sabato 14 maggio 2016

LA FORESTA DEI SOGNI




"Sono l’amore e la perdita a condurre Arthur Brennan (Matthew McConaughey) all’altro capo del mondo, in Giappone, nella foresta fitta e misteriosa di Aokigahara, nota come “la foresta dei sogni”, situata alle pendici del Monte Fuji - un luogo in cui uomini e donne si recano a contemplare la vita e la morte. Sconvolto dal dolore, Arthur penetra nella foresta e vi si perde. Lì Arthur incontra Takumi Nakamura (Ken Watanabe), un giapponese che, come lui, sembra aver perso la strada. Incapace di abbandonare Takumi, Arthur usa tutte le energie che gli restano per salvarlo" (dal pressbook). 





È piuttosto difficile mantenere un atteggiamento equilibrato di fronte al sedicesimo lungometraggio cinematografico di Gus Van Sant, poiché La foresta dei sogni, considerato separatamente dal resto della filmografia dell’autore di Last Days (2005) e Paranoid Park (2007), può essere legittimamente considerato un coacervo di cliché patetici, stratagemmi strappalacrime e simbolismi a buon mercato. Si pensi all’alcolismo funzionale della moglie Joan (Naomi Watts) e al suo tumore al cervello, questo imbattibile aggregatore di affettività che opera da nemico comune in grado di risolvere le tensioni della coppia; oppure si presti attenzione alla logica cinicamente accidentale che proscioglie la stessa Joan dal verdetto canceroso per condannarla subito dopo alla beffarda sentenza di un incrocio stradale; oppure si rifletta sull’arsenale simbolico che ingombra sfacciatamente l’intera vicenda, dalla foresta di Aokigahara come luogo di elezione del suicidio perfetto all’orchidea che nel finale rimpiazza/ibrida Joan e Takumi (Ken Watanabe), passando per l’intrico di fasce colorate che Arthur (Matthew McConaughey) incontra all’inizio del cammino, la busta favolosa e gli ideogrammi che nell’epilogo si riveleranno essere il colore e la stagione preferiti da Joan.

Come se non bastasse, a questo allestimento spudoratamente segnaletico (non ci vengono risparmiati neppure i pannelli dissuasori di suicidio) e metaforicamente frusto (la natura è un tempio, recita il poeta, l’uomo vi passa attraverso foreste di simboli) si aggiunge un arrangiamento narrativo che si premura accuratamente di non lasciare lacune o rebus irrisolti: ci sarà un flashback, una magica coincidenza o una scoperta in extremis a mostrare i dolorosi precedenti, correggere la rotta suicida di Arthur e restituire alla vita la dignità di essere vissuta nonostante le tragedie che colpiscono immancabilmente ognuno di noi. A imporsi perentoriamente, insomma, è la filosofia del "just keep living", declinata con una serietà così enfatica da sbriciolare il muro del comico involontario nell’arco di un paio di sequenze (il punto di non ritorno è già guadagnato con la comparsa delle manine rattrappite di un cadavere che spunta tra gli alberi). Persino "kaidan", termine giapponese che designa tradizionalmente le cosiddette storie di fantasmi, viene impiegato nell’accezione di "scala", caricandosi di connotazioni salvifiche e metaforiche: si tratta di risalire dalla foresta purgatoriale a una nuova vita, conquistare un’esistenza finalmente riappacificata con gli spettri che infestavano la coscienza e definitivamente libera dal senso di colpa. Non sarà una vera e propria scala al paradiso, ma la guarigione catartica ottenuta grazie al generoso intervento di Takumi si approssima incautamente alla vittoria fuori casa col conseguimento della salvezza insperata.

Meno deludente e improduttivo, invece, il raffronto col film di cui La foresta dei sogni rappresenta a tutti gli effetti il controtipo positivo: Gerry (2002), secondo chi scrive il capo d’opera di Gus Van Sant. Detto più chiaramente, The Sea of Trees riempie a distanza il vuoto desertico creato da Gerry. A partire dal titolo: laddove Gerry designava entrambi i protagonisti impedendo una loro individuazione nominale (e di conseguenza gettando un’ombra di sospetto sulla reale esistenza/consistenza di almeno uno dei due personaggi), The Sea of Trees, alla lettera "Il mare di alberi", sposta subito l’accento sulla dimensione metaforica, piazzando il viaggio di Arthur sotto il segno dell’allegoria dal valore universale. Con Gerry ci trovavamo insomma nel registro del particolare indistinto, mentre con The Sea of Trees siamo immediatamente proiettati nell’universale localizzato (la foresta di Aokigahara come "il luogo perfetto dove morire"). Foresta/deserto, vita/morte, umidità/siccità, allegoria/fenomenologia, didascalismo/enigmaticità, verbosità/laconicità, mutua assistenza/ostilità crescente: sono queste le dicotomie fondamentali che contrappongono La foresta dei sogni a Gerry. Dicotomie alle quali occorre aggiungere il trattamento antitetico del passato dei personaggi (dei due protagonisti del film del 2002 non conoscevamo niente, del vissuto di Arthur e Takumi sappiamo tutto ciò che occorre sapere) e l’opposta traiettoria morale disegnata dalle due pellicole (all’assenza di qualsiasi mandato di speranza in Gerry corrisponde, in The Sea of Trees, il messaggio a caratteri cubitali "la vita vale la pena di essere vissuta perché è piena di sorprese e aiuti provvidenziali").

