martedì 15 marzo 2016

IL CLUB






Quattro religiosi vivono in una casa appartata a La Boca, una piccola città di mare. Ciascuno di loro è stato inviato nell’abitazione per espiare peccati commessi in passato. Improntata a uno stretto regime sorvegliato dall’occhio vigile di una custode, la fragile stabilità della loro quotidianità è scombussolata dall’arrivo di un quinto uomo, un compagno recentemente caduto in disgrazia che porta con sé quel passato che credevano essersi lasciati alle spalle. 








Sono sempre stato disturbato dai destini di quei preti rimossi dalle loro posizioni dalla Chiesa stessa in circostanze completamente segrete, a insaputa dell’opinione pubblica. […]. Sacerdoti che, nel silenzio completo, sono stati spediti in case di riposo. Dove sono questi sacerdoti? Chi sono? Che cosa fanno? Questo è un film su quei preti esiliati e perciò questo film è il club dei preti perduti. (Pablo Larraín)

Il cerchio

Il club si apre con un’inquadratura piuttosto ampia in riva al mare: Padre Vidal (Alfredo Castro) allena il suo levriero, facendolo correre in cerchio. L’inquadratura, al di là del suo senso letterale, veicola immediatamente un doppio significato metaforico: quello della chiusura in un universo circolare e quello, complementare, dell’addomesticamento dell’animalità (brutalmente, la libido). Segregati e sorvegliati dall’occhio vigile di Madre Monica (Antonia Zegers), i quattro maturi sacerdoti possono controllare e domare quella spinta libidica che, in passato, li ha spinti a commettere abusi sessuali e atti di prevaricazione su vittime innocenti. Questa condizione di equilibrio è garantita dall’universo a tenuta stagna in cui i religiosi sono segregati e, per così dire, tumulati: un universo ermeticamente chiuso, scandito da regole ben precise e tenuto in ordine da Madre Monica. In questo caso, la pulizia effettuata e assicurata con accanito zelo da Madre Monica non è soltanto di ordine pratico, ma soprattutto morale: non è senza motivo che la seconda inquadratura del film la mostri intenta a lavare le scale esterne della casa (vera e propria zona di passaggio tra il fuori e il dentro, tra le occasioni di contaminazione provenienti dall’esterno e lo stato di purezza asettica dell’interno). Nella casa, insomma, regna un’atmosfera di catatonica tranquillità emblematicamente incarnata dall’istupidito e smemorato Padre Ramirez (il drammaturgo, regista teatrale e attore Alejandro Sieveking). Dentro il recinto domestico è tutto sotto stretto controllo, rigorosamente equilibrato, regolato, coltivato (l’orticello curato da Padre Silva/Jaime Vadell): “Conduciamo una vita santa”, proclamerà in seguito Madre Monica.

Al mattino ci svegliamo e preghiamo. Poi facciamo colazione. E dopo c’è un po’ di tempo libero per le faccende personali. Alle 12 si celebra messa. I Padri la fanno a turno e così fanno per la confessione. Se ha bisogno di confessarsi, me lo comunica e io parlo coi Padri perché qualcuno la confessi. All’una pranziamo, poi cantiamo. Poi, siamo liberi e alle 8 e mezza ceniamo. Alle 8 recitiamo il rosario e alle 8 e mezza mangiamo. Non può andare in paese se non tra le 6:30 e le 8:30 AM o tra le 19 e le 21. Se vuole uscire in quell’orario, bene, però da solo. Non potete andare insieme per strada. È assolutamente proibito comunicare con persone estranee alla Casa. È proibita qualsiasi azione auto flagellante o di piacere autoindotto. Non può maneggiare né denaro né cellulare. (Madre Monica)

