martedì 24 maggio 2016

PERICLE IL NERO





Pericle Scalzone, detto Il nero, di lavoro “fa il culo alla gente” per conto di Don Luigi, boss camorrista emigrato in Belgio. Durante una spedizione punitiva per conto del boss, Pericle commette un grave errore. Scatta la sua condanna a morte. In una rocambolesca fuga che lo porterà fino in Francia, Pericle incontra Anastasia, che lo accoglie e gli mostra la possibilità di una nuova esistenza. Ma Pericle non può sfuggire a un passato ingombrante e pieno di interrogativi (dal pressbook). 






Pericle il nero era un bel romanzo, Pericle il nero è un bel film. Il riferimento al noir partenopeo di Ferrandino non può essere ignorato né minimizzato, poiché l'adattamento cinematografico di Mordini rispecchia pienamente il principio "infedeltà alla lettera del testo di partenza/fedeltà al suo spirito". Senza dilungarci in minuziose analisi sui meccanismi di trasposizione che hanno portato la vicenda di Pericle dalla pagina allo schermo (la sceneggiatura è firmata da Francesca Marciano, Valia Santella e dallo stesso Mordini), corre tuttavia l'obbligo di segnalare almeno tre aspetti macroscopici che il romanzo pone come passaggi obbligati: la sua marcata visualità/sensorialità (nel romanzo Pericle non è soltanto voce narrante, ma anche sorgente sensoriale: "Mentre colpivo ho sentito la piscia calda colarmi all’interno di una delle gambe dei pantaloni"), la sua impronta rigorosamente soggettiva (Pericle non è soltanto protagonista degli eventi, ma è coscienza centrale del romanzo tanto negli atti quanto nei pensieri) e la sua tonalità tra il confidenziale e il grottesco (Pericle si rivolge al lettore con immediatezza e complicità, stabilendo con lui un rapporto informalmente empatico: "Era la prima volta in vita mia che vedevo una periferia. Non so neanche come mi è venuta in mente questa parola. L'avrò sentita in qualche film").

Attraversando le pagine di Ferrandino, quello che ci ha subito catturato è stata quella strana musica che suonava dentro la testa di Pericle. Abbiamo cercato di assecondarne i pensieri, accordandoci alle sue digressioni e alle sue intuizioni, solo così potevamo trovare la sua storia e quella del nostro film (Stefano Mordini).

Ebbene, senza tradursi in calchi automatici o cliché pedissequi, questi tre passaggi imposti della scrittura di Ferrandino si ricompattano nel film con ammirevole giustezza e incisività: la salienza sensoriale del romanzo si riconfigura cinematograficamente nelle spiccate proprietà di captazione di Pericle (Riccardo Scamarcio in un'interpretazione semplicemente perfetta), l'impronta letteraria in prima persona si ricompone nelle traiettorie marcatamente soggettive della pellicola (oltre a essere costantemente in scena, Pericle orienta fisicamente ogni inquadratura) e il sapore confidenziale del dettato romanzesco, espurgato degli elementi più grotteschi e regionalistici, si riversa in una voce narrante dai toni caldi e sussurrati, come una confessione fatta a un amico di lunga data. La trasposizione filmica di Mordini ruota precisamente attorno a questo triplice punto d'appoggio, prendendo tuttavia le distanze dalla trascrizione illustrativa e trovando una misura espressiva che, pur non rinnegando l'origine letteraria o la derivazione dal genere noir, ha il coraggio di sradicare la vicenda dal suo contesto nativo (il romanzo è ambientato tra Napoli, Battipaglia e Pescara) e potenziare la componente affettivo-familiare (nel libro l'aspirazione domestica di Pericle è appena accennata e il suo rapporto con Nastasia molto più freddo).

Il Nero che contiene il titolo del film ci ha indicato la strada del genere mentre tutti noi, compreso Pericle, cercavamo la luce. Così il film sfugge a qualsiasi definizione, c'è dramma, c’è la teatralità di certe figure iconiche e c’è un vena di humor (nero). Ed è la voce di Pericle a guidarci in una fuga che ha un solo scopo: fermarsi in un luogo tranquillo e non essere più solo (SM).

