"Sono l’amore e la perdita a condurre Arthur Brennan (Matthew
McConaughey) all’altro capo del mondo, in Giappone, nella foresta fitta e
misteriosa di Aokigahara, nota come “la foresta dei sogni”, situata
alle pendici del Monte Fuji - un luogo in cui uomini e donne si recano a
contemplare la vita e la morte. Sconvolto dal dolore, Arthur penetra
nella foresta e vi si perde. Lì Arthur incontra Takumi Nakamura (Ken
Watanabe), un giapponese che, come lui, sembra aver perso la strada.
Incapace di abbandonare Takumi, Arthur usa tutte le energie che gli
restano per salvarlo" (dal pressbook).

È
piuttosto difficile mantenere un atteggiamento equilibrato di fronte al
sedicesimo lungometraggio cinematografico di Gus Van Sant, poiché
La foresta dei sogni, considerato separatamente dal resto della filmografia dell’autore di
Last Days (2005) e
Paranoid Park
(2007), può essere legittimamente considerato un coacervo di cliché
patetici, stratagemmi strappalacrime e simbolismi a buon mercato. Si
pensi all’alcolismo funzionale della moglie Joan (Naomi Watts) e al suo
tumore al cervello, questo imbattibile aggregatore di affettività che
opera da nemico comune in grado di risolvere le tensioni della coppia;
oppure si presti attenzione alla logica cinicamente accidentale che
proscioglie la stessa Joan dal verdetto canceroso per condannarla subito
dopo alla beffarda sentenza di un incrocio stradale; oppure si rifletta
sull’arsenale simbolico che ingombra sfacciatamente l’intera vicenda,
dalla foresta di Aokigahara come luogo di elezione del suicidio perfetto
all’orchidea che nel finale rimpiazza/ibrida Joan e Takumi (Ken
Watanabe), passando per l’intrico di fasce colorate che Arthur (Matthew
McConaughey) incontra all’inizio del cammino, la busta favolosa e gli
ideogrammi che nell’epilogo si riveleranno essere il colore e la
stagione preferiti da Joan.

Come
se non bastasse, a questo allestimento spudoratamente segnaletico (non
ci vengono risparmiati neppure i pannelli dissuasori di suicidio) e
metaforicamente frusto (la natura è un tempio, recita il poeta, l’uomo
vi passa attraverso foreste di simboli) si aggiunge un arrangiamento
narrativo che si premura accuratamente di non lasciare lacune o rebus
irrisolti: ci sarà un flashback, una magica coincidenza o una scoperta
in extremis a mostrare i dolorosi precedenti, correggere la rotta
suicida di Arthur e restituire alla vita la dignità di essere vissuta
nonostante le tragedie che colpiscono immancabilmente ognuno di noi. A
imporsi perentoriamente, insomma, è la filosofia del "just keep living",
declinata con una serietà così enfatica da sbriciolare il muro del
comico involontario nell’arco di un paio di sequenze (il punto di non
ritorno è già guadagnato con la comparsa delle manine rattrappite di un
cadavere che spunta tra gli alberi). Persino "kaidan", termine
giapponese che designa tradizionalmente le cosiddette storie di
fantasmi, viene impiegato nell’accezione di "scala", caricandosi di
connotazioni salvifiche e metaforiche: si tratta di risalire dalla
foresta purgatoriale a una nuova vita, conquistare un’esistenza
finalmente riappacificata con gli spettri che infestavano la coscienza e
definitivamente libera dal senso di colpa. Non sarà una vera e propria
scala al paradiso, ma la guarigione catartica ottenuta grazie al
generoso intervento di Takumi si approssima incautamente alla vittoria
fuori casa col conseguimento della salvezza insperata.

Meno deludente e improduttivo, invece, il raffronto col film di cui
La foresta dei sogni rappresenta a tutti gli effetti il controtipo positivo:
Gerry (2002), secondo chi scrive il capo d’opera di Gus Van Sant. Detto più chiaramente,
The Sea of Trees riempie a distanza il vuoto desertico creato da
Gerry. A partire dal titolo: laddove
Gerry
designava entrambi i protagonisti impedendo una loro individuazione
nominale (e di conseguenza gettando un’ombra di sospetto sulla reale
esistenza/consistenza di almeno uno dei due personaggi),
The Sea of Trees,
alla lettera "Il mare di alberi", sposta subito l’accento sulla
dimensione metaforica, piazzando il viaggio di Arthur sotto il segno
dell’allegoria dal valore universale. Con
Gerry ci trovavamo insomma nel registro del particolare indistinto, mentre con
The Sea of Trees
siamo immediatamente proiettati nell’universale localizzato (la foresta
di Aokigahara come "il luogo perfetto dove morire"). Foresta/deserto,
vita/morte, umidità/siccità, allegoria/fenomenologia,
didascalismo/enigmaticità, verbosità/laconicità, mutua
assistenza/ostilità crescente: sono queste le dicotomie fondamentali che
contrappongono
La foresta dei sogni a
Gerry.
Dicotomie alle quali occorre aggiungere il trattamento antitetico del
passato dei personaggi (dei due protagonisti del film del 2002 non
conoscevamo niente, del vissuto di Arthur e Takumi sappiamo tutto ciò
che occorre sapere) e l’opposta traiettoria morale disegnata dalle due
pellicole (all’assenza di qualsiasi mandato di speranza in
Gerry corrisponde, in
The Sea of Trees, il messaggio a caratteri cubitali "la vita vale la pena di essere vissuta perché è piena di sorprese e aiuti provvidenziali").