L’esterno, per il momento, si riduce a una linea d’orizzonte solcata dalla vela di un windsurf, che Padre Vidal osserva con invaghita rassegnazione. Il levriero Fulmine (nome che squarcia la narcotica placidità del microcosmo) è la sola presenza vivace, che corre a perdifiato, eppure anche il suo è un movimento rigidamente padroneggiato dalla compiaciuta congrega di religiosi in ritiro. È un’immagine del Cile, quella condensata nella casa, l’immagine cristallizzata di un passato che, come una scoria radioattiva, è stata stoccata in questo centro di preghiera e penitenza, una sorta di reparto per lo smaltimento di rifiuti tossici o, detto più rozzamente, una lavanderia per cattive coscienze. Quanto l’energia libidica della piccola confraternita sia stata efficacemente convogliata sul levriero è mostrato dal successo riportato da Fulmine nella prima corsa: sbaragliando la concorrenza dei Manzur, “i turchi del supermercato”, la vittoria dell’animale fornisce ai religiosi un surrogato erotico (si veda la scossa di piacere che appare sul volto di Madre Monica) di quelle esperienze proibite che gli ex sacerdoti consumavano nel chiuso delle loro stanze (la reazione collettiva dei quattro religiosi per il successo di Fulmine va molto al di là della semplice soddisfazione, lasciandoli letteralmente senza fiato). Il denaro guadagnato dalla vittoria di Fulmine rappresenta economicamente la circolazione di questa energia erotica sotto controllo: non è fortuito che Madre Monica, colei che vigila sulle menti e sui cuori dei quattro ex sacerdoti, si opponga alla proposta di spartizione del denaro, facendosi titolare dell’importo erotico e impedendo che l’energia libidica, sotto forma di avidità, torni a essere sparpagliata e singolarmente disponibile.

La società cilena ha fondato se stessa su una storia di potere e sottomissione, proprio come ogni altra società. Poteri economici, sociali, politici e religiosi, ma, in particolare, poteri che hanno inflitto grandi violenze sotto la copertura del silenzio. Piccoli gruppi di persone, famiglie e congregazioni hanno goduto dell’impunità per i loro atti, molto spesso criminali, coperti dalle loro reti di protezione. Ciò diviene oscenamente radicale durante la dittatura degli anni ’70 e ’80, quando questa impunità è consacrata tanto nello smantellamento dello Stato Repubblicano, tramite l’usurpazione e la privatizzazione delle sue imprese, del sistema sanitario ed educativo, quanto nel trattamento crudele e criminale delle sue vittime e in tutti gli abusi contro i diritti umani e la dignità. (Alfredo Castro)

Ma questo passato non è del tutto passato, è soltanto rimosso e posto sotto la sorveglianza di un Super-Io efficiente e insostituibile: l’ipotesi di portare Fulmine al campionato nazionale manifesta questa doppia funzione di Madre Monica (se lei andasse a Santiago col cane, li lascerebbe in balia di se stessi e l’alternativa di una sostituta è definita letteralmente impossibile; la questione viene dunque sbrigativamente rimandata). È sufficiente l’irruzione di un fattore esterno a slatentizzare lo squilibrio meticolosamente tenuto a bada: l’arrivo di Padre Lazcano (José Soza) scompagina irrimediabilmente l’ordine del microcosmo domestico, portando con sé il ritorno del rimosso, la recrudescenza della colpa, il rimorso in una parola. Non sfugga il carattere totalmente arbitrario dell’apparizione di Sandokan (Roberto Farías), che si materializza proprio quando il nuovo arrivato si ribella a Madre Monica e al rigido protocollo delle regole di condotta che gli ha appena snocciolato: “Mi scusi, Madre, però non so perché dovrei sottomettermi alle stesse regole “loro”. Non so se lei sa perché sono qui. Non ho commesso nessun delitto, nessun peccato. Non sono un invertito. Ho avuto un piccolo problema”. È proprio sulle sue parole che s’innesta, provenendo dall’esterno, la filastrocca di Sandokan, ideale prosecuzione della sua riluttanza a farsi disciplinare da questa Legge inflessibile. Detto più semplicemente, Padre Lazcano non è che l’ambasciatore di Sandokan, il suo annunciatore, il suo messo: colui che prepara l’arrivo del personaggio deputato a lacerare irreparabilmente l’ordine stabilito. Il suicidio di Lazcano, tanto inopinato quanto il manifestarsi di Sandokan, testimonia la natura provvisoria e funzionale della sua figura: egli è lì per portare all’interno quel passato rimosso che continua ad aggirarsi nel presente come un fantasma inconsolabile.