Ancora più delicata e ragguardevole la distanza psichica che separa la deriva disorientata di Gerry dal tragitto introspettivo di The Sea of Trees. Pur essendo film eminentemente mentali (emblematica la presentazione del "mare di alberi" sui titoli di testa de La foresta dei sogni prima dell’inquadratura frontale di Arthur in macchina: il luogo è già nella sua mente), le due pellicole configurano dinamiche di spaesamento diametralmente opposte. In Gerry la destinazione, ossessivamente chiamata "Thing" ("Cosa"), sembrerebbe talmente facile da raggiungere da essere quasi inevitabile arrivarci - "Ogni sentiero porta alla Cosa", veniva ottimisticamente detto nei primi minuti da Gerry/Damon - e il seguito del film mostrerà di fatto l’inattingibilità della Cosa stessa, mentre in The Sea of Trees non solo l’arrivo nella foresta di Aokigahara è un semplice trasferimento senza intoppi, ma anche la scelta del luogo deputato al suicidio viene effettuata senza troppe esitazioni. Se in Gerry la Cosa era irraggiungibile a causa dello smarrimento causato dall’incapacità di fissare punti di riferimento affidabili nello spazio, in The Sea of Trees il punto di arrivo è guadagnato in tempi tecnici e senza alcun disorientamento.

Questa enorme discrepanza nella concezione spaziale porta direttamente al nucleo differenziale dei due film: il rapporto tra la dimensione simbolica del linguaggio e quella del reale. L’insormontabile problema che assilla i due Gerry risiede difatti nell’impossibilità di ritagliare simbolicamente lo spazio, di formulare significanti in grado di fare presa sul reale per articolarlo e ordinarlo cartesianamente (fare del territorio una mappa mentale, in altri termini). I materiali verbali che essi producono tendono al contrario a diradarsi, appiattirsi e "desemantizzarsi": la Cosa svanisce e il nome Gerry finisce per coprire porzioni sempre più vaste di reale, perdendo il proprio statuto di nome proprio per farsi sostantivo pervasivo il cui significato sembra slittare da un oggetto all’altro e da una situazione all’altra (si noti anche il mutamento di categoria grammaticale: dal nome Gerry i due personaggi ricavano il verbo corrispondente a indicare genericamente la mancata realizzazione di un’azione utile). Persino i gesti dei due protagonisti si sganciano dal piano del significato intenzionale per tradursi in puri e semplici passaggi all’atto di natura pulsionale (l’aggressione finale di Gerry/Damon nei confronti di Gerry/Affleck). In The Sea of Trees, al contrario, tutto è segno: Arthur scopre l’esistenza della foresta di Aokigahara con una ricerca su Google - sempre più Pizia contemporanea - e il contenuto verbale/iconico della ricerca si deposita subito nella sua mente (si pensi nuovamente ai titoli di testa). La macchina abbandonata alle soglie della foresta e i pannelli deterrenti al suicidio, peraltro sottotitolati in inglese all’occorrenza, accolgono il suo arrivo e lo avvisano a chiare lettere: qui siamo nell’ambito del significato intenzionale e inconfondibile. Nulla è lasciato al caso, il reale non ha niente di sconosciuto o intimamente misterioso: si viene qui per morire e questo fatto è universalmente noto. Il senso condiviso e risaputo celebra il suo trionfo: benché giapponese, Takumi parlerà fluentemente in inglese, gli ideogrammi inizialmente indecifrabili verranno tradotti nel finale e il corpo stesso del nipponico compagno di sventura di Arthur si trasformerà miracolosamente in orchidea (non un fiore a caso, ma quello preferito dalla moglie Joan). Da questa angolazione, infine, è possibile contrapporre il vuoto nevrotico di Gerry, pellicola in cui a imporsi è il vacillamento dubbioso e ossessivo dei protagonisti, alla pienezza psicotica di The Sea of Trees, film nel quale tutto è segno, metafora, allegoria. L’illusione di consistenza soggettiva che la radicale certezza simbolica di The Sea of Trees genera senza soluzione di continuità (sovrimpressione permanente: "tutto mi parla, tutto mi riguarda") lo connota inequivocabilmente come un film paranoico e perversamente prossimo alla credenza delirante. La foresta dei sogni diviene così, con una brusca torsione psicotica, "La foresta dei segni".

Pubblicato su www.spietati.it.

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