Ancora più delicata e ragguardevole la distanza psichica che separa la deriva disorientata di
Gerry dal tragitto introspettivo di
The Sea of Trees. Pur essendo film eminentemente mentali (emblematica la presentazione del "mare di alberi" sui titoli di testa de
La foresta dei sogni
prima dell’inquadratura frontale di Arthur in macchina: il luogo è già
nella sua mente), le due pellicole configurano dinamiche di spaesamento
diametralmente opposte. In
Gerry
la destinazione, ossessivamente chiamata "Thing" ("Cosa"), sembrerebbe
talmente facile da raggiungere da essere quasi inevitabile arrivarci -
"Ogni sentiero porta alla Cosa", veniva ottimisticamente detto nei primi
minuti da Gerry/Damon - e il seguito del film mostrerà di fatto
l’inattingibilità della Cosa stessa, mentre in
The Sea of Trees
non solo l’arrivo nella foresta di Aokigahara è un semplice
trasferimento senza intoppi, ma anche la scelta del luogo deputato al
suicidio viene effettuata senza troppe esitazioni. Se in
Gerry
la Cosa era irraggiungibile a causa dello smarrimento causato
dall’incapacità di fissare punti di riferimento affidabili nello spazio,
in
The Sea of Trees il punto di arrivo è guadagnato in tempi tecnici e senza alcun disorientamento.

Questa
enorme discrepanza nella concezione spaziale porta direttamente al
nucleo differenziale dei due film: il rapporto tra la dimensione
simbolica del linguaggio e quella del reale. L’insormontabile problema
che assilla i due
Gerry
risiede difatti nell’impossibilità di ritagliare simbolicamente lo
spazio, di formulare significanti in grado di fare presa sul reale per
articolarlo e ordinarlo cartesianamente (fare del territorio una mappa
mentale, in altri termini). I materiali verbali che essi producono
tendono al contrario a diradarsi, appiattirsi e "desemantizzarsi": la
Cosa svanisce e il nome Gerry finisce per coprire porzioni sempre più
vaste di reale, perdendo il proprio statuto di nome proprio per farsi
sostantivo pervasivo il cui significato sembra slittare da un oggetto
all’altro e da una situazione all’altra (si noti anche il mutamento di
categoria grammaticale: dal nome Gerry i due personaggi ricavano il
verbo corrispondente a indicare genericamente la mancata realizzazione
di un’azione utile). Persino i gesti dei due protagonisti si sganciano
dal piano del significato intenzionale per tradursi in puri e semplici
passaggi all’atto di natura pulsionale (l’aggressione finale di
Gerry/Damon nei confronti di Gerry/Affleck). In
The Sea of Trees,
al contrario, tutto è segno: Arthur scopre l’esistenza della foresta di
Aokigahara con una ricerca su Google - sempre più Pizia contemporanea -
e il contenuto verbale/iconico della ricerca si deposita subito nella
sua mente (si pensi nuovamente ai titoli di testa). La macchina
abbandonata alle soglie della foresta e i pannelli deterrenti al
suicidio, peraltro sottotitolati in inglese all’occorrenza, accolgono il
suo arrivo e lo avvisano a chiare lettere: qui siamo nell’ambito del
significato intenzionale e inconfondibile. Nulla è lasciato al caso, il
reale non ha niente di sconosciuto o intimamente misterioso: si viene
qui per morire e questo fatto è universalmente noto. Il senso condiviso e
risaputo celebra il suo trionfo: benché giapponese, Takumi parlerà
fluentemente in inglese, gli ideogrammi inizialmente indecifrabili
verranno tradotti nel finale e il corpo stesso del nipponico compagno di
sventura di Arthur si trasformerà miracolosamente in orchidea (non un
fiore a caso, ma quello preferito dalla moglie Joan). Da questa
angolazione, infine, è possibile contrapporre il vuoto nevrotico di
Gerry, pellicola in cui a imporsi è il vacillamento dubbioso e ossessivo dei protagonisti, alla pienezza psicotica di
The Sea of Trees,
film nel quale tutto è segno, metafora, allegoria. L’illusione di
consistenza soggettiva che la radicale certezza simbolica di
The Sea of Trees
genera senza soluzione di continuità (sovrimpressione permanente:
"tutto mi parla, tutto mi riguarda") lo connota inequivocabilmente come
un film paranoico e perversamente prossimo alla credenza delirante.
La foresta dei sogni diviene così, con una brusca torsione psicotica, "La foresta dei segni".