Abbiamo anche scoperto che esiste una congregazione internazionale, fondata negli Stati Uniti, chiamata “Servants of the Paraclete”, che negli ultimi 60 anni si è dedicata esclusivamente alla cura dei preti che non possono più continuare a svolgere le funzioni sacerdotali per diversi motivi, a dispetto del fatto che la maggioranza di questi preti hanno commesso crimini. (Pablo Larraín)

Bella addormentata nel bosco: Paranoia Todo modo

L’arrivo di Sandokan tramite Lazcano ci pone di fronte a una versione tragicamente distorta di quello che André Gardies ha definito “Effetto Bella addormentata nel bosco”: “Dal momento che fa vacillare l’ordine stabilito fino a questo punto e dal momento che trasforma ciò che non era che scenografia in un universo dalle corrispondenze segrete, l’arrivo del personaggio - autenticamente trasgressore - produce un singolare effetto finzionale che non resisto al piacere di chiamare «Bella addormentata nel bosco».” (L'espace au cinéma, Méridiens-Klincksieck, 1993, p.136). La casa, fino a questo istante luogo di ordine ed equilibrio, diviene un carcere, un edificio assediato e insidiato, uno spazio infernale: “Che ci faccio in questa Casa? In questa merda di Casa?”, sbotta Padre Ortega (Alejandro Goic). L’esterno è ormai strisciato all’interno, il passato rimosso risuona nel presente, qui e ora. Già, perché quella incarnata da Sandokan è una seconda immagine del Cile: quella di un presente che, avvezzo agli abusi dell’istituzione religiosa e allevato in questo clima di piacere morboso, è attualmente incapace di spezzare la relazione di ambivalenza che lo lega al vissuto di umiliazione e protezione. Per Sandokan è materialmente impossibile scindere i due volti della Chiesa che ha conosciuto sulla propria pelle: violenza e fede, abuso e fiducia, sottomissione e protezione (“E mi metteva il pene nella bocca. Ed era un pene così grande che, siccome ero bambino, a me, a volte, faceva male l’apertura della boccuccia. Perché l’apertura, dato che ero piccolo, non mi bastava per ingoiare il pene del prete, ma lui veniva lo stesso. E mi obbligava e, a volte, mi veniva da vomitare con la cosa del seme. Mi faceva vomitare la cosa del seme. Perché poi il prete mi dava una mentina, così il seme non si sente, così squallido, così strano, così salato”, declama Sandokan, con sconcertante tono oratorio, davanti alla casa).

Dalla precaria condizione di chi non ha molte alternative per credere, Sandokan crede in qualcosa di concreto che lo ha protetto, aiutato e allevato; qualcosa che gli ha permesso di sopravvivere. Più che come qualcosa di filosofico o spirituale, egli vede la fede come una cosa concreta e funzionale, nella quale è stato forzato ad assecondare ciecamente tutte le umiliazioni e i piaceri dei preti che lo hanno protetto - in questo caso Matias Lazcano. Qui amore e fede sono confusi e disintegrati al tempo stesso. Ogni abuso, palpeggiamento o penetrazione è visto come un’offerta a un Dio che protegge, nasconde e sorveglia soltanto i milionari. Senza dubbio questa riflessione corrisponde a un intelletto molto più grande di quello di Sandokan. Egli è più basico, viscerale e carente di meccanismi o elementi che gli permettano di avere un’intelligenza emotiva con la quale possa cambiare il proprio destino. (Roberto Farías)

Il suicidio di Padre Lazcano produce inoltre una forte perturbazione nel microcosmo a causa dell’arrivo di Padre García (Marcelo Alonso), inviato dall’autorità religiosa per fare chiarezza sull’accaduto, definito un padre spirituale con molta esperienza di situazioni critiche, psicologo che ha studiato a Ginevra, uomo molto preparato e, infine, molto bello. Il suo ingresso nella casa, immediatamente successivo al funerale di Padre Lazcano, scatena la diffidenza dei quattro sacerdoti, convertendo l’energia libidica liberata dalla materializzazione di Sandokan e dal suicidio di Lazcano in paranoia. I quattro confabulano animatamente, gettando fango sull’aspetto da “ricco colpevole” del nuovo arrivato, sospettando apertamente di lui e giungendo rapidamente a questa conclusione: “Questo García è venuto per venderci. Così la Chiesa se ne lava le manie noi facciamo da capri espiatori. Ci elimineranno. Ci elimineranno” (Padre Silva a Padre Ortega). Padre García si presenta esplicitamente come investigatore delle coscienze (“Sorella, lei e io sappiamo perché i fratelli si trovano qui. Ciò che devo sapere è se loro stessi siano coscienti del perché sono qui”, dice a Madre Monica) e come agente di rinnovamento (“Quello che voglio è una Chiesa nuova”, aggiunge chiedendole aiuto in questa difficile opera di rigenerazione morale). Istigata dalla scoperta dei dossier di alcuni dei sacerdoti della casa (scoperta fatta furtivamente da Padre Ortega), la paranoia s’intensifica in seguito ai colloqui individuali, durante i quali Padre García cerca di inchiodare i quattro sacerdoti alle loro responsabilità, ricevendo in cambio refrattarietà, arroganza e aperta derisione.

