
stucchevoli e funambolici virtuosismi estetizzanti. Una singolarità
cinematografica, quella messa in scena dal primo lungometraggio di
Cailley, che, proprio in virtù della sua irriducibilità a modelli
facilmente riconoscibili, può dialogare alla pari col cinema francese
più maturo e celebrato senza essere schiacciato da paragoni altisonanti o
raffronti umilianti. Al contrario e secondo chi scrive, l’equilibrio
del registro stralunato, bizzarro e surreale che Les Combattants
mantiene con immutata scioltezza per i suoi 98’ entra in risonanza
involontaria - ma per questo ancora più avvertibile - con le pellicole
del cinema greco contemporaneo (dalle pellicole di Yorgos Lanthimos,
soprattutto Kynodontas, ad Attenberg
di Athina Rachel Tsangari). E non solo per la capacità di generare un
universo filmico tanto irrealistico quanto credibile in bilico tra
grottesco e sentimento di catastrofe, ma anche per la propensione a
trasformare gradualmente i personaggi da oggetti di puro consumo visivo
in soggetti a pieno e agguerrito titolo.
Pubblicata su www.spietati.it.