Le due alterazioni (deterritorializzazione e potenziamento del desiderio familiare) sono strettamente correlate: lo spostamento geografico da Napoli/Pescara a Liegi/Calais fa di Pericle un vero e proprio déraciné e questa condizione di profondo sradicamento, accentuata dalla permanenza coatta nell'appartamento dei tunisini, acuisce il sentimento di solitudine del personaggio, che non ha più punti di riferimento stabili e si muove in uno spazio a lui completamente ignoto. L'approdo casuale a Calais, luogo di frontiera per eccellenza, e l’incontro altrettanto fortuito con Anastasia (Marina Foïs), altro personaggio sostanzialmente solo e sradicato (proviene da Tolone e lì sogna di tornare per aprire un forno tutto suo), apre uno spiraglio di cambiamento nell'esistenza randagia e telecomandata di Pericle. Così saldate, le due trasformazioni introdotte nell'adattamento cinematografico ribaltano i rapporti di forza tra ambiente e personaggio: nel libro è l'ambiente a determinare Pericle, mentre nel film, essendo intimamente sradicato dal contesto, egli gode di un'opportunità di affrancamento meno angusta e impraticabile. Detto altrimenti, il Pericle del film non è completamente condizionato dall'ambiente, ma si trova in una condizione di spaesamento permanente, gettato in un mondo che non ha ancora scritto il suo avvenire. Trapiantato in uno spazio al quale egli non sente di appartenere, egli dispone ancora di un margine di scelta grazie al quale può ancora dire sì o no a quel destino di esistenza negata che il boss Don Luigi (Gigio Morra) gli ha gelidamente sibilato nei primi minuti (“Don Luigi, ma io che dovevo fare?”; “Tu non dovevi proprio nascere”). Egli è ancora in grado di progettare, seppur tra mille insicurezze e impulsività tardoadolescenziali, il proprio futuro.

Dico nostro perché tutti noi, gli autori della sceneggiatura, gli attori, i produttori, insieme abbiamo deciso di seguire Pericle e abbiamo aspettato che quel personaggio ci si mostrasse per intero. E abbiamo scoperto un orfano, che non appartiene a nessuno, in cerca di una famiglia, che vive in un paese non suo, uno strano essere che si riempie di chimica per placare l'assenza che gli ribolle dentro (SM).

Alla luce degli snodi evidenziati (sradicamento, solitudine, invenzione del proprio destino), pare insomma palese che il film di Mordini traghetti la materia narrativa di partenza in pieno territorio esistenziale, aprendo la vicenda di Pericle alla dimensione della ricerca e della progettualità. È una dimensione che si percepisce distintamente in tutto il film, ora convergendo in un'attività ruminativa che innerva i momenti di stasi e non detto (i viaggi nel furgoncino, la decisione cruciale di non sodomizzare Don Luigi), ora confluendo in un'energia che corre sottopelle nei frangenti immediatamente precedenti all'azione (l'individuazione dei due killer inviati a Calais, il tesissimo faccia a faccia con Anna/ Valentina Acca nel prefinale). Ed è una dimensione che, per forza di cose, investe collettivamente le professionalità coinvolte nella lavorazione del film: dalle vibrazioni luministiche della fotografia di Matteo Cocco (le tonalità rossastre/aranciate degli spostamenti notturni, i chiarori bluastri degli esterni a Calais) alle variazioni di velocità del montaggio di Jacopo Quadri (la precipitosa fuga di Pericle dalla casa dei tunisini è un piccolo saggio di sintassi visiva), passando per le scenografie di Igor Gabriel (l'eclettismo pacchiano dell’abitazione di Don Luigi, la disadorna modestia dell'appartamento di Anastasia) e per i costumi di Antonella Cannarozzi (il giaccone di pelle scura dalle spalle cadenti indossato da Scamarcio connota il personaggio con straordinaria precisione).

Un percorso di svelamento che è continuato sul set, dove la macchina da presa è diventata testimone attivo e partecipe (SM).

Ma la maggiore riuscita di Pericle il nero risiede, secondo chi scrive, nella qualità pseudosoggettiva dello sguardo: anziché tempestare il fraseggio visivo del film di inquadrature soggettive (come l’impronta fortemente individuale sembrerebbe richiedere), la messa in scena di Mordini si deposita quasi sempre in forme lievemente dissociate dal punto di vista del protagonista. Pur rimanendo il centro focale e il principio di orientamento delle sequenze, Pericle è spesso iscritto in uno spazio che lo sovrasta, lo incapsula o gli sfugge. Ovviamente abbondano le semisoggettive (inquadrature in cui spalle nuca di Pericle sono parzialmente visibili), ma, ancora più spesso, anche quelle che inizialmente sembrano soggettive (ovvero inquadrature provenienti dal suo sguardo) si rivelano false soggettive, il suo corpo entrando in scena a scoppio ritardato: Pericle non soltanto non è padrone dello spazio che lo circonda, ma non è nemmeno padrone del suo sguardo, incarnando così un personaggio che, privato del proprio passato (la rivelazione quasi edipica della sua vera origine da parte di Signorinella/Maria Luisa Santella), vive nel presente la condizione di entità inconsapevolmente eterodiretta. Al lavoro del film spetta dunque il compito di ricomporre ipoteticamente una coscienza lacerata e disintegrata che trova provvisorio conforto nell’assunzione reiterata di sostanze chimiche, illusione di consistenza soggettiva e comprensibilità del reale. Presentato in concorso al Festival di Cannes 2016 nella sezione Un Certain Regard.

Pubblicata su www.spietati.it.

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