Benché manchi un momento politico evidente e specifico - come accade nel caso di Tony Manero, Post Mortem o No, nei quali il panorama e il contesto della dittatura erano tremendamente presenti - con Il club Pablo Larraín continua a rivolgersi a un soggetto che, ai miei occhi, attraversa tutti i suoi film e tutti i ruoli che ho dovuto interpretare: l’impunità (Alfredo Castro) 

Esercizi spirituali di espiazione praticati secondo regole ferree e condotti in un eremo-prigione, spettri di morbosità che assediano il luogo e morti violente, tentativi di rinnovamento dell’istituzione e paranoia dilagante: impossibile non pensare a Todo modo (1976), al quale rimandano, non importa se deliberatamente o meno, anche il carattere quasi esclusivamente maschile del malsano microcosmo religioso e la presenza dei dossier custoditi segretamente dal direttore spirituale. Il disegno narrativo di Todo modo e Il club possiede la medesima matrice: eliminare le tracce dello sfruttamento passato per preservare nel presente l’autorità dell’istituzione (“La società cilena ha fondato se stessa su una storia di potere e sottomissione, proprio come ogni altra società”), nella figura di Padre García condensandosi i personaggi interpretati da Marcello Mastroianni e Gian Maria Volonté nella pellicola di Petri. Ma questa affinità di fondo non intacca minimamente la singolarità del film di Larraín, che si sviluppa in totale autonomia secondo un arrangiamento al contempo psicoanalitico e politico: non sorprende affatto che Padre García individui subito in Fulmine un animale di cui sbarazzarsi poiché ricettacolo di avidità e incontinenza, così come non meravigliano le sue parole di rimprovero indirizzate all’ex cappellano dell’esercito Padre Silva - “Se è rinchiuso in questa Casa, è perché resti in silenzio”.

Da questo punto di vista, Il club appare ai miei occhi come un’osservazione realistica della contingenza politica, sociale e religiosa, e soprattutto della giustizia (o piuttosto della sua mancanza). Le reti del potere continuano ad andare avanti, nascoste nell’ombra e protette dall’impunità che certi gruppi continuano ad avere. (Alfredo Castro) 

Agnello di dio: reality show para buscar la voluntad divina

Sganciata dal levriero (Fulmine perde tutt’a un tratto la sua straordinaria velocità, venendo battuto nella corsa domenicale), l’energia libidica si trasferisce esplicitamente su Sandokan nel dialogo destabilizzante con Padre García, il quale finisce per identificare in lui il Male da esorcizzare. Così, smarrito lo statuto di surrogato erotico, il cane viene sacrificato come semplice strumento per accalappiare e domare il Male a piede libero. Madre Monica, Padre Ortega e Padre Silva - sotto la muta direzione di Padre Garcia e a insaputa di Padre Vidal - non esitano a fare di Sandokan l’oggetto di una spedizione punitiva collettiva: l’uccisione dei levrieri del quartiere, avvalorata dalla soppressione dello stesso Fulmine, è imputata all’innocente e ignaro vagabondo. Sandokan (non sfugga che si tratta del solo personaggio, oltre a Fulmine, ad avere un nome aggressivo) viene letteralmente trasformato in vittima sacrificale, in “agnello di Dio”, come egli stesso si definisce in una delle sue invettive davanti alla casa (“Voi a un agnello di Dio sapete solo chiudere la porta in faccia!”) e come sarà ribadito nel delirante canto corale dell’epilogo (“Cordero de Dios que quitas el pecado del mundo, ten piedad de nosotros”). È in questo tumultuoso frangente che si precisa la funzione dei tre windsurfer che in precedenza abbiamo visto snobbare i tentativi di socializzazione di Padre Vidal: essi rappresentano la terza immagine del Cile, quella di un futuro totalmente indifferente alle sofferenze del passato e irritabilmente riluttante a scendere a patti con ciò che questo passato ha da offrire (alla proposta di dare una lezione a Sandokan dietro lauto compenso formulata da Padre Vidal, i giovani reagiscono picchiandolo e rifiutando il suo denaro, in un montaggio alternato che intreccia le percosse inferte all’ex sacerdote al feroce pestaggio di Sandokan).

Superando il realismo più estremo nel trattamento estetico e nella struttura narrativa, credo che questo film sia una testimonianza radicalmente politica e rilevante poiché materializza un sogno comune: che questi promotori della fede, questi guardiani di una classe, siano esposti al processo dei cittadini, un processo storico, poiché i lori atti sono stati a lungo diretti, hanno tratto profitto e sono stati nutriti dalla società civile; poiché essi hanno dimenticato e non hanno mai avuto la minima idea di reciprocità; poiché non hanno rispettato il contratto sociale. (Alfredo Castro)

Soppresso il cane e pestato a sangue Sandokan, l’equilibrio è ripristinato: un equilibrio senza dubbio diverso da quello iniziale ma sostanzialmente compatibile con l’esigenza di omertà e occultamento tuttora vigente. Nessun autentico rinnovamento della Chiesa, soltanto l’ennesima riverniciatura della facciata: la scheggia impazzita prodotta dagli abusi del passato viene riassorbita nella Casa di Dio (“Qui c’è Dio, Padre!”, ha precedentemente ricordato Padre García all’insolente Padre Ortega), viene letteralmente addomesticata. Neutralizzata e disinnescata, la mina vagante rappresentata da Sandokan può essere finalmente accolta nella casa (“Se date un letto a quest’uomo, mi dimentico di voi”, assicura Padre García), ribattezzata (Sandokan diviene Tommaso, l’apostolo che dubitò della resurrezione di Cristo) e accuratamente disinfettata (“La prima cosa da fare è finire di disinfettarlo”, sentenzia Padre Silva). L’impunità, ancora una volta, è garantita: “Amo la Chiesa e non voglio danneggiarla”, afferma Padre García per giustificare il suo silenzio; “Come non approfittare di questa magnifica opportunità che ci dà la nuova Chiesa per salvare le nostre anime?”, conclude sarcasticamente Padre Ortega. La sconcertante batteria di psicofarmaci richiesta infine da Sandokan/Tommaso per scongiurare eventuali episodi psicotici suggella definitivamente il carattere sedativo del suo recupero: l’ordine può essere mantenuto solo con l’aiuto dei farmaci, la tranquillità s’identifica ancora una volta con la catatonia.

Non abbiamo dato la sceneggiatura agli attori, soltanto poco prima che la scena venisse girata, sicché non sapevano che cosa fossero gli altri personaggi - era come un esercizio per vedere se funzionasse. (Pablo Larraín)

Portato dall’esterno e attento a non carbonizzare simbolicamente una materia già intrinsecamente incendiaria, lo sguardo di Larraín configura un microcosmo spaziale che riformula grottescamente e causticamente la retorica visiva dei reality show (non sembri fortuita la concomitanza della prima materializzazione di Sandokan con la visione del reality trasmesso dalla Televisión Nacional, così come la minaccia di Madre Monica a Padre García di chiamare la televisione nell’eventualità della chiusura della casa). Ma questa volta il Grande Fratello è nientemeno che Dio, l’onnisciente e onnipotente regista dello spettacolo che si svolge all’interno casa, spettacolo in cui i religiosi non sono altro che marionette, pupazzi eterodiretti, infantili e inconsapevoli agenti della sua volontà (“Dio è l’unico che sa. Lui sa. Noi siamo bambini, per questo non capiamo. Ma Lui è il Padre. Ed è il solo a sapere”, sussurra Madre Monica al singhiozzante Padre Vidal, disperato per la soppressione di Fulmine). Confessionali, dinamiche di alleanza e cospirazione, ostilità strisciante, sessualità vigilata ed esacerbata, sorveglianza permanente, ferree regole di condotta, infrazioni segrete, pasti collettivi nei quali si consumano chiassosi litigi: il repertorio narrativo e spettacolare del reality tintinna crudele in tutta la sua vitrea e narcotica trasparenza: “Todo modo para buscar la voluntad divina”.

Pubblicata su www.spietati.it.

2 commenti: