tag:blogger.com,1999:blog-91040731765536179082024-03-13T06:08:31.617-07:00cinema da denunciaABhttp://www.blogger.com/profile/05384764352572794697noreply@blogger.comBlogger87125tag:blogger.com,1999:blog-9104073176553617908.post-9145671394348347222017-04-12T02:29:00.000-07:002017-04-12T02:30:08.869-07:00LOVING<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Loving_ab.1.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Loving_ab.1.jpg" width="200" /></a>"Ispirato a una storia vera, <i>Loving</i> rende omaggio al coraggio e
all'impegno di una coppia mista, Richard e Mildred Loving, innamorati e
sposati nel 1958. La coppia è originaria di Central Point, una
cittadina della Virginia nella quale le comunità si integrano più
facilmente che nel resto del Sud degli Stati Uniti. Eppure è proprio la
Virginia, dove la coppia ha deciso di risiedere e fondare una famiglia,
che prima li condanna alla prigione e poi all'espulsione. Richard e
Mildred si trasferiscono allora coi figli in un modesto quartiere di
Washington. Tuttavia, anche se i parenti li accolgono nel migliore dei
modi, l'ambiente urbano non li fa sentire a casa. Spinta dall'imperioso
bisogno di abitare nella sua regione natale, Mildred trova infine il
modo di tornare in Virginia. Il loro caso giudiziario relativo ai
diritti civili, "Loving contro Virginia", finisce per essere giudicato
dalla Corte Suprema che, nel 1967, riafferma il diritto fondamentale del
matrimonio. Richard e Mildred tornano a casa e la loro storia d'amore è
divenuta, a partire da questa epoca, un modello agli occhi di numerose
coppie" (dal pressbook). </div>
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<br /></div>
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<br /></div>
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<a href="http://www.spietati.it/public/Loving_ab.3.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Loving_ab.3.jpg" width="250" /></a>Largamente ispirato al documentario HBO del 2011 di Nancy Buirski <a href="https://tubitv.com/video/312544/the_loving_story" target="“_blank”">The Loving Story</a>, <b>Loving</b>
racchiude in sé tutti i pregi e i limiti del cinema di Jeff Nichols.
Laconicità drammaturgica, padronanza della narrazione in atti distinti,
controllata scansione della temporalità e, soprattutto, compenetrazione
tra vicende rappresentate e circostanze ambientali: questi punti di
forza del suo cinema confluiscono limpidamente in <b>Loving</b>,
film che fa del radicamento in un'epoca determinata (la storia si
svolge tra la fine degli anni '50 e gli anni '60) e in luoghi ben
definiti (la Virginia, Washington) la propria ragione d'essere. Il
radicamento nel territorio rappresenta difatti l'asse portante del
quinto lungometraggio di Nichols, dal momento che i due protagonisti di <b>Loving</b>
(Ruth Negga/Mildred Loving e Joel Edgerton/Richard Loving) sono
entrambi forgiati e motivati dalla natura in cui sono vissuti - è lo
stesso Nichols a dichiararlo in un'intervista rilasciata a Michel Ciment
e Yann Tobin e pubblicata su <i>Positif</i>: "Penso che se si parla di natura, <i>Loving</i>
è il film più apertamente rivolto verso di essa. È certamente centrale
nei miei film, poiché, secondo me, forma i personaggi che vi hanno
vissuto. Ciò che voi siete è là dove avete vissuto". È d'altronde il
desiderio nutrito da Mildred di tornare in Virginia a costituire
l'autentica motivazione della richiesta di aiuto a Robert Kennedy e,
successivamente, dell'approvazione della battaglia condotta dall'Unione
Americana per le Libertà Civili, rappresentata dal binomio legale Bernie
Cohen (Nick Kroll) e Phil Hirschkop (Jon Bass).</div>
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<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Loving_ab.4.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Loving_ab.4.jpg" width="250" /></a>Eppure,
nonostante questa compenetrazione tra personaggi e spazio che
sembrerebbe suggerire un'apertura della narrazione alle suggestioni
ambientali, <b>Loving</b> è un film chiuso. Chiuso in un
involucro spaziotemporale e in una meticolosità filologica (si veda il
documentario di Nancy Buirski e si prenda atto che Nichols ha girato
svariate sequenze nei luoghi originali della vicenda) che,
paradossalmente, stabiliscono un dialogo ininterrotto col presente
attraverso una domanda implicita che serpeggia costantemente nella
coscienza dello spettatore: "al di là della cruciale questione
giuridica, le cose sono veramente cambiate?". Detto altrimenti, è
proprio in virtù della distanza storica ed estetica esibita dal film che
la relazione con la contemporaneità diventa effettiva e stringente. Ma,
secondo paradosso, questa comunicazione a distanza è ottenuta al prezzo
di una riduzione degli individui messi in scena a organismi vegetali,
piante che, sradicate dal territorio di origine, deperiscono e rischiano
la morte (il piccolo Donald investito da una macchina nella rumorosa e
minacciosa Washington). Una concezione vegetale dell'essere umano
probabilmente più retriva, tradizionalista e immobilista della legge
segregazionista sconfitta dai coniugi Loving e compagnia civile. La
contraddizione tra progresso sociale e regresso vegetale non potrebbe
essere più stridente e sconcertante.</div>
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<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Loving_ab.5.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Loving_ab.5.jpg" width="250" /></a>Ed
è alla luce di questo cortocircuito tra impianto politico libertario e
imprigionante radicamento intimistico (ancora una volta il pubblico
smentisce e mistifica il privato) che <b>Loving</b> evidenzia l'involuzione umanistica del cinema di Jeff Nichols a partire da <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=5327" target="“_blank”"><b>Mud</b></a> (2012). Un'involuzione che ha tutti i tratti dell'edulcorazione rassicurante: la paranoia dilagante di <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=4403" target="“_blank”"><b>Take Shelter </b></a>
(2011) si è andata diluendo in un umanismo consolatorio ancora
intralciato da grumi genuinamente scorretti e non completamente
addomesticati (ma non bastano le ipoteche di arrivismo che gravano
sull'avvocato rampante Bernie Cohen o le allusioni alla rapacità
mediatica per il caso costituzionale a riscattare <b>Loving</b> dalla parabola agiografica). E se <b>Midnight Special</b>
(2016), il più bello tra gli ultimi tre film del trentottenne regista
dell'Arkansas, conservava comunque una sua oscura carica nomade e
disturbante, <b>Loving</b> segna un ulteriore passo verso il paradiso artificiale del cinema edificante. Un paradiso sempre più simile a una serra.</div>
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<br /></div>
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Già pubblicata su <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=6061" target="_blank">www.spietati.it</a>.</div>
ABhttp://www.blogger.com/profile/05384764352572794697noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9104073176553617908.post-53396672282539042572017-04-02T01:46:00.000-07:002017-04-02T01:48:09.343-07:00JACKIE<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Jackie_ab_1.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Jackie_ab_1.jpg" width="200" /></a> </div>
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<br /></div>
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<br /></div>
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<br /></div>
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<br /></div>
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"Quando il Presidente Kennedy venne assassinato, la First Lady
Jacqueline Kennedy dovette tirar fuori tutto il suo coraggio per
superare il dolore e lo choc e ritrovare la fede, consolare i figli e
forgiare l'eredità storica del marito" (dal pressbook),</div>
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<br /></div>
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<br /></div>
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<br /></div>
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<br /></div>
<div style="text-align: right;">
<i>E così veniamo avanti<br />
simili in tutto a quelli di ieri<br />
aggrappati a un'immagine<br />
condannata a descriverci<br />
Dimmi, non è così?</i><br />
<br />
Massimo volume, <a href="https://youtu.be/yT46XPdZkzA" target="“_blank”">Le nostre ore contate</a></div>
<h3 style="text-align: justify;">
</h3>
<h3 style="text-align: justify;">
</h3>
<h3 style="text-align: center;">
Voglio essere il tuo specchio</h3>
<h3 style="text-align: justify;">
</h3>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Jackie_ab_3.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Jackie_ab_3.jpg" width="250" /></a> Chiuso il cerchio morbosamente penitenziale di <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=5749" target="“_blank”"><b>Il club</b></a>, è stata la volta della spirale pomposamente metanarrativa di <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=5945" target="“_blank”"><b>Neruda</b></a>,
film in cui i contorcimenti metadiscorsivi stritolavano ogni
possibilità di identificazione dello spettatore e boicottavano qualsiasi
ipotesi di definizione univoca del protagonista. L'insegna al neon che
sovrastava <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=5945" target="“_blank”"><b>Neruda</b></a>,
insomma, non faceva che saettare questa sentenza: "La verità è un gioco
di specchi". Un trito dogma modernista attorno al quale il film
intesseva una bulimica variazione stilistica, finendo per rimanerne
schiacciato. Resta il fatto che, pur soffocato dal suo stesso assunto, <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=5945" target="“_blank”"><b>Neruda</b></a> ruotava intorno all'idea di verità in quanto riflesso inafferrabile e inarrestabile.</div>
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<br /></div>
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</div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Jackie_ab_4.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Jackie_ab_4.jpg" width="250" /></a>Ebbene, è esattamente la stessa idea di verità come fuga di specchi a muovere e agitare <b>Jackie</b>.
Presentato in concorso a Venezia 2016, il settimo lungometraggio
cinematografico di Pablo Larraín si sviluppa secondo tre linee
ricostruttive che s'intersecano, disegnando un ritratto femminile
incorniciato dall'ossessione dell'identità riflessa sia dal punto di
vista biografico (Jackie come Mrs. John F. Kennedy) sia da quello
puramente grafico (Jacqueline come volto posto quasi ininterrottamente
di fronte a superfici riflettenti).<br />
<br />
1- L'intervista rilasciata a Theodore H. White (Billy Crudup) pochi
giorni dopo l'omicidio del marito e pubblicata su LIFE il 6 dicembre
1963 col titolo <a href="http://time.com/4581380/jackie-movie-life-magazine/" target="“_blank”">An Epilogue</a>.<br />
2 - Il programma televisivo <a href="https://www.youtube.com/watch?v=T7XabXENChE" target="“_blank”">A Tour of the White House with Mrs. John F. Kennedy</a> trasmesso sia dalla CBS che dalla NBC il 14 febbraio 1962 (nonché dalla ABC quattro giorni dopo).<br />
3 - Il colloquio, successivo all'intervista, col padre gesuita Richard McSorley (John Hurt) avvenuto nel 1964.<br />
<br />
In queste tre situazioni di discorso soggettivo e rappresentazione di
sé, Jacqueline Kennedy (Natalie Portman) è mostrata secondo tre
angolazioni diverse e complementari: apertamente pubblica nel frangente
televisivo (si tratta di esibire ufficialmente i lavori di
riqualificazione della Casa Bianca), in bilico tra pubblica e privata
durante l'intervista (l'intento di onorare e preservare l'eredità ideale
lasciata dal marito si alterna a momenti di fugace abbandono e
improvvisa fragilità), squisitamente confidenziale e privata in
occasione del dialogo col sacerdote gesuita (qui Jackie confessa a
McSorley i suoi pensieri più oscuri e autodistruttivi).</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<h3 style="text-align: center;">
Immagine perfetta, sensazione perfetta</h3>
<h3 style="text-align: justify;">
</h3>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Jackie_ab_5.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Jackie_ab_5.jpg" width="250" /></a>Ovviamente
è nel pannello sacerdotale che la questione della verità si fa più
cocente e dolorosa. Sollecitata dal reverendo McSorley ("God isn't
interested in stories. He's interested in the truth", le dice il padre
gesuita), Jackie si mostra finalmente disposta a ricordare e riferire
gli istanti più drammatici dell'assassinio di John a Dallas: "I told
everyone that I can't remember. It's not true. I can remember. I can
remember everything", confessa al sacerdote immediatamente prima che ci
vengano sciorinati gli highlights più tragici e sanguinosi
dell'omicidio. Ma, di fatto, l'interrogazione sulla verità percorre
l'intero film, fin dai primi scambi tra Jackie e Theodore H. White. In
una delle prime frasi rivolte al giornalista, la vedova Kennedy formula
sarcasticamente questa domanda: "The more I read, the more I wonder...
When something is written down, does that make it true?". E se White,
qualche minuto dopo, risponde alle punzecchiature della diffidente
Jackie proclamandosi cercatore di verità da bravo reporter ("I’m just
trying to get to the truth. That’s what reporters do"), lei replica
altezzosamente, liquidando in scioltezza questa ingenua pretesa e
dicendosi perfettamente consapevole del grande divario che esiste tra
ciò che la gente crede e ciò che lei sa essere reale ("Oh, the truth.
Well, I've grown accustomed to a great divide between what people
believe and what I know to be real").</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Jackie_ab_6.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Jackie_ab_6.jpg" width="250" /></a>Perché
per Jackie, e qui sta il vero nodo problematico del film, la verità
risiede nell'immagine. È per questo motivo che, fin dalle prime battute,
la rappresentazione televisiva viene da lei proposta sbrigativamente
come il superamento dell'arbitrarietà insita nella scrittura: "We have
television now. At least people can see for their own eyes". Per Jackie
vedere coi propri occhi equivale a conoscere la verità. Non è per
capriccio che esige il controllo sulla versione definitiva
dell'intervista: "You understand that I will be editing this
conversation? Just in case I don't say exactly what I mean", sibila
seccamente all'interdetto White ancor prima di farlo entrare in casa.
Per lei la parola scritta costituisce un insidioso strumento di
manipolazione e, al tempo stesso, un potentissimo dispositivo di
mitizzazione: "I believe that the characters we read about on the page
end up being more real than the men who stand beside us", confesserà al
sacerdote gesuita in una delle sue ultime battute. E non è mera vanità
quella che spinge la giovane First Lady a spalancare le porte della Casa
Bianca alle telecamere per mostrare agli occhi dei telespettatori
americani ("I didn’t do that program for me. I did it for the American
people") i lavori di personalizzazione di quella che nel programma verrà
ribattezzata "The People’s House": Jackie è davvero convinta che per
mezzo dell'immagine televisiva si possa toccare la verità con gli occhi,
eludendo le storture diffamanti o magnificanti della scrittura. Ed è
questa stessa convinzione circa le proprietà manipolatorie della
scrittura che la porterà a "camelotizzare", proiettandola in un reame
fatato, l’eredità ideale lasciata dal marito: "Maybe that's what they'll
all believe now. Camelot. People like to believe in fairy tales",
replicherà alla domanda di padre McSorley se la pubblicazione
dell'intervista l'abbia aiutata a guarire. Se l'immagine registra la
verità, la scrittura, per Jackie, sta sempre un gradino sotto o sopra la
percezione della realtà.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<h3 style="text-align: center;">
Questa è la tua faccia, dice</h3>
<h3 style="text-align: justify;">
</h3>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Jackie_ab_7.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Jackie_ab_7.jpg" width="250" /></a>Naturalmente
il film, e in ciò dovrebbe risiedere la sua modernità, si premura di
erodere questa fiducia sconsiderata nell'immagine, mostrandoci la
"dipendenza iconica" di Jackie in modo quasi caricaturale: dalla già
menzionata visita guidata nella Casa Bianca (il primo tour televisivo in
assoluto nella residenza presidenziale) al desiderio gloriosamente
lugubre confessato a McSorley di essere abbattuta davanti alle
telecamere durante la processione funebre allestita per il marito ("In
front of the whole world? Famous life, famous death", commenta
acutamente il padre gesuita), passando per la priorità assegnata agli
oggetti e agli artefatti sulle persone in carne e ossa ("Objects and
artifacts last far longer than people, and they represent important
ideas in history, identity, beauty", asserisce Jackie nell'intervista,
con aria sognante, a un sempre più interdetto White) e, soprattutto, per
la deliberata ostensione televisiva dei due orfani Kennedy in occasione
del trasferimento ufficiale del feretro al Campidoglio (alla
ragionevole ritrosia della devota segretaria Nancy Tuckerman/Greta
Gerwig "But the cameras. Those pictures are being broadcast to every
corner of the world", Jackie replica categoricamente "Those pictures
should record the truth. Two heartbroken, fatherless children are part
of that").</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Jackie_ab_8.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Jackie_ab_8.jpg" width="250" /></a>Ma
il tratto più impressionante di questa erosione iconica si concretizza
nella miriade di specchi e superfici riflettenti che accerchiano e
guatano Jackie, incorniciandola visivamente senza darle un attimo di
tregua. Jackie davanti allo specchio nell'Air Force One (il celebre SAM
26000 creato appositamente per John F. Kennedy) prima del bagno di folla
a Dallas; Jackie allo stesso specchio mentre si toglie, gli occhi
bagnati di lacrime, le macchie di sangue dal volto dopo l'omicidio del
marito; Jackie imprigionata in una fuga di specchi quando, nel suo bagno
alla Casa Bianca, si spazzola freneticamente le unghie per rimuovere le
incrostazioni ematiche; Jackie di fronte allo specchio nella camera
presidenziale mentre indossa i gioielli e si trucca per rivivere
idealmente, in passeggiate solitarie sulle note del musical <i>Camelot</i>,
l'incanto della dolce era perduta; Jackie allo specchio mentre prova il
velo funebre circondata dalle premurose attenzioni della fedele Nancy;
Jackie inquadrata attraverso il finestrino dell'auto su cui si
riflettono le sagome e i volti della folla durante il trasferimento del
feretro al Campidoglio: tutti momenti nei quali è confrontata con la
propria immagine speculare, posta di fronte a un'icona che rappresenta
totalmente la sua identità e alla quale ha consacrato l'intera
esistenza. Per lei, insomma, essere all'altezza di quell'immagine non è
questione di vanità, è semplicemente questione di sopravvivenza.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Jackie_ab_9.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Jackie_ab_9.jpg" width="250" /></a>Se
l'immagine televisiva, come osservato in precedenza, certifica la
verità sottraendola alle storture della scrittura, per Jackie l'immagine
speculare svolge parallelamente la funzione di incorniciatura
narcisistica. Detto altrimenti, lo specchio le restituisce una tangibile
proiezione immaginaria: un Io ideale che fa letteralmente corpo con la
sua immagine riflessa e la inchioda a un'identità puramente iconica.
Venuto meno il sostegno narcisistico veicolato dal marito (dico
"veicolato" perché in realtà, per la First Lady, l'autentica figura del
Grande Altro è rappresentata da Lincoln, di cui John F. Kennedy non
costituisce che un avatar mortale), a Jackie non resta che questo Io
ideale a cui aggrapparsi per non precipitare nel vuoto informe
dell'inconsistenza melanconica. E l'apoteosi di questa dipendenza
dall'immagine speculare è raggiunta quando, inscatolati i suo averi e
quelli dei figli in vista del trasloco imminente dalla Casa Bianca,
Jackie ingoia l'ennesima pillola e si guarda allo specchio: è come
sorpresa dalla propria immagine, è come se quella presenza la stesse
spiando. La camera a mano che la riprende di profilo destro si allontana
da lei e, con una soggettiva libera indiretta in cui la visione del
regista si impregna della sensibilità della protagonista, sposa la
traiettoria del suo sguardo, inquadrando il suo volto incorniciato dallo
specchio e mettendolo progressivamente a fuoco.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Jackie_ab_10.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Jackie_ab_10.jpg" width="250" /></a>Ridicolizzata
poco prima dal cognato Bobby (Peter Sarsgaard) e guatata dalla propria
immagine speculare, Jackie si sente obbligata a cambiare idea e imporre
la processione all'aperto dal Campidoglio alla cattedrale di St. Matthew
precedentemente annullata per motivi di sicurezza. Messa alle strette
dall'Io ideale che l'ha appena scrutata definendosi visivamente, Jackie
deve essere di nuovo all'altezza di quella immagine: il corteo funebre
avrà luogo e lei camminerà dietro alla bara del marito fino alla
cattedrale, nonostante le resistenze dell'entourage del neopresidente
Lyndon Johnson ("I've changed my mind. We will have a procession, and I
will walk to the Cathedral with the casket", informa con olimpica
sicurezza il recalcitrante Jack Valenti/Max Casella). Detto più
semplicemente, è stata la sua immagine speculare a farle cambiare idea,
ricordandole che lei è Jackie: non una povera vedova affranta e
remissiva, ma un'icona regale e combattiva. Si noti, di passata, il
parallelismo tra l'espressione meravigliosamente perplessa che Jackie
nota sul volto del marito morente ("He had the most wonderful expression
on his face, you know? Just before they'd ask him a question, just
before he'd answer, he looked puzzled", dice a White durante
l'intervista) e quella altrettanto esitante dell'immagine che la sta
fissando: è in questo preciso frangente, per mediazione della
perplessità, che avviene la coalescenza tra il supporto narcisistico
rappresentato fino a quel momento dall'immagine di John/Jack e il
riflesso speculare di Jackie stessa. Lo stato d'animo indovinato in
punto di morte sul volto del marito si riaffaccia a distanza sullo
specchio, investendo Jackie con autorità categorica: si tratta di
un'imperiosa saldatura narcisistica assimilabile a un enunciato
performativo che enfatizza le sue capacità di prestazione, rigonfiando
inaspettatamente il suo Io immaginario: "Questa è la tua faccia, dice".</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<h3 style="text-align: center;">
Sospesa tra questo corpo e la scena</h3>
<h3 style="text-align: justify;">
</h3>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Jackie_ab_11.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Jackie_ab_11.jpg" width="250" /></a>Se
a questi tratti caricaturali che definiscono la dipendenza di Jackie
dall'immagine aggiungiamo la sua ansia espositiva (la predilezione per
le folle, il desiderio di manifesti con la faccia di John affissi
ovunque, la determinazione megalomanica di riprodurre la magnificenza
della cerimonia funebre di Lincoln) e il suo timore per le ripercussioni
dell'autopsia sull'integrità visiva del marito ("Make sure they make
him look like himself", mormora terrorizzata al cognato Bobby),
l'intensità della sua iconofilia raggiunge livelli francamente
ossessivi. Un'ossessione per la propria immagine - e per quella del
marito come protesi narcisistica - che si presta a una doppia lettura:
storica e contemporanea. Nel primo caso si delinea il ritratto di una
donna che reca impressi i lineamenti culturali dei primi anni '60, ossia
l'impronta di quella civiltà dell'immagine di cui si occupavano e
preoccupavano proprio in quegli anni sociologi, teorici della
comunicazione e protosemiologi. Jackie come donna del suo tempo,
insomma, assoggettata all'etichetta e ai codici iconici che
determinavano il protocollo comportamentale dell'alienazione integrata
(ricordiamo scolasticamente che <i>Apocalittici e integrati</i> di Umberto Eco è del 1964).</div>
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<br /></div>
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<a href="http://www.spietati.it/public/Jackie_ab_12.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Jackie_ab_12.jpg" width="250" /></a>Nel
secondo caso, con un salto mortale che ci catapulta nella
contemporaneità, si configura al contrario il ritratto di una figura
femminile che assembla la propria esistenza affastellando immagini di
invidiabile classe ed eleganza, proponendosi come icona di stile.
Immagini social, in una parola. Che cosa suggerisce infatti, allo
spettatore contemporaneo, quel formato orizzontale dell'immagine
speculare che costringe Jackie a essere all'altezza della propria
rappresentazione se non un'immagine di copertina? Dall'immagine da
copertina per le riviste degli anni '60 e programmi televisivi vincitori
di Emmy (<i>A Tour of the White House with Mrs. John F. Kennedy</i>
valse alla First Lady il prestigioso riconoscimento) all'immagine di
copertina/profilo dei mezzi di autorappresentazione contemporanea
(Facebook, Instagram, Pinterest, Tumblr e via postando) il salto è
discontinuo e azzardato, certo, eppure è proprio in questo balzo
spericolato che, secondo chi scrive, è dato indovinare lo straripamento
nell'ossessione visiva che contraddistingue la costruzione dell'identità
odierna. Una spericolatezza che, tuttavia, precipita nell'ovvietà di
una constatazione lapalissiana.</div>
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<a href="http://www.spietati.it/public/Jackie_ab_13.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Jackie_ab_13.jpg" width="250" /></a>Jackie,
dunque, non è soltanto ossessionata dal controllo della propria
immagine, ma, secondo una dinamica più insidiosa e perversa, è
controllata ossessivamente dalla propria immagine, in un circuito chiuso
di rappresentazione iconica condannata a descriverla. Il processo
erosivo nei confronti di questo circolo vizioso si conclude
emblematicamente nel prefinale quando, abbandonata la Casa Bianca e
seppelliti i due figli ad Arlington accanto al marito, Jackie vede dalla
limousine alcuni manichini a sua immagine e somiglianza nelle vetrine
della città e altri scaricati da un camion per essere esposti: la
reificazione iconica ha completato il suo percorso, trasformandola in
vero e proprio oggetto di consumo visivo, simulacro mercificato,
fantoccio da esposizione. E così il mosaico di sintomi paranoici,
nevrotici e narcisistici che compone il ritratto di Jackie sbozzato da
Larraín sulla sceneggiatura di Noah Oppenheim rimbalza sull'iconofilia
contemporanea per interposta bacheca, finendo per mostrarci
tautologicamente la nostra dipendenza dall'immagine nella costruzione
inesausta della nostra identità social.</div>
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<a href="http://www.spietati.it/public/Jackie_ab_14.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Jackie_ab_14.jpg" width="250" /></a>A
questo invero logoro motivo di riflessione si congiunge, infine, un
altro elemento di non straordinaria originalità, quello
dell'ineludibilità consolatoria della dimensione narrativa. La favola
leggendaria recuperata da Jackie per mitizzare idealmente l'era Kennedy,
difatti, si delinea in modo sempre più evidente come una costruzione di
fantasia necessaria a incapsulare il nucleo traumatico realmente
vissuto. Senza armatura narrativa il reale si presenterebbe a Jackie
come un vuoto letteralmente insopportabile, donde la necessità di
compensare e rivestire questo vuoto con una <i>fabula</i> che ne smorzi
il potenziale distruttivo e disgregativo, trasfigurandolo in racconto
mitologico ("Don't let it be forgot/That once there was a spot/For one
brief, shining moment/That was known as Camelot", recita il refrain del
brano tanto amato dal compianto marito). Dal vuoto reale della morte
alla pienezza consolatoria del mito favoloso, passando per la
vischiosità dell'ossessione iconica: ecco la parabola tracciata con
limpido rigore disegnativo da Larraín. Messa in scena che nevrotizza,
aggiornandoli, i parametri stilistici della regia televisiva americana
anni '60 (l'impressione di trovarsi in una sorta di TV show impazzito è
suscitata dalla frontalità, dalla secchezza e dalla frammentazione del
dettato visivo), commento musicale sinuosamente dissonante di Mica Levi
(le riconoscibili frenate sonore della compositrice britannica si aprono
gradualmente ad ariose vibrazioni di fiati e archi) e interpretazione
di necrofilo mimetismo di Natalie Portman, che nell'epilogo stringe
guantata il suo John/Jack, danzando beatamente tra le sue braccia,
quelle di un cadavere squisito. Continuamente sospesa tra questo corpo e
la scena.</div>
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<br /></div>
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Già pubblicata su <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=6029" target="_blank">www.spietati.it</a>. </div>
ABhttp://www.blogger.com/profile/05384764352572794697noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9104073176553617908.post-18689853124494686432017-03-31T01:19:00.000-07:002017-04-02T01:47:05.192-07:00AQUARIUS<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Aquarius_ab_1.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Aquarius_ab_1.jpg" width="200" /></a> </div>
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<br /></div>
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<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
"Clara è un critico musicale e vive in un piccolo palazzo degli anni
Quaranta chiamato "Aquarius", che si affaccia sullo splendido lungomare
di Recife. Una compagnia immobiliare ha già acquistato tutti gli
appartamenti dell'edificio per farne un grattacielo di lusso, ma Clara è
decisa a non cedere la casa a cui è legata dai ricordi di una vita.
Dopo i primi approcci amichevoli, gli speculatori ingaggiano una vera e
propria guerra fredda con la donna, in un crescendo di violenza
psicologica: abituata da sempre a combattere, Clara non ha però
intenzione di arrendersi, neanche davanti all'ultima, sconvolgente
minaccia" (dal pressbook). </div>
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<br /></div>
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<br /></div>
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<br /></div>
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<br /></div>
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<a href="http://www.spietati.it/public/Aquarius_ab_3.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Aquarius_ab_3.jpg" width="250" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
Fortemente ostacolato e al contempo sopravvalutato per motivi di carattere politico (non soltanto per la plateale <a href="https://youtu.be/MCd1JpaYTLY?t=13m37s" target="“_blank”">protesta cannense</a> contro la destituzione di Dilma Rousseff, ma anche per la presenza nel film di tematiche politicamente connotate), <b>Aquarius</b>
rappresenta, al di là di questi aspetti concomitanti, il lavoro più
emblematico di Kleber Mendonça Filho. Regista con burrascosi trascorsi
da critico, Mendonça Filho (classe 1968) ha concepito nel corso del
tempo un universo cinematografico che, frequentando varie forme e
formati audiovisivi (VHS, Betacam,DV, HD, 35mm) senza stabilire nette
divisioni tra loro, ruota immancabilmente attorno alla città brasiliana
di Recife. Un microcosmo deliberatamente ingabbiato che, come recita il
titolo del primo cortometraggio che lo ha reso voce di rilievo nel
panorama brasiliano (<a href="https://vimeo.com/10153595" target="“_blank”">Enjaulado</a>,
1997), gravita intorno a ossessioni ricorrenti: l'insicurezza intrisa
di paranoia, la diffusione del terrore fin dall'infanzia (<a href="https://www.youtube.com/watch?v=5xHcN8gGC_Y" target="“_blank”">A Menina do Algodão</a>, 2003), il regime mutilante delle prescrizioni domestiche (<a href="https://www.youtube.com/watch?v=Qy551QVbTmw" target="“_blank”">Vinil Verde</a>, 2004), la repressione sessuale (<a href="https://vimeo.com/10022944" target="“_blank”">Eletrodoméstica</a>, 2005), le sconcertanti mutazioni ambientali (<a href="https://vimeo.com/9970440" target="“_blank”">Recife Frio</a>, 2009), la mania del controllo fomentata dalle disuguaglianze sociali (<b>O Som ao Redor</b>, 2012) e le surreali aberrazioni urbanistiche dettate dalla virulenza delle logiche economiche (<a href="https://vimeo.com/groups/405846/videos/118166306" target="“_blank”">A Copa do Mundo no Recife</a>, 2015).</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<i>I miei film contengono degli elementi ricorrenti, dei motivi che
circolano. Ma a un certo momento ho avuto voglia di uscire da casa mia
dove sono stati girati tutti i miei primi film, ivi compreso </i>Vinil Verde<i> che oggi è un classico del cortometraggio brasiliano. Filmare nella strada</i> (Kleber Mendonça Filho).</div>
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<br /></div>
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<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Aquarius_ab_4.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Aquarius_ab_4.jpg" width="250" /></a>Ebbene, questo universo accanitamente “recifecentrico” trova in <b>Aquarius</b>
il suo coronamento e il suo perno gravitazionale ultimo. Nella figura
di Clara (Sonia Braga), donna sessantenne assediata e insidiata da una
spregiudicata compagnia immobiliare che intende demolire la sua
abitazione per rimpiazzarla con un lussuoso grattacielo, si fondono
insieme tre componenti strutturali del cinema di Mendonça Filho:
l'analisi particolareggiata di un personaggio cocciuto e tutt'altro che
accondiscendente, l'identificazione della protagonista con l'edificio
che custodisce la sua storia e, infine, l'inseparabilità del soggetto
dal luogo che oggettiva affettivamente la sua esistenza. Difficile non
riconoscere in questa triplice alleanza tra individuo, storia e spazio
affettivo un autoritratto per interposta Sonia Braga dello stesso
Mendonça Filho: ostinatamente aggrappato alla sua città natale, il
regista pernambucano rivendica con <b>Aquarius</b>, film
radicale se mai ve n'è stato uno, un'indipendenza irriducibile e non
negoziabile, incidendo sul corpo della sua protagonista (non a caso
critico musicale, proprio come lui è stato critico cinematografico) i
segni di un passato tanto vulnerato quanto vittorioso (la guarigione dal
cancro al seno che le è costata l'asportazione della mammella destra).
In questo senso l'imperfezione estetica si dà a leggere fin troppo
facilmente come cicatrice di vitalità e indisponibilità al compromesso:
segno di gloria imperfetta che testimonia l'irriducibilità a
uniformarsi, anche se questo comporta un minor potere di seduzione
(l'episodio dell'uomo che si ritrae subito dopo aver saputo della sua
operazione chirurgica). Una donna e un cinema senza plastica e trucchi
cosmetici, insomma, ma irriducibilmente personali, combattivi e vitali.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<i>Avevo un tavolo di montaggio VHS a casa mia, con un monitor in
bianco e nero. Ho realizzato numerosi video a piccolo budget. Uno di
questi tratta della demolizione di una casa: <a href="https://www.youtube.com/watch?v=hNFnZg_5U1g" target="“_blank”">Paz a Esta Casa</a>.
Il film è del 1994 e dura un minuto. Conoscevo la famiglia che viveva
lì. Il film realizzava una predizione oscura su ciò che poteva succedere
a questa casa. La famiglia era assai contrariata. Ma 23 anni più tardi
la mia oscura predizione si è avverata. È allora che ho avuto l'idea di </i>Aquarius.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
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</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Aquarius_ab_5.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Aquarius_ab_5.jpg" width="250" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
"Doña
Clara c'est moi" sembra dunque essere il motto che attraversa in
filigrana l'intero film: intervistata da due giovani giornaliste, Clara
ostenta nei confronti dei supporti di registrazione e riproduzione
musicale (vinili, cassette, MP3, streaming) la stessa apertura e la
stessa disinvoltura che hanno contraddistinto la produzione audiovisiva
di Mendonça Filho negli anni '90 ("Ho utilizzato più o meno tutti i
formati video esistenti negli anni '90: Betacam, Super VFIS, VHS, Super
8, 8 mm video, U-matic"). Secondo lungometraggio cinematografico del
regista di Recife dopo <b>O Som ao Redor</b> (<i>Neighboring Sounds</i>, 2012), <b>Aquarius</b>
è del resto un film in cui la rappresentazione di sé attraverso segni
tangibili e visibili costituisce inequivocabilmente l'elemento dinamico
della vicenda: i dischi, i libri, le fotografie e i mobili che
costellano l'abitazione di Clara non sono soltanto oggetti di arredo
domestico, ma contenitori di storie, "messaggi in bottiglia" (come
illustra Clara alla confusa intervistatrice, riferendosi all'album <i>Double Fantasy</i>
comprato in un negozio di dischi usati a Porto Alegre). Questi "oggetti
speciali" (altra definizione di Clara) sono custodie di memoria,
scrigni che racchiudono il passato personale e familiare: si pensi al
mobile della settantenne zia Lucia (Thaia Perez), vera e propria
macchina del tempo che catapulta il film dal 1980 del prologo ai momenti
in cui la stessa Lucia, usandolo come supporto erotico, faceva l'amore
col suo amante decenni prima. Ovviamente questo mobile, ormai divenuto
emblema di una femminilità attiva e indipendente in virtù delle
connotazioni acquisite, non potrà mancare nella casa di Clara.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<i>Inizialmente volevo filmare il caos urbano di Recife: prolungare </i>O Som ao Redor<i>,
ma stando meno nell'osservazione e più nell'azione. Cosa succede quando
una cosa, benché molto bella, è giudicata inadeguata e superata in una
società? […] Succede la stessa cosa sul piano del paesaggio urbano in </i>Aquarius<i>.
Verso la fine del film si vede in campo lungo questa donna molto
sottile che torna dal droghiere tra edifici immensi. Sembra non avere
niente a che fare con la strada, così inospitale per i pedoni.</i></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Aquarius_ab_6.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Aquarius_ab_6.jpg" width="250" /></a>Ma
se Doña Clara è un ritratto di Mendonça Filho per interposta
protagonista, essa, come osservato in precedenza, fa anche corpo con
l'edificio in cui vive. Anzi, la stessa esistenza di Clara è
letteralmente indissociabile dall’Aquarius ("Me ne andrò da qui solo
morta!", tuona al giovane imprenditore Diego in uno degli scambi più
accesi del film). Pur essendo la sola ad abitare nell'edificio in
predicato di demolizione, lei ne incarna la memoria storica (non è
fortuito che l'Aquarius abbia sessant'anni, la sua stessa età), ne
rappresenta il cuore indomito e la linfa vitale (anche la riverniciatura
della facciata da bianca a blu è segno di questa vitalità inesausta):
se l'Aquarius costituisce il corpo architettonico di Doña Clara, Doña
Clara rappresenta il documento vivente dell'Aquarius. In questa
circolazione di identificazioni (Mendonça Filho/Clara/Aquarius) nella
quale la rappresentazione esprime e documenta totalmente l'esistenza,
l'attacco erosivo sferrato dalla compagnia Bonfim con l'infestazione di
termiti riproduce vistosamente nel corpo dell'edificio la patologia
cancerosa (la ragnatela di tunnel come diffusione di metastasi) che
Clara ha conosciuto sul proprio corpo ("Sono sopravvissuta a un cancro,
più di 30 anni fa, sapete? Ultimamente ho riflettuto su una cosa.
Preferisco far prendere un cancro a voi, piuttosto che averlo io",
sibila Clara prima di rovesciare sul tavolo della compagnia Bonfim le
tavole di legno infestate di termiti).</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<i>Questo finale opera a più livelli. Può sembrare ottimista o
totalmente pessimista. Ma i primi piani finali sono molto inquietanti,
lo so bene… Con delle termiti tutti i documenti della vostra vita
spariscono. Distruggono tutti i documenti di questa famiglia.</i></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Aquarius_ab_7.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Aquarius_ab_7.jpg" width="250" /></a>Ma è proprio a causa di questa dimensione di apologo emblematico che, alla luce delle considerazioni precedenti, <b>Aquarius</b>
si rinchiude scientemente in un'idea di piacere cinefilo totemico,
chiuso su se stesso e autolegittimante, sacrificando l'ambiguità
potenziale delle immagini sull'altare dell'evidenza totale (Mendonça
Filho: "Il vero piacere cinefilo è quando incontrate il cineasta e vi
dite che un'evidenza lo lega al suo film: il film lo esprime
totalmente"). In questa idea di film come documento rappresentativo e
certificato biografico del cineasta, insomma, il cinema si tramuta in
ufficio anagrafe e riserva protetta, habitat cinefilo in cui crogiolarsi
in una visione ingabbiata e tre volte riflessa. Tutto è segno in <b>Aquarius</b>, segno che <b>Aquarius</b>
è un tutto: un microcosmo a tenuta stagna dal quale non trapela una
sola goccia incontrollata. Cullante illusione di consistenza.</div>
<div style="text-align: justify;">
Le dichiarazioni di Kleber Mendonça Filho contenute nella recensione
sono ricavate e tradotte dall'intervista rilasciata a Élise Domenach
pubblicata su "Positif" col titolo <i>Se sentir proche d'un film, c’est une chose très belle</i> (n.668, ottobre 2016, pp. 25-29). </div>
<div style="text-align: justify;">
Ringrazio Luca Pacilio per la segnalazione dell'interessante intervista.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Già pubblicata su <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=5983" target="_blank">www.spietati.it</a>. </div>
ABhttp://www.blogger.com/profile/05384764352572794697noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9104073176553617908.post-37157323801982602772016-11-12T02:52:00.002-08:002016-11-12T02:52:57.991-08:00UN CONDANNATO A MORTE È FUGGITO <div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Un_condannato_a_morte_%C3%A8_fuggito_ab_1.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Un_condannato_a_morte_%C3%A8_fuggito_ab_1.jpg" width="200" /></a> </div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Lione, 1943. Accusato di spionaggio e preparazione di un attentato,
il tenente Fontaine è imprigionato in un carcere controllato dalle forze
di occupazione tedesca dopo un disperato tentativo di fuga. Condannato
alla fucilazione, Fontaine escogita un piano di evasione servendosi dei
pochi mezzi che la situazione gli mette a disposizione: un cucchiaio,
del fil di ferro, coperte, ganci fabbricati con la cornice della
lanterna. E, soprattutto, facendo affidamento sulla sua inflessibile
volontà.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<h3 style="text-align: center;">
Un uomo e una porta</h3>
<h3 style="text-align: center;">
</h3>
<div style="text-align: justify;">
<i>Il reale di cui i film di Bresson recano testimonianza non è
deducibile che dalla messa in scena. Che questa percezione sia stata
l'oggetto di una ricerca, di un brancolamento che ha condotto a
stabilire un sistema singolare, questo è noto e </i>Un condannato a morte è fuggito<i> ne segna senza dubbio la rottura. […] Il </i>Condannato<i>,
precisamente, è la prima pellicola di Bresson che utilizza
sistematicamente gli elementi - firma se vogliamo - che sono il marchio
dei suoi film: frammentazione dello spazio, non-attori, meccanizzazione
della recitazione e della dizione…</i>
</div>
<div style="text-align: justify;">
Philippe Arnaud,"Robert Bresson".</div>
<br />
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Un_condannato_a_morte_%C3%A8_fuggito_ab_3.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Un_condannato_a_morte_%C3%A8_fuggito_ab_3.jpg" width="250" /></a>Un film su un uomo e una porta: ecco che cos'è <strong>Un condannato a morte e fuggito</strong>.
In questa porta che separa Fontaine dal primo spiraglio di libertà si
materializza il caso inteso come coincidenza e destino: l'accidente e il
senso. Per raggiungere la libertà ventilata dall'aria che s'intrufola
nella finestra della sua cella ("Il vento soffia dove vuole"), Fontaine
deve innanzitutto misurarsi con questa barriera di legno che lo porterà
ancora di più all'interno del carcere, nelle sue ignote anfrattuosità
("Il fallait que cette porte s'ouvre, je n'avais rien prévu pour après";
"Occorreva che questa porta si aprisse, non avevo previsto niente per
dopo"). Per conquistare l'aria, deve sprofondare nell’orizzonte interno
delle cose, spingersi nell'ignoto. Disperato e disilluso ("Non mi facevo
alcuna illusione sulla sentenza"), Fontaine deve al caso e
all'inoperosità la sua prima intuizione evasiva ("Fu per un caso che
riuscii a fare il primo passo verso la libertà"): seduto davanti alla
porta, non avendo nient'altro da fare che posarvi lo sguardo, si accorge
che l'interstizio tra le tavole di quercia è di un legno diverso, più
tenero e intaccabile ("Sicuramente esisteva il modo di smontare la
porta"). Inizia così la sua lotta implacabile contro gli ostacoli che lo
separano dalla libertà.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Un_condannato_a_morte_%C3%A8_fuggito_ab_4.gif" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Un_condannato_a_morte_%C3%A8_fuggito_ab_4.gif" width="250" /></a>Ma
ciò che Fontaine opera sulla porta non è troppo dissimile dal gesto
cinematografico che Bresson compie sulla compattezza della realtà:
inciderla, frammentarla e ricomporla per raggiungere una dimensione
ulteriore. Manomettere la realtà per scassinarla e raggiungere l'ignoto,
il mistero. Pazientemente: con un lavoro di scomposizione e
ricomposizione che non mostri i segni della manomissione se non in
quanto indizi impercettibili, tracce appena visibili. Impalpabili. È un
lavoro nel quale la ricomposizione della superficie scheggiata (non è
forse, quella di Fontaine, una montatura che rievoca il montaggio?)
comporta una cura tanto attenta e premurosa quanto la scomposizione
preliminare: "Ce qui me prenait beaucoup de temps c'était la remise en
place et le camouflage" ("Ciò che mi prendeva molto tempo era la
ricomposizione e la mimetizzazione"). In questa volontà inflessibile si
fondono intenzioni e gesti del prigioniero Fontaine e del cineasta
Bresson: uomini che, per raggiungere una dimensione negata dalla realtà,
smontano e rimontano la materia prima, ognuno con i mezzi ridotti che
questa stessa realtà, accidentalmente, mette a loro disposizione.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Un_condannato_a_morte_%C3%A8_fuggito_ab_5.gif" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Un_condannato_a_morte_%C3%A8_fuggito_ab_5.gif" width="250" /></a>Ecco
precisarsi con argenteo rigore l'«anti-sistema» di Bresson: suggerire,
per via d'immagini allusive, l'orizzonte interiore del mondo, ciò che
avviene tra le cose. Si tratta di una strategia quasi militare
("Cinématographe, art militaire. Préparer un film comme une bataille", <i>Note sul cinematografo</i>):
accerchiare ciò che non è immediatamente o direttamente figurabile
attraverso un'attitudine privativa che sottragga la visione integrale
dello spazio e degli eventi. Una forma ablativa di rappresentazione che
fa dell'assenza il suo centro gravitazionale: ciò che non vedi è quello
che conta, è lì che risiede il mistero. Il cuore dell'azione scompare
(la <a href="https://www.youtube.com/watch?v=vIux68hUlgY" target="“_blank”">prima sequenza</a>
del film lo annuncia a chiare lettere), inghiottito dall'enigma che
cela e rivela al contempo: il procedimento metonimico (la parte per il
tutto o la sostituzione della causa con l'effetto) ne è il precipitato
estetico. Nel vuoto, la verità infigurabile.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Un_condannato_a_morte_%C3%A8_fuggito_ab_6.gif" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Un_condannato_a_morte_%C3%A8_fuggito_ab_6.gif" width="250" /></a>Sarebbe
inutile e scriteriato tentare di dire qualcosa di nuovo su un film di
cui è stato già detto tutto (per le informazioni di prammatica
rivolgersi altrove, grazie). Ciononostante, mi preme mettere in luce un
aspetto paradossale che mi ha profondamente colpito durante l'ennesima
revisione di questo capolavoro (per una volta l'abusato termine ritrova
la sua luminosità): il quarto lungometraggio di Bresson, di cui onoriamo
qui i sessanta anni dalla sua uscita nelle sale francesi, dimostra con
adamantina chiarezza che per raggiungere la verità (l'evocazione del
segreto dell'essere attraverso la menzogna di ciò che appare ma non è)
occorre un costante e inesorabile sforzo di falsificazione. In <strong>Un condannato a morte è fuggito</strong>
tutto è all'insegna dell'impostura: si pensi alla falsa innocenza dei
prigionieri di fronte allo sguardo dei sorveglianti (l'apparente
docilità dei detenuti nasconde una febbrile attività clandestina), alla
falsa staticità (una miriade di microeventi brulica nel film, mettendo
lo spettatore in un ininterrotto stato di allarme), alla falsa
appartenenza del film al genere carcerario (la prigionia di Fontaine non
è che un pretesto per parlare della reclusione esistenziale di ogni
essere umano), alla falsa impronta fenomenologica (la forte
frammentazione della continuità smentisce di fatto il postulato
dell'oggettività) e, infine, alla falsa letterarietà (il sapore
distintamente letterario della voce narrante di Fontaine non intacca la
disadorna austerità dell'arrangiamento visivo). Ciò che appare attiene
alla menzogna, insomma, e il suo solo compito è quello di evocare la
dimensione del segreto: l'essere implica il non apparire. E il cinema di
Bresson perseguirà sempre più radicalmente, da <strong>Pickpocket</strong>
(1959) in poi, titolo sottrattivo se mai ve n'è stato uno, questa
rapina del visibile a esclusivo vantaggio dell'essere. Perché vedere
tutto significa mancare la pungente intensità delle cose.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<i>Qualche giorno fa, traversando i giardini di Notre-Dame, incrocio
un uomo i cui occhi colgono dietro di me qualcosa che io non posso
vedere e s'illuminano d'improvviso. Se, contemporaneamente all'uomo,
avessi visto la giovane donna e il bambino verso i quali si mise a
correre, quella faccia felice non mi avrebbe tanto colpito; forse non ci
avrei nemmeno fatto caso.</i>
<br />Robert Bresson, "Note sul cinematografo".</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<h3 style="text-align: center;">
Nota sul doppiaggio</h3>
<h3 style="text-align: center;">
</h3>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Un_condannato_a_morte_%C3%A8_fuggito_ab_8.gif" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Un_condannato_a_morte_%C3%A8_fuggito_ab_8.gif" width="250" /></a>Non
saprei dire con esattezza quante versioni di questo film abbia visto
(probabilmente intorno alla dozzina), ma di una cosa sono certo: vedere <strong>Un condamné à mort s'est échappé</strong>
in originale costituisce un'esperienza totalmente diversa rispetto alla
versione doppiata. Oltre alle consuete alterazioni linguistiche che
ogni traduzione comporta e oltre all'inevitabile perdita del carattere
macchinico della dizione così cruciale in Bresson, in questo caso
assistiamo ad altri due fenomeni letteralmente aberranti. In primo luogo
è anche la sintassi del testo originale a subire plateali distorsioni e
omissioni: giusto a titolo di esempio, "Durant l'attente, dans la cour,
je m’étais habitué à l'idée de la mort. J'aurais préféré une exécution
immediate" diventa "Abituarsi alla morte… Ero così vicino alla fine da
desiderarlo". In secondo luogo, soprattutto, è l'assedio costante dei
rumori del carcere, un vero e proprio traffichio persecutorio, a ridursi
ad amorfo e smorzato rumore di fondo. E così questo concerto per
cucchiaio, chiavi e fil di ferro in do minore si tramuta in un film in
sordina.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Pubblicata su <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=5949" target="_blank">www.spietati.it</a>. </div>
ABhttp://www.blogger.com/profile/05384764352572794697noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-9104073176553617908.post-66349735103045852422016-10-14T15:23:00.000-07:002016-10-14T15:23:36.490-07:00FRANTZ<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Frantz_ab_loc_1.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Frantz_ab_loc_1.jpg" width="200" /></a> </div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
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<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Al termine della Prima guerra mondiale, in una cittadina tedesca, Anna
si reca tutti i giorni sulla tomba del fidanzato Frantz, morto al fronte
in Francia. Un giorno incontra Adrien, un giovane francese anche lui
andato a raccogliersi sulla tomba dell'amico tedesco. La presenza dello
straniero nella cittadina tedesca susciterà reazioni sociali molto forti
e sentimenti estremi (dal pressbook). </div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
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<br /></div>
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<br /></div>
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<br /></div>
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<br /></div>
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<br /></div>
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Presentato in concorso alla 73ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia.<br />
Premio Marcello Mastroianni a Paula Beer per la miglior attrice emergente.<br /> Distribuito nelle sale cinematografiche italiane il 22 settembre 2016.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<h3>
I - Premessa autoreferenziale: il principio vitale della metamorfosi </h3>
<h3>
<br /></h3>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Frantz_ab_1.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Frantz_ab_1.jpg" width="250" /></a>Nel secondo numero di <a href="http://www.bietti.it/riviste/francois-ozon/" target="“_blank”">INLAND. Quaderni di cinema</a>,
ho tentato di individuare ciò che, semplificando quel tanto che basta a
rappresentarsi le cose, ho definito l'"elemento ozoniano", vale a dire
quell'elemento capace di assumere la posizione di fulcro nell'intero
cinema di François Ozon, assicurando all'insieme dei suoi film
un'organizzazione dinamica e singolare. Mi permetto di rimandare
spudoratamente al contributo di INLAND poiché lì passo in rassegna la
sua intera filmografia alla luce di questo ipotetico elemento
fondamentale (cosa che mi asterrò scrupolosamente dal fare in questa
sede). Mette comunque conto riportare sinteticamente l'ipotesi formulata
in quel breve saggio, perché di fatto è la stessa che orienta le
seguenti riflessioni. In <a href="http://www.bietti.it/riviste/francois-ozon/la-pelle-e-la-traccia-riscritture-del-se/" target="“_blank”"><i>La pelle e la traccia: riscritture del sé. Il cinema trasformazionale di François Ozon</i></a>
ipotizzo dunque che questo fatidico elemento risieda nell'esigenza di
cambiare continuamente pelle, mantenendo come traccia permanente la
riscrittura dell'identità: "Non una variazione sul tema identitario
condotta con sguardo immutabile, ma una dialettica che impegna e investe
lo statuto dello stesso sguardo: l'epidermide muta di pellicola in
pellicola, la traccia persiste nella metamorfosi stessa". Nel cinema di
Ozon, insomma, ogni pellicola (alla lettera "piccola pelle") non farebbe
che ripeterci questo: l'identità resta florida solo a condizione di
mutare, il suo nucleo vitale non coincidendo affatto con l'unità
definitiva e difensiva ma, al contrario, con la trasformazione
permanente. Questo, in estrema sintesi, quello che ritengo essere
l'elemento specifico, originario e semplicemente irrinunciabile del suo
cinema, elemento che a mio avviso trova compiuta incarnazione in <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=2144" target="“_blank”"><strong>Ricky</strong></a>,
infante alato nel quale convergono, facendo e facendosi corpo, i tratti
di un'identità rigogliosa poiché libera di dispiegare le marche della
differenza e quelli di un cinema che della metamorfosi ha fatto un vero e
proprio principio vitale.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Frantz_ab_2.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Frantz_ab_2.jpg" width="250" /></a>Osservato
da questa angolazione, il radicale del cinema di Ozon coinciderebbe
quindi con la mutazione pellicolare e, al tempo stesso, con l'identità
come trasformazione, movimento continuo, plasticità dinamica. Ovviamente
non si tratta del cencioso concetto di adattamento (il che
trascinerebbe l'intero discorso sul versante del conformismo), ma, più
precisamente, della necessità di non lasciarsi intrappolare dal
protocollo affettivo ricevuto e assumere soggettivamente, riscrivendolo,
il destino già programmato per ciascun individuo dal complesso di norme
e istituzioni sociali (la famiglia in primo luogo). Tuttavia, lo
ripeto, questo movimento non interessa soltanto i personaggi messi in
scena di film in film, ma coinvolge lo stesso dispositivo
cinematografico di Ozon, sottoponendolo a torsioni, deformazioni e
riconfigurazioni ininterrotte (è una cosa che Melvil Poupaud ha detto
con invidiabile essenzialità: "Gira molto e cambia stile ogni volta,
restando personale al tempo stesso"). Questa esigenza trasformazionale è
così irrinunciabile da aver portato Ozon a concepire persino il
"film-mix" <a href="http://www.dailymotion.com/video/xsruqg_quand-la-peur-devore-l-ame_shortfilms" target="“_blank”"><strong>Quand la peur dévore l'âme</strong></a> (2007), ibrido intertestuale creato con la libera combinazione di parti di <strong>Secondo amore</strong> (Douglas Sirk, 1955) e <strong>La paura mangia l'anima</strong>
(Rainer Werner Fassbinder, 1974). Mi pare assolutamente evidente che
questo mediometraggio inveri formalmente il principio vitale della
poetica ozoniana: plasmare nuove identità a partire dalla
riconfigurazione di quelle ereditate.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<h3>
II - Spostamento del punto di vista: condividere l'inconsapevolezza</h3>
<h3>
</h3>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Frantz_ab_3.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Frantz_ab_3.jpg" width="250" /></a>Ebbene, questo movimento di riappropriazione e soggettivazione è esattamente quello che permea <strong>Frantz</strong>, film liberamente ispirato a <strong>L'uomo che ho ucciso</strong> (<i>Broken Lullaby</i>, 1932) di Ernst Lubitsch - pellicola a sua volta basata sulla pièce teatrale <i>L'Homme que j’ai tué</i> di Maurice Rostand. Il rapporto coi lavori di Rostand e Lubitsch è molto simile a quello che contraddistingue <strong>Quand la peur dévore l'âme</strong>:
pièce e pellicola vengono assunti come testi da rispettare
esteriormente e riscrivere intimamente. Ne scaturisce una sorta di
palinsesto che si nutre delle raschiature e delle interpolazioni imposte
soggettivamente alla materia di partenza. La ripresa soggettiva di <strong>Broken Lullaby</strong>
si compie infatti all'insegna di uno stravolgimento plateale: il
ribaltamento del punto di vista dominante. Se il lavoro teatrale di
Rostand e la pellicola di Lubitsch sposavano il punto di vista del
protagonista maschile, Ozon sposta il baricentro emotivo e cognitivo
sullo sguardo della fidanzata del soldato tedesco ucciso in trincea. Lo
spostamento del punto di vista induce una profonda riconfigurazione
della materia di partenza, poiché, pur mantenendo la tela narrativa di
fondo (ambientazione storica e dinamiche drammaturgiche di base),
l'adozione del nuovo angolo visuale comporta un posizionamento dello
spettatore radicalmente differente: non più una posizione onnisciente e
trepidante per il senso di colpa provato dal giovane francese che si
reca in Germania per piatire il perdono, ma una condizione di
inconsapevolezza e curiosità condivisa con la protagonista femminile che
ha perso il fidanzato in guerra. In termini narratologici, ci troviamo
in una situazione di focalizzazione interna, ovvero sappiamo soltanto
ciò che sa Anna (Paula Beer) e ogni sua acquisizione cognitiva coincide
con un nostro passo in avanti verso la scoperta della verità. Il
desiderio di Ozon, come espresso dalle dichiarazioni contenute nel
pressbook, si concentra fondamentalmente su questo nuovo orientamento
narrativo: "il film di Lubitsch (…) è molto simile allo spettacolo
teatrale e adotta lo stesso punto di vista, quello del giovane francese.
Il mio desiderio invece era di adottare il punto di vista della ragazza
che, così come lo spettatore, non sa perché quel giovane francese si
reca sulla tomba del suo fidanzato".</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Frantz_ab_4.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Frantz_ab_4.jpg" width="250" /></a>È
fin troppo semplice rilevare come questa dislocazione del punto di
vista scateni l'attività congetturale dello spettatore. Detto più
semplicemente, lo spettatore, privato dell’onniscienza di cui godeva
nella pièce di Rostand e nella pellicola di Lubitsch, si trova costretto
a formulare ipotesi sulla reale identità di Adrien (Pierre Niney) e
sulla relazione che questo sconosciuto aveva con Frantz (Anton von
Lucke). Chi è questo giovane francese spuntato dal nulla? Quale rapporto
lo lega a Frantz? Perché è così ossessionato dalla memoria del defunto?
Tutte queste domande non hanno luogo in <strong>Broken Lullaby</strong>,
dal momento che lo spettatore sa fin dall'inizio che Paul (questo il
nome del soldato francese nel film di Lubitsch) ha ucciso l'imbelle
Walter in trincea (donde l'eloquente titolo <strong>L'uomo che ho ucciso</strong>). Insomma, in <strong>Frantz</strong>
non è più la colpevolezza del soldato francese a menare le danze e
costituire il nucleo emotivo della vicenda, ma l'inconsapevolezza
equamente condivisa tra Anna e lo spettatore. Ed è proprio questa
condizione d'inconsapevolezza condivisa a creare i presupposti di quella
metamorfosi identitaria che, come abbiamo visto, costituisce il
principio vitale del cinema di Ozon: è solo sulla base di questa
incertezza che può svilupparsi la disponibilità all'apertura e alla
trasformazione soggettiva. In palio c'è qualcosa di molto più cruciale
del semplice intrattenimento: lo spostamento del punto di vista non
risponde soltanto all'accrescimento del mistero intrigante, ma,
soprattutto, all'allestimento di un teatro interiore propizio al
dispiegamento della metamorfosi. Una metamorfosi che, naturalmente,
investirà in primo luogo l'identità della protagonista, ma che, grazie
alla centralità del suo punto di vista, coinvolgerà indirettamente e
provvisoriamente (quanto meno per la durata della visione) anche quella
dello spettatore.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<h3>
III - Il movimento come materializzazione del percorso di trasformazione</h3>
<h3>
</h3>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Frantz_ab_5.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Frantz_ab_5.jpg" width="250" /></a>È il movimento, in effetti, a rappresentare l'aspetto più appariscente di <strong>Frantz</strong>,
un movimento che dapprima interessa la sola Anna, ma che, per
interposta protagonista, finisce per contagiare lo spettatore: nel
movimento del personaggio vediamo materializzarsi il suo stato e le sue
potenzialità dinamiche, immedesimandoci nel suo percorso fisico e
psicologico. Non è affatto fortuito che il film si apra sulla camminata
della ritrosa Anna per le strade, i vicoli e le scalinate (elemento
dinamico tutt'altro che secondario nel cinema di Ozon, basti pensare
alla rilevanza scenografica della scala in <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=1516" target="“_blank”"><strong>8 donne e un mistero</strong></a>)
della cittadina tedesca di Quedlinburg. In questo silenzioso e
solitario tragitto, non a caso completamente assente nel film di
Lubistch in cui una dissolvenza incrociata elide classicamente il
percorso dal negozio di fiori al cimitero, ci mettiamo in cammino
insieme al personaggio, osservando il suo disinteresse per gli uomini
che la guardano, interrogandoci sulla sua condizione, ipotizzando gli
sviluppi futuri della vicenda. È del resto lo stesso Ozon a sottolineare
l'importanza di questo incipit itinerante: "Mi piace molto riprendere i
tragitti percorsi, è un modo concreto di materializzare l'idea del
movimento dei personaggi e di mettere il film e i protagonisti in un
luogo geografico. Era importante mostrare quella cittadina tedesca, quei
tragitti dalla casa al cimitero, e poi fino alla Gasthaus. Guardare
quel tragitto è interrogarsi sul personaggio, capire il suo percorso.
All’inizio Anna è un po' ferma, gira su se stessa in questa cittadina.
Per poi affrontare il grande viaggio che la porterà in Francia e la farà
andare oltre le apparenze".</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Frantz_ab_6.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Frantz_ab_6.jpg" width="250" /></a>Ed è un indizio altrettanto rivelatorio il fatto che l'epilogo di <strong>Frantz</strong>
sia scandito da un'altra camminata della protagonista, ma di senso
diametralmente opposto a quello luttuoso e rassegnato dell'incipit:
stavolta siamo al Louvre e Anna, di nuovo <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=4935" target="“_blank”"><strong>Giovane e bella</strong></a> (è stata la madre, spronandola a partire per Parigi, a sussurrarle <a href="https://youtu.be/L261aUgXZsc?t=54s" target="“_blank”">"sei giovane e bella, non perdere questa chance!"</a>),
percorre i corridoi del museo con passo sicuro e spregiudicato,
finalmente consapevole e disponibile all'incontro con l'altro (il
dialogo conclusivo davanti al quadro di Manet ha quasi il sapore di un
abbordaggio). Tuttavia non si tratta soltanto di emancipazione
femminile, ma, più ampiamente, di trasformazione sentimentale, apertura
all'esistenza. Ancora Ozon: “La sceneggiatura del film è costruita come
un Bildungsroman, come un romanzo di formazione. Non ci conduce in un
mondo di sogni o di evasione ma segue l'educazione sentimentale di Anna,
le sue disillusioni riguardo alla realtà, alla bugia, al desiderio,
alla maniera di un racconto iniziatico". Tra l'incipit chiuso nel dolore
funereo e il finale aperto alla voglia di vivere ("Il me donne envie de
vivre", dice Anna guardando il dipinto <i>Le Suicidé</i>) c'è
l'incontro con Adrien, palese doppio di Frantz, c'è l'azione
consolatoria della menzogna da lui avallata e, soprattutto, c'è la
diversa piega che l'elaborazione del lutto prende per i due
protagonisti. Momentaneamente ravvivato dalle bugie di Adrien, il
romanticismo di Anna viene soffocato dalla scoperta della verità (le
colorite passeggiate nella natura, ispirate alla pittura romantica di
Caspar David Friedrich, perdono all'improvviso ogni umore cromatico). E
se Adrien si rifugia vigliaccamente nell'abbraccio letale della
famiglia, Anna non si lascia abbattere dalle disillusioni incassate a
ripetizione, trovando al contrario, nell'acquiescenza del giovane
francese, uno stimolo a cercare la propria indipendenza al di fuori
della confortevole e mortale cornice domestica. Detto altrimenti, Adrien
sopravvive fisicamente alla guerra in trincea e muore sentimentalmente
tra le quattro mura della sua lussuosa dimora (il matrimonio programmato
dalla madre con Fanny/Alice de Lencquesaing); mentre Anna, tentato il
suicidio nelle fredde acque di un lago sassone per la disperazione,
rinasce a nuova vita proprio dopo aver assaporato fino in fondo il
veleno delle costrizioni familiari e averne osservato gli irreversibili
effetti su Adrien (l'ultimo dialogo con la di lui perfida madre/Cyrielle
Clair).</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<h3>
IV - Metamorfosi e suicidio: cambiare o morire</h3>
<h3>
</h3>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Frantz_ab_7.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Frantz_ab_7.jpg" width="250" /></a>Tutto ciò ci riconduce, a posteriori, al principio della metamorfosi. Mi pare difatti che <strong>Frantz</strong>, analogamente e antiteticamente a <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=569" target="“_blank”"><strong>Il tempo che resta</strong></a>,
porti alle estreme conseguenze il discorso della trasformazione come
questione di vita o di morte. Se il film del 2005 ci mostrava che
persino la morte imminente poteva rappresentare un'occasione di apertura
al cambiamento (il titolo del film fa pensare non solo al tempo che
resta da vivere nella vita di un uomo, ma anche al tempo che rimane
davvero della sua vita), <strong>Frantz</strong> ci mostra che l'ombra
della morte può cadere sul soggetto in vita, perfettamente sano e con
molti anni davanti a lui. In altri termini, se <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=569" target="“_blank”"><strong>Il tempo che resta</strong></a> mostrava l'apertura alla vita perfino nella morte annunciata, <strong>Frantz</strong> mostra inversamente la chiusura mortale nella vita agiata. Con <strong>Frantz</strong>,
insomma, ci troviamo di fronte alla formulazione definitiva delle
conseguenze derivanti dall'incapacità di trasformarsi, dalla riluttanza
nell'abbracciare il percorso della metamorfosi: rinunciare alla
trasformazione equivale a una condanna a morte, al suicidio o alla morte
in vita (che, in fondo, è esattamente la stessa cosa). E sono proprio i
due tentati suicidi di <strong>Frantz</strong> a suggerire
cinematograficamente questa equivalenza: nel momento in cui le
possibilità di cambiamento appaiono sbarrate (Anna ha scoperto la
menzogna di Adrien; Adrien è tornato in Francia con la coda tra le
gambe), entrambi i personaggi provano a farla finita. Ma se Anna viene
salvata dall'inopinato soccorso di un passante e, nonostante l'amarezza
del disincanto, ritrova lentamente il desiderio di vivere (i genitori di
Frantz e il confessore in questo senso favoriscono il suo recupero),
Adrien, benché scampato al tentato suicidio, muore virtualmente
rinunciando a spezzare la lapidaria linea familiare (quello di Adrien è
fin troppo emblematicamente un destino di morte, le sue iniziali incise
sulla tomba dello zio colonnello sanciscono per metonimia che il suo
slancio vitale è ormai morto e sepolto). Non è pertanto fortuito che sia
il solo tentato suicidio di Anna a essere rappresentato integralmente,
mentre quello di Adrien è ricostruito per via indiziaria attraverso
consultazioni di medici, registri clinici e, infine, testimonianze dello
stesso giovane. È proprio questa mancata rappresentazione, che
ovviamente non risponde a esigenze di sintesi (una breve scena dell'atto
avrebbe occupato molto meno tempo della lunga e fuorviante indagine di
Anna), a segnalarne tutto il peso specifico: affidando alla ragazza
tedesca il ruolo attivo e ostinato di detective, il film allude al fatto
che Adrien sia ormai un residuo passivo, un morto vivente sepolto in
una tomba non meno marmorea di quella in cui è tumulato lo zio, il
castello di famiglia. Nella ricerca dello scomparso Adrien (non suona
più nell'orchestra, non è più ricoverato nella clinica psichiatrica, non
è più a Parigi), Anna non ha fatto che passare da una tomba all'altra,
da un sepolcro all'altro. E se lei continua a muoversi e cambiare,
Adrien, ormai condannato a deperire comodamente, ha letteralmente smesso
di farlo: "È troppo tardi", gli dice piangendo e dandogli un bacio in
extremis mentre il suo treno per Parigi è sul punto di partire.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Frantz_ab_8.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Frantz_ab_8.jpg" width="250" /></a>Azione
castrante della madre di Adrien e morte in vita di quest'ultimo,
funzione emancipatoria dei genitori di Frantz e del confessore e,
infine, movimento/mutamento liberatorio di Anna: il quadro d'insieme
sembrerebbe completo. Ma di fatto manca un dettaglio fondamentale:
perché il film s'intitola <strong>Frantz</strong> anziché "Anna", "Anna e
Adrien" e via ipotizzando? Quale posizione occupa il giovane tedesco
ucciso ancor prima dell'inizio del film? In primo luogo, il suo ruolo di
assente onnipresente non è troppo dissimile da quello rivestito dalle
figure maschili nella celebre commedia <strong>Donne</strong> (<i>The Women</i>,
1939) di George Cukor: pur essendo rigorosamente esclusi dalla scena
tutta al femminile, gli uomini sono i protagonisti assoluti dei dialoghi
e delle dinamiche rappresentate. In virtù della sua assenza fisica,
insomma, Frantz acquisisce una presenza drammaturgica così ingombrante
da farsi chiodo fisso, ossessione inestirpabile: la replica di Anna alla
madre di Adrien al termine del dialogo di congedo - <a href="https://youtu.be/L261aUgXZsc?t=1m1s" target="“_blank”">"Non sono io che tormento suo figlio, signora, è Frantz"</a>
- esplicita definitivamente l'onnipresenza di questo fantasma
aleggiante su tutto il film. In secondo luogo, di gran lunga più
decisivo del primo, Frantz riassume esemplarmente in sé i tratti
dell'auctor in fabula, non soltanto rivestendo il ruolo di doppio
fantomatico di Adrien (col violino a fare da sonante oggetto mediatore
tra i due), ma, soprattutto, assumendo a pieno titolo la funzione
registica. Detto in termini più brutali, Frantz rappresenta lo stesso
Ozon all'interno del film. Non è solo l'ovvia concatenazione lessicale
"Frantz>Französisch>Français>François" a suggerire questa
assimilazione, ma, meno banalmente, il suo agire nell'ombra e il suo
palesarsi nel riflesso di Adrien. Che cosa fa Frantz oltre a morire in
trincea e ossessionare i personaggi con la sua assenza? Scrive una
lettera che funziona come una sceneggiatura, elegge Adrien a suo
sostituto in una sorta di casting suicida e, dettaglio letteralmente
determinante, vigila sornione sull'intera vicenda. È lui che, in
albergo, occhieggia dall'altra parte dello specchio stabilendo una
complice intesa con Adrien, complicità che suona distintamente come
un'investitura ufficiale. È il suo sguardo a oggettivarsi virtualmente
nei punti macchina: durante il primo pranzo in casa Hoffmeister, la
camera inquadra la scena dalla prospettiva che nel film di Lubitsch era
occupata dalla sedia vuota del giovane caduto, il "posto del morto".
Sceneggiatore fantasma, occulto artefice del casting e benevolo
promotore dell'incontro tra Anna e Adrien, Frantz è in definitiva
l'autentico demiurgo che muove i fili dietro le quinte e che, in un
estremo gesto di annichilimento a vantaggio della sua protegée, si
suicida figuratamente e figurativamente per ridarle di nuovo “envie de
vivre”. La metamorfosi si è compiuta, il bianco e nero funereo si è
finalmente convertito in colore schioccante: Frantz/Adrien/François può
definitivamente eclissarsi e fissarsi in pura immagine, ostacolo ormai
estraneo alla gioiosa vitalità di Anna.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<h3>
V - Postilla autoreferenziale: coazione a non ripetere</h3>
<h3>
</h3>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Frantz_ab_9.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Frantz_ab_9.jpg" width="250" /></a>Al
termine di questa smisurata celebrazione della metamorfosi, non posso
fare a meno di interrogarmi brevemente sul limite più insidioso
dell'intero discorso. Se è vero che il cinema di Ozon è rigorosamente
anticonservativo (molto più che anticonvenzionale), è altrettanto vero
che questo rigore ha qualcosa di programmatico e vagamente impositivo.
La celebrazione del movimento trasformativo come fatto irrinunciabile
non rischia forse d'irrigidirsi in norma tanto inderogabile e
costrittiva quanto il protocollo notarile dal quale ci si vorrebbe
smarcare? È questa ipoteca normativa ad apparirmi sempre più chiaramente
come il limite interno (e nascosto) del suo cinema: in forma di domanda
retorica, qual è la differenza tra coazione a ripetere e coazione a non
ripetere?</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Pubblicata su <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=5923" target="_blank">www.spietati.it</a>.</div>
ABhttp://www.blogger.com/profile/05384764352572794697noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9104073176553617908.post-49812620494406199692016-10-05T04:40:00.000-07:002016-10-05T04:43:01.219-07:00ONE MORE TIME WITH FEELING<a href="http://www.spietati.it/public/One_More_Time_with_Feeling_ab_loc_1.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/One_More_Time_with_Feeling_ab_loc_1.jpg" width="200" /></a><br />
<br />
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<div style="text-align: justify;">
"One More Time With Feeling" documenta la registrazione del sedicesimo album in studio di Nick Cave & the Bad Seeds (<i>Skeleton Tree</i>), affrontando le ripercussioni intime della morte di Arthur, il figlio quindicenne di Nick Cave. </div>
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Presentato Fuori Concorso al Festival di Venezia 2016 e uscito nelle sale italiane per due soli giorni (27 e 28 settembre), <b>One More Time with Feeling</b> avrà una nuova distribuzione nei cinema a partire dal primo dicembre.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br />
<br /></div>
<h3 style="text-align: justify;">
I - La sostituzione della campagna promozionale</h3>
<h3 style="text-align: justify;">
</h3>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/One_More_Time_with_Feeling_ab_1.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/One_More_Time_with_Feeling_ab_1.jpg" width="250" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
È
stato Nick Cave a chiedere esplicitamente ad Andrew Dominik di
realizzare un film che lo esentasse in qualche misura dall'esposizione
pubblica e funzionasse come una sorta di un live show cinematografico,
dispensandolo dall'incombenza della promozione del suo ultimo disco <a href="https://www.youtube.com/watch?v=R0d8h3nWLcA" target="“_blank”"><i>Skeleton Tree</i></a> (ecco perché Cave non era a Venezia ed ecco perché i video del nuovo album sono veri e propri estratti del film). Insomma, <b>One More Time with Feeling</b>
è a tutti gli effetti un film sostitutivo, un lavoro che sta per
qualcos'altro: gli incontri con la stampa, la presentazione del disco, i
concerti in giro per il mondo. Per il momento c'è il film al loro posto
e già questa sostituzione dovrebbe farci drizzare le antenne: anziché
qualcosa che avviene nella realtà e nel corso del tempo, abbiamo un
sostituto cinematografico che condensa e rimpiazza tournée e campagna
promozionale. I motivi per i quali Cave ha deciso di girare il film
rivolgendosi proprio a Dominik sono numerosi e non starò certo a
elencarli (basti menzionare la lunga amicizia tra i due, complice
involontaria <a href="https://www.youtube.com/watch?v=FxORulyOXs8" target="“_blank”">Deanna</a>
Bond, ex fidanzata di Cave e attuale compagna del regista). Ma tra
questi almeno uno non può essere omesso, poiché, seppur universalmente
noto, costituisce l'ostacolo inaggirabile della questione: la morte di
Arthur, figlio quindicenne dell'artista australiano e fratello gemello
di Earl, che compare a più riprese nel film. Così Dominik a proposito
della dolorosa congiuntura attraversata da Cave: "When he realized he
had to promote the record, the thought made him feel sick: talking to
journalists, discussing Arthur. He didn't feel he could do it with
strangers. The initial instinct for Nick was to protect himself, so he
didn't have to answer questions. It becomes the only subject that there
is, all the film is dealing with is Nick's grief feelings".</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
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</div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/One_More_Time_with_Feeling_ab_2.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/One_More_Time_with_Feeling_ab_2.jpg" width="250" /></a>Come
possiamo facilmente indovinare, alla funzione inizialmente alternativa
alla promozione e all'esibizione pubblica si accompagna, complicandola,
una funzione fortemente elaborativa e contenitiva. Sta di fatto che, a
una prima occhiata, il dato più appariscente del film sembra consistere
nella stratificazione, nell'accavallarsi e intrecciarsi di molteplici
livelli compositivi: il bianco e nero quasi integrale, le esigenze di
calibratura del 3D, i dialoghi con Warren Ellis, Cave, la moglie Susie e
il figlio Earl, la messa a punto dell'arrangiamento per le incisioni,
le esecuzioni musicali in studio, le liriche pronunciate in voce over da
Nick, le riflessioni dello stesso Cave su frammenti del girato, le
aperture ambientali su Brighton, Londra e così via. Si crea una
gerarchia rigida tra i vari strati? Almeno in parte sì, impossibile non
riconoscerlo, giacché la funzione performativo-promozionale è
salvaguardata e solidamente eseguita: i brani di <i>Skeleton Tree</i> ci sono tutti, <a href="https://www.youtube.com/watch?v=9iGxoJnygW8" target="“_blank”">video</a>
inclusi (non dimentichiamo che Cave, come sottolineato da Dominik, ha
finanziato il progetto personalmente: "Nick paid for the film out of his
own pocket, and I would like for him to recoup his investment. It's
basically to sell the record, that's the idea of the film").
Ciononostante, espletata la commissione promozionale, la stratificazione
si svincola dalla gerarchizzazione dei livelli e genera una fertile
confusione inclusiva che possiede due caratteristiche fondamentali: da
una parte oggettiva cinematograficamente la necessità di prevenire
l'effetto di spettacolarizzazione del dolore (la minaccia onnipresente
del "grief porn") e, dall'altra, inscrive nel tessuto compositivo il
processo ancora incompiuto dell'elaborazione del lutto, processo che,
com'è noto, non può fare a meno dei tre requisiti del tempo, del dolore e
della memoria (Arthur è morto nel luglio 2015 e i 10 giorni di riprese
del film si collocano nel febbraio 2016, poco più di 6 mesi dopo il
drammatico evento, ai quali si sono aggiunti successivamente alcuni
frammenti girati in aprile).</div>
<div style="text-align: justify;">
<br />
<br /></div>
<h3 style="text-align: justify;">
II - Il mantello protettivo del 3D</h3>
<h3 style="text-align: justify;">
</h3>
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</div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/One_More_Time_with_Feeling_ab_3.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/One_More_Time_with_Feeling_ab_3.jpg" width="250" /></a>Includere
la confusione nel film diventa quindi doppiamente necessario:
scongiurare l'oscenità del grief porn da un lato e, dall'altro, mostrare
l'elaborazione del lutto in corso (il titolo <b>One More Time with Feeling</b>
mi pare suggerire proprio questa idea di processo in cui il tempo
dell'elaborazione non è ancora terminato, ma ha bisogno di un
supplemento, un ulteriore lasso per compiersi a sufficienza). Non è del
resto un mistero che Dominik abbia concesso a Cave e alla moglie Susie
la facoltà di scartare dal montaggio finale le parti sgradite (un
accordo dello stesso tipo lo vediamo stabilire all'interno del film con
Earl, durante il primo incontro familiare nello studio di
registrazione). Oltre a queste due caratteristiche fondamentali, la
confusione inclusiva produce un altro effetto: la costruzione di un
luogo astratto - o un non-luogo se preferiamo - la cui esistenza è
squisitamente cinematografica (è vero che le riprese si sono svolte tra
Londra e Brighton, ma i continui accavallamenti audiovisivi impediscono
alla dimensione geografica di ancorare stabilmente le sequenze). Questo
luogo astratto e squisitamente filmico ci avvicina al mantello affettivo
di <b>One More Time with Feeling</b>, un mantello
rappresentato sia da Warren Ellis che dalla tecnica di ripresa in 3D.
Storico collaboratore di Cave e autentico collante dell'equilibrio
collettivo, Ellis è non solo la figura che tiene insieme i pezzi (Cave
lo dice a chiare lettere in una delle riflessioni in voice over), ma è
anche colui al quale gli scontenti Nick e Susie hanno concesso l'ultima
parola sul destino del film (Andrew Dominik: "Susie didn't like anything
with her and Nick didn't like anything with him, but they liked each
other. And so what they did was show it to Warren and he basically
decided the fate of the film. Fortunately Warren liked it all, so it
just got left alone").</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
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</div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/One_More_Time_with_Feeling_ab_4.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/One_More_Time_with_Feeling_ab_4.jpg" width="250" /></a>Ebbene,
la ripresa/visione in rilievo, fortemente suggerita per un film che
nella dimensione spaziale ha la sua flagranza, possiede la stessa
proprietà contenitiva e protettiva attribuita da Cave a Ellis: tiene
insieme i pezzi in un abbraccio che non soffoca in una stretta
apprensiva e che, pur assicurando coesione strutturale, non costringe le
diversità in un ordine prestabilito. E, soprattutto, protegge
l'intimità dei soggetti senza comprometterne la singolarità, anche
quando questa coincide con una vulnerabilità prossima al disfacimento.
Come precisato da Dominik, l’ambizione del film consiste esattamente nel
prendersi cura della fragilità di Cave (e della sua famiglia, occorre
aggiungere), sbozzando un'embrionale struttura narrativa in cui i
sentimenti informi, confusi e dolorosi possano depositarsi in cerca di
un senso e di una forma possibili: "But it's a guy trying to make a
record, and there's all this noise around him and inside him is an inner
voice that is constantly struggling and trying to deal with his
feelings. It's about giving them a narrative structure that can help him
make some sense of something that doesn't make a lot of sense. That's
the whole ambition of the film. It's supposed to portray the confusion
and the beauty". Avvolgere la confusione nel mantello 3D, insomma,
significa circoscrivere un lavorio interiore che può essere
rappresentato solo in chiave spaziale e in tonalità minore (il bianco e
nero scheletrico, la struttura narrativa minimale coincidente col film
stesso come contenitore): del resto la dimensione temporale e
grandiosamente trasformativa era già stata ampiamente celebrata in <b>20,000 Days on Earth</b>,
pellicola in cui la magniloquenza espressiva assecondava la tendenza
all’ostentazione megalomanica di Cave e in cui la trasformazione
performativa aveva i tratti quasi mistici dell'ascensione raggiante
(l'esecuzione live di <a href="https://www.youtube.com/watch?v=VU1KEsg8SO0" target="“_blank”">Jubilee Street</a>
sopra ogni altra cosa: "I'm transforming / I'm vibrating / I'm glowing /
I'm flying / Look at me now / I'm flying / Look at me now").</div>
<div style="text-align: justify;">
<br />
<br /></div>
<h3 style="text-align: justify;">
III - Il nucleo vuoto del trauma</h3>
<h3 style="text-align: justify;">
</h3>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/One_More_Time_with_Feeling_ab_5.gif" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/One_More_Time_with_Feeling_ab_5.gif" width="250" /></a>Così, se <b>20,000 Days on Earth</b> era tanto lineare quanto pieno di Cave, <b>One More Time with Feeling</b>
va nella direzione opposta, accumulando frammenti caotici e svuotando.
Qui è la qualità spaziale (della musica e non solo) a prevalere, è
l'accumulo di sequenze costruite con pezzi di cose concepite in momenti
differenti a strutturare il film. E, soprattutto, è la sensazione
letteralmente indicibile del vuoto a imporsi come nucleo doloroso che il
mantello tridimensionale, in questa rappresentazione simile alla
stratificazione terrestre, abbraccia e custodisce premurosamente.
All'interno di questo spesso involucro protettivo che cosa si trova?
Nient'altro che lo spaventoso vuoto del trauma, un "anello" o "recinto"
(parole dello stesso Cave) che, aprendo una voragine nel reale, non
offre più una versione grandiosamente narcisistica della trasformazione,
ma obbliga, semplicemente e inevitabilmente, al cambiamento. Cave lo
dice molto bene nel <a href="https://www.youtube.com/watch?v=2G0Qj6DBm6o" target="“_blank”">film</a>:
"La maggior parte di noi non vuole cambiare veramente. In effetti,
perché dovremmo? Ciò che inseguiamo è una sorta di variazione dal
modello originale. Proviamo sempre ad essere noi stessi - versioni
migliori di noi stessi. O almeno così ci auguriamo. Ma cosa succede
quando un evento è così catastrofico da cambiarci completamente? Ci
trasformiamo in persone sconosciute. Così quando ci guardiamo allo
specchio, riconosciamo la persona che eravamo. Ma ora dentro la nostra
pelle vive una persona diversa". È questo buco nel reale a costituire
l'autentico nucleo irrappresentabile, vuoto e gravitazionale del film,
un nucleo traumatico che il film tenta di costeggiare e circoscrivere
senza fargli violenza, senza risolverlo finzionalmente, senza
incapsularlo in una struttura rigida e simbolicamente consolatoria.
Ancora Dominik: "The real feeling is not one of sadness or one of anger,
it's this incredible feeling of emptiness. He talks about it as a
trauma, and that's really what it is. He has not been able to create
some story around it that contains it or encapsulates it in the same way
that you can when you're talking about a song or some other experience.
I hope what the film manages to do is to express that confusion. That
it isn't resolved".</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/One_More_Time_with_Feeling_ab_6.gif" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/One_More_Time_with_Feeling_ab_6.gif" width="250" /></a>In altri termini, <b>One More Time with Feeling</b>
non è un surrogato narcisisticamente immaginario della perdita (il
vieto cliché del dolore che alimenta la creatività) né una protesi
simbolica incaricata di colmare il buco reale provvedendo un supplemento
narrativo tornito e rassicurante (Dominik: "I don't think perfection is
your friend, I think perfection is the enemy"), ma, molto più
semplicemente, una testimonianza spaziale (essere lì, in quella
situazione, e inquadrare: "We worked framing, which is just pointing the
camera", dice Dominik nella conferenza stampa veneziana) che si guarda
bene dal proporre un arrangiamento terapeutico o una conformazione
normativa alla materia rappresentata. Se questa rispettosa inclusione
rifletta in qualche misura l'istintiva soggezione di Dominik per Cave
non è dato sapere né rileva minimamente in questa sede, quello che è
certo, invece, è che tempo, dolore e memoria sono lasciati integralmente
all'interiorità del musicista australiano, il film attenendosi a
testimoniare un processo in atto. Ed è proprio questa intimità
avvolgente del 3D che dà al film un valore intensamente topologico, un
valore in cui lo spazio acquisisce vivide connotazioni psichiche: i 35'
di performance musicali riverberano nella cassa di risonanza
tridimensionale al cui centro, avviluppato dall'accidentata
improvvisazione delle riprese, risiede il vuoto irrappresentabile del
trauma, preservato nella sua radicale indicibilità.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
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</div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/One_More_Time_with_Feeling_ab_7.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/One_More_Time_with_Feeling_ab_7.jpg" width="250" /></a><b>One More Time with Feeling</b>
non ha dunque la pretesa di riannodare forzosamente reale, immaginario e
simbolico di Cave in un'illusione di guarigione post-traumatica (qui il
dopo non esiste, c'è solo il presente sfrangiato, aperto e
intrinsecamente incompiuto), ma intende, al contrario, preservare il
processo in corso con una distanza intima e benevolente (il bianco e
nero contribuisce a questo distanziamento discreto, ovvero non invasivo e
insieme apprezzabile). Non si tratta, ovviamente, di neutralità dello
sguardo: <a href="https://www.youtube.com/watch?v=BAMZYpZi_M4" target="“_blank”">durata delle inquadrature e movimenti di camera</a>
(dolly felpati, carrellate circolari, avvicinamenti stetoscopici per
amplificare la pulsazione spaziale della musica) esprimono con
cristallina e permanente chiarezza la sollecitudine della
rappresentazione, un impasto audiovisivo di complementarità e
coinvolgimento. E, inversamente, non si tratta neanche di eccessivo
pudore o ritrosia rinunciataria. Dal momento che il film deriva per
forza di cose dall'intrusione in uno spazio intimo, tanto sul versante
del processo creativo quanto su quello più strettamente personale
(Dominik: "I always felt like I was intruding"), la questione cruciale
di <b>One More Time with Feeling</b> si concretizza
nell'esigenza di evitare sia il cinismo del grief porn che l'inibizione
del commiserevole mutismo (ancora Dominik: "As a friend, I wouldn't ask
Nick the questions that I would ask him as a director. And I had to be
the director"). Si tratta, invece e in ultima battuta, di affidare a una
consapevolezza non edulcorata dai cascami del sentimentalismo il
coraggio di abolire la struttura narrativa riparatoria e accogliere la
dirompenza della lacerazione nello spazio filmico. Perché in fondo a <b>One More Time with Feeling</b>,
topologicamente e letteralmente, nel luogo terminale della galleria di
ritratti e al luogo della persona evocata, non c'è l'immagine di Arthur,
ma uno spazio bianco. Il trauma reale della sua scomparsa ha lasciato
un vuoto che il film non può riempire, pena lo scadimento
nell'assistenzialismo, ma soltanto mostrare nella sua irreparabile
assenza. Uno spazio in cui egli è mancante, non più lì, realmente
irrappresentabile.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Un ringraziamento all'amico Francesco Saccaro, le cui osservazioni
sulla stratificazione connessa all'elaborazione del lutto hanno dato il
via a queste riflessioni.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Pubblicata su <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=5897" target="_blank">www.spietati.it</a>.</div>
ABhttp://www.blogger.com/profile/05384764352572794697noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9104073176553617908.post-51910315685339768562016-10-05T04:32:00.000-07:002016-10-05T04:44:51.159-07:00HOUNDS OF LOVE<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Hounds_of_Love_ab_loc_1.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Hounds_of_Love_ab_loc_1.jpg" width="200" /></a> </div>
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<br /></div>
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<div style="text-align: justify;">
Nell'estate del 1987, la diciassettenne Vicki Maloney viene rapita da
una coppia di serial killer, John e Evelyn White. Dal momento che la
fuga pare impossibile, Vicky inizia a osservare la dinamica di coppia
dei suoi sequestratori, indovinando rapidamente che, per sopravvivere,
dovrà incunearsi tra loro (dal pressbook). </div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
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<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Hounds_of_Love_ab_1.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Hounds_of_Love_ab_1.jpg" width="250" /></a>Thriller psicologico ad alto contenuto di sadismo e ferocia manipolatoria, <a href="https://www.youtube.com/watch?v=cZjBKnNmbDw" target="“_blank”"><b>Hounds of Love</b></a>,
lungometraggio cinematografico d'esordio di Ben Young (classe 1982),
rappresenta a prima vista l'ennesima variazione sul tema della coppia di
serial killer in cui la figura femminile asseconda ed esegue più o meno
docilmente gli ordini perversi del maschio padrone. In questa sorta di
sottogenere all’insegna dell'amour fou è immancabilmente la gelosia
della donna servile a incrinare l'eccitante ecatombe amorosa della
coppia: impossibile non pensare a titoli come <a href="https://www.youtube.com/watch?v=kdl6yusPc4Q" target="“_blank”"><b>The Honeymoon Killers</b></a> (1970) di Leonard Kastle o al più recente <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=5294" target="“_blank”"><b>Alleluia</b></a> (2014) di Fabrice Du Welz, passando per <a href="http://www.imdb.com/title/tt0117394/" target="“_blank”"><b>Profundo carmesí</b> </a> (1996) di Arturo Ripstein. Ma, a differenza delle pellicole citate, <b>Hounds of Love</b>
apporta due sostanziali modifiche: la prima è quella della stanzialità
spaziale (i tre film menzionati sono sostanzialmente road movie irrorati
di sangue), la seconda è quella dell'introduzione della "terza
incomoda" (la ragazza sequestrata stavolta non si lascia imprigionare
nel canonico ruolo di vittima designata/carne da macello, ma conquista
gradualmente qualificazione attiva grazie alle sue capacità di
osservazione).</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Hounds_of_Love_ab_2.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Hounds_of_Love_ab_2.jpg" width="250" /></a>Passato pressoché in sordina nella sezione veneziana <a href="http://www.venice-days.com/film.asp?id=9&id_dettaglio=715" target="“_blank”">Giornate degli Autori</a>, <b>Hounds of Love</b>
concentra la sua forza illocutoria proprio in questi due punti di
torsione espressiva, facendo di necessità virtù: l'ambientazione anni
'80 a Perth (Australia Occidentale) non risponde soltanto a esigenze di
verosimiglianza (Young si è ispirato a casi reali di coppie criminali),
ma soprattutto alla necessità di contenere i costi produttivi (non
inganni il formato cinemascope 2:35, il film è stato girato in digitale
con due camere Arri Alexa e una Phantom Flex4k per le riprese
ultrarallentate a 1000 fps). Questo solido ancoraggio realista, reso
possibile dalle particolari condizioni urbanistiche di Perth (intere
aree sono state costruite negli anni '70 e '80, restando praticamente
immutate fino a oggi), dà a <b>Hounds of Love</b> un sapore
tanto credibile quanto singolare: è anche in virtù del radicamento
ambientale che il film non scade nell'apologo surreale o nell'allegoria
sociologicamente connotata. Una singolarità che segna altrettanto
incisivamente l'impianto drammaturgico: la cattura di una preda che,
vistasi impossibilitata a fuggire, sfrutta le risorse psicologiche per
lacerare la relazione sadomasochistica dei suoi aguzzini sposta il
centro gravitazionale del dramma dalla follia a due ermeticamente chiusa
allo squilibrio di una triangolazione emotiva sempre sul punto di
rovinare da una parte o dall'altra. Il microcosmo a tenuta stagna della
violenza domestica e del controllo maschile si tramuta progressivamente
in uno spazio sbilanciato e scricchiolante, fratturato da improvvise
crepe che ne compromettono la stabilità strutturale. Ed è precisamente
sulla spinta di queste componenti singolari che <b>Hounds of Love</b>,
come afferma lo stesso Ben Young, acquisisce una traiettoria in qualche
modo universale: "Dal punto di vista tematico il film tratta di
codipendenza, controllo e violenza domestica, temi che per loro natura
sono molto universali".</div>
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<a href="http://www.spietati.it/public/Hounds_of_Love_ab_3.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Hounds_of_Love_ab_3.jpg" width="250" /></a>Ispirato
dalle letture materne (la madre di Ben Young è scrittrice di crime
fiction ed è solita passare i libri che legge per le sue ricerche al
figlio), <b>Hounds of Love</b> (titolo a sua volta ispirato dall'<a href="https://www.youtube.com/watch?v=VerK4zwMRQw" target="“_blank”">omonimo brano</a>
di Kate Bush non finito nel film a causa dell'eccessivo costo dei
diritti) articola la triangolazione emotiva anche nel rapporto tra lo
spettatore e i personaggi messi in scena: se la coppia di aguzzini
interpretata da Emma Booth e Stephen Curry (il volto della commedia
australiana, strappato qui alla consueta maschera rassicurante) reclama
una qualche empatia nelle vessazioni a cui John è sottoposto dallo
spacciatore-creditore e nell'affetto mostrato da Evelyn per il suo cane
(animale che sostituisce metaforicamente i figli lontani), Vicki
oggettiva esemplarmente all'interno del film la posizione spettatoriale
(è in una condizione di immobilità fisica e percezione accresciuta:
submotricità e iperpercettività che caratterizzano la situazione della
visione cinematografica). E, infine, lo stratagemma comunicativo
adoperato da Vicki (Ashleigh Cummings) per comunicare col fidanzato (il
crittogramma che, lo sappiamo dall'inizio del film, potrà essere
decodificato solo da Jason) introduce un ulteriore meccanismo di
attivazione cognitivo-emotiva dello spettatore.</div>
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<a href="http://www.spietati.it/public/Hounds_of_Love_ab_4.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Hounds_of_Love_ab_4.jpg" width="250" /></a>Proveniente
dalla regia di serie televisive, video pubblicitari e musicali, Young
manipola l'impasto audiovisivo con padronanza e disinvoltura: nonostante
uno sguaiato ammiccamento a <b>Il silenzio degli innocenti</b>
(il raccordo di montaggio ingannevolmente salvifico del prefinale) e
uno scioglimento piuttosto artificioso, il cineasta australiano esaspera
le riprese in slow motion con lenti lungofocali, creando un sentimento
di voyeurismo immediato (si veda l'incipit) e agganciando questo
registro visivo alla perversione predatoria di John. E anche se gli
inserti musicali non brillano affatto per originalità ("Nights In White
Satin", The Moody Blues; "Lady D’Arbanville", Cat Stevens; "Atmosphere",
Joy Division), il soundtrack elettronico di Dan Luscombe, tra droni
opprimenti e sonorità ansiogene, incapsula minacciosamente l'intero film
nell'incubo della paranoia permanente. Insieme a <b>Chopper</b> (2000) di Andrew Dominik e <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=3104" target="“_blank”"><b>Animal Kingdom</b></a> (2010) di David Michôd, non a caso altri due lungometraggi d'esordio, <b>Hounds of Love</b> compone un ideale trittico sulla perdita dell'innocenza australiana.</div>
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Pubblicata su <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=5889" target="_blank">www.spietati.it</a>. </div>
ABhttp://www.blogger.com/profile/05384764352572794697noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9104073176553617908.post-67174355681096932642016-09-26T03:02:00.001-07:002016-09-26T03:06:07.760-07:00LOST RIVER <div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Lost_River_ab_loc1.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Lost_River_ab_loc1.jpg" width="200" /></a> </div>
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In una città morente, Billy, madre nubile di due bambini, è trascinata
poco a poco nei bassifondi di un mondo oscuro e macabro, mentre Bones,
suo figlio maggiore, scopre una strada segreta che porta a una città
sommersa. Billy e suo figlio dovranno affrontare numerosi ostacoli
affinché la loro famiglia riesca a cavarsela (dal pressbook).</div>
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<a href="http://www.spietati.it/public/Lost_River_ab_1.JPG" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Lost_River_ab_1.JPG" width="250" /></a></div>
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Tra
le innumerevoli conferenze stampa, presentazioni pubbliche e interviste
festivaliere rilasciate da registi che perlopiù non fanno che ripetere
le solite formule autopromozionali, si trovano anche, seppur
sporadicamente, osservazioni sulle quali vale la pena soffermarsi,
eleggendole a oggetto di riflessione. Soprattutto quando, come avviene
in <a href="https://youtu.be/YppwcG5OUmc?t=35s" target="“_blank”">questo caso</a>,
a parlare è Paul Schrader, studioso, sceneggiatore e autore che ha
attraversato quasi mezzo secolo di cinema americano captandone segnali
di rinnovamento e riconfigurazioni radicali. Nell’intervista rilasciata
alla Quinzaine des Réalisateurs in occasione della proiezione del suo
ultimo e ludicamente funereo film <a href="https://www.youtube.com/watch?v=Pt0FkSTyffs" target="“_blank”"><b>Dog Eat Dog</b></a>,
Schrader afferma qualcosa che va ben al di là della constatazione
lapalissiana o della dichiarazione di circostanza. Riferendosi non tanto
al suo film quanto, più ampiamente, al cinema contemporaneo, Schrader
dà alla sua osservazione una portata critico-teorica: la considerazione
sul mutamento dei singoli film (critica) si ripercuote sulle condizioni
generali di possibilità del mezzo (teoria).<br />
Ecco cosa sostiene l’autore di <b>Hardcore</b> (1979), <b>Cortesie per gli ospiti</b> (1990) e <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=4830" target="“_blank”"><b>The Canyons</b></a>
(2013): «La lezione di base che ho appreso negli ultimi cinque anni è
che la nozione dello stile unificato sta collassando. Eravamo abituati a
questa nozione che ogni film avesse il proprio stile particolare e ora,
con queste sensibilità “multimedia multitasking”, puoi mescolare e
combinare a piacimento quello che vuoi nei film e gli spettatori non se
ne preoccupano. Puoi girare una scena alla Cassavetes, metterla accanto a
una scena alla Welles, a una scena alla NCIS, alla Godard o alla Béla
Tarr: gli spettatori le processeranno tutte insieme. Sicché ogni cosa è
in qualche modo possibile e ciò rende la situazione eccitante ma anche
un po’ caotica».</div>
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<br /></div>
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<a href="http://www.spietati.it/public/Lost_River_ab_2.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Lost_River_ab_2.jpg" width="250" /></a>Ebbene, alla luce delle considerazioni schraderiane, non sorprende affatto che <b>Lost River</b>,
esordio alla regia di Ryan Gosling, abbia messo in difficoltà la
critica proprio per il suo carattere palesemente e ostentatamente
eterogeneo. Il fatto, però, è che la disomogeneità stilistica (il
collasso della nozione di stile unificato, direbbe Schrader) non
costituisce soltanto una caratteristica diffusa e in qualche modo
distintiva del cinema contemporaneo, ma in questo caso è addirittura
assunta come insegna esplicita, vero e proprio principio creativo. Le
prime parole che si leggono nel Presskit del film sotto la voce “Note
del regista” non potrebbero essere più chiare: «A più di un titolo
questo film è il regalo che mi hanno fatto i registi con i quali ho
avuto la fortuna di lavorare in questi ultimi anni. Come attore sono
passato dai film profondamente ancorati nella realtà di Derek Cianfrance
all’immaginario di Nicolas Winding Refn. Penso di aver oscillato tra
questi due estremi perché la mia sensibilità di regista si situa da
qualche parte tra i due». Insomma, non siamo davanti a un film che fa
della coerenza stilistica la propria ragion d’essere, ma, al contrario,
ci troviamo di fronte a una pellicola che dichiara apertamente la
propria eterogeneità estetica (l’oscillazione tra i due poli del
realismo e della trasfigurazione immaginifica) e la propria eredità
genetica (Cianfrance e Refn su tutti). In altri termini, le accuse di
scarsa originalità, incoerenza e confusionismo piovute su <b>Lost River</b>
(“ha scimmiottato Lynch, Malick, X, Y e Z”; “ci ha messo dentro troppa
roba senza saperla controllare”; “il virtuosismo si è divorato la
narrazione”) non ignorano soltanto la constatazione di Schrader,
denunciando in questo modo il ritardo della critica nei confronti di un
mutamento cinematografico in larga parte già consumatosi, ma trascurano
anche il carattere fortemente esplicito della disomogeneità stilistica
come deliberato principio compositivo, riproducendo così nel particolare
(film) un attaccamento nostalgico a categorie di giudizio
definitivamente superate e una miopia teorica che impedisce di mettere a
fuoco la trasformazione avvenuta sul piano generale (cinema).</div>
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<br /></div>
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<a href="http://www.spietati.it/public/Lost_River_ab_3.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Lost_River_ab_3.jpg" width="250" /></a>Duole
molto essere costretti ad adottare un tono così didascalico e
illustrativo, ma è proprio di fronte a film del genere che occorre fare,
in qualche modo, il punto della situazione ed evidenziare lo strappo
prodottosi tra critica e film da una parte e critica e teoria
dall’altra: rifugiarsi nel misoneismo rancoroso in nome di una perduta
unità stilistica significherebbe allontanarsi irrimediabilmente dalla
produzione audiovisiva contemporanea e alienarsi inconsapevolmente nel
culto di un passato mitico nel quale i Grandi Maestri padroneggiavano lo
Stile (Forma) e la Narrazione (Contenuto). Anche perché, non appena
superato lo scoglio della disomogeneità formale, si scorge con facilità
un elemento coesivo sufficientemente capace di assicurare unità
espressiva a <b>Lost River</b>: il tono oscuramente fiabesco.
L’oscillazione tra ancoraggio realista e trasfigurazione immaginaria
trova difatti in questa tonalità una sintesi in grado di incorporare un
realismo che talvolta rasenta addirittura l’improvvisazione (la sequenza
del ballo tra Bully/Matt Smith e Marylou/Mama Aris) e una traccia
fantastica che in alcuni frangenti non teme di seguire una segnaletica
scopertamente surreale (l’incantesimo della città sommersa e i lampioni
che si accendono quasi per magia dopo l’immersione di Bones/Iain De
Caestecker).</div>
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<br /></div>
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<a href="http://www.spietati.it/public/Lost_River_ab_4.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Lost_River_ab_4.jpg" width="250" /></a>Questa
tonalità distinta e persistente che attraversa e lega a varie altezze
l’appariscente eclettismo stilistico (ecletticità peraltro acuita dalle
spezzature di un montaggio che gioca molto spesso su divaricazioni
spaziali e accavallamenti cronologici sensibilmente spiazzanti) consente
inoltre al film di integrare continui riferimenti a pellicole anni ’80
senza che questi ne dirottino la traiettoria intimamente fantastica
(Gosling: «Ho attinto ai film fantastici per il grande pubblico degli
anni ’80 coi quali sono cresciuto e ho passato questi riferimenti
attraverso il prisma della sensibilità che ho acquisito successivamente
in materia di cinema. Partendo da là, la storia di <i>Lost River</i> ha
cominciato a disegnarsi sotto forma di fiaba oscura, con la città nel
ruolo della damigella in pericolo e dei personaggi simili ai frammenti
di un sogno spezzato che tentano di ricostruirsi»). Il materiale
eterogeneo che confluisce in <b>Lost River</b> (come la
facciata del locale notturno in cui Eva Mendes e Christina Hendricks si
esibiscono in performance grandguignolesche, riproduzione quasi
letterale del famigerato cabaret parigino <a href="http://www.coolstuffinparis.com/cafe_de_lenfer_paris.php" target="“_blank”">L’Enfer</a>) trova dunque la sua organicità in questa atmosfera fiabesca che il direttore della fotografia <a href="http://benoitdebie.com/" target="“_blank”">Benoît Debie</a>
modula e trasferisce sulla pellicola (pur ospitando inserti digitali,
il film è stato girato in 35mm) con la consueta maestria nella resa
dell’illuminazione naturale e delle variazioni tonali.</div>
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<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Lost_River_ab_5.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Lost_River_ab_5.jpg" width="250" /></a>Ma
l’aspetto di gran lunga più ragguardevole del primo lungometraggio
cinematografico di Ryan Gosling risiede senza ombra di dubbio nella
costruzione di uno spazio urbano tanto percorribile in ogni sua
dimensione quanto disabitato, decadente e disertato dalle forze
dell’ordine: la reale Detroit filmata diviene a tutti gli effetti la
città immaginaria di <b>Lost River</b>, una sorta di Manhattan
carpenteriana con Bully nei panni del Duca e il rame come oggetto di
valore sul quale egli rivendica dominio assoluto (“I own this fucking
copper, I own this fuckin’ city! Welcome to Bullytown!”, sbraita dalla
sua Cadillac Eldorado sulla quale troneggia un’assurda poltrona
imbottita). Un microcosmo fantastico in cui realtà suburbana e
proiezione distopica riverberano l’una nell’altra sulle sonorità <a href="https://www.youtube.com/watch?v=RnqHNhzDnzQ" target="“_blank”">echeggianti</a> di Johnny Jewel. Presentato nella sezione Un Certain Regard al Festival di Cannes 2014.</div>
<div style="text-align: justify;">
Disponibile in Dvd e Blu-Ray (<a href="http://www.m2pictures.it/drama" target="“_blank”">M2 Pictures</a>, <a href="http://www.eaglepictures.com/home-entertainment/forti-emozioni/lost-river" target="“_blank”">Eagle Pictures</a>).</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Pubblicata su <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=5860" target="_blank">www.spietati.it</a>. </div>
<div style="text-align: justify;">
</div>
ABhttp://www.blogger.com/profile/05384764352572794697noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9104073176553617908.post-47865050019797676882016-08-25T02:28:00.000-07:002016-08-25T02:28:30.875-07:00EL ABRAZO DE LA SERPIENTE <br />
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<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/El_abrazo_de_la_serpiente_ab_1.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/El_abrazo_de_la_serpiente_ab_1.jpg" width="200" /></a> </div>
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<br /></div>
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Karamakate, un potente sciamano dell'Amazzonia, ultimo sopravvissuto del
suo popolo, vive nella giungla più profonda, in isolamento volontario.
Decenni di solitudine hanno fatto di lui un chullachaqui, il guscio
vuoto di un essere umano, privo di ricordi e di emozioni. La sua vita
svuotata è sconvolta dall'arrivo di Evan, un etnobotanico americano alla
ricerca della yakruna, una pianta sacra dai grandi poteri, in grado di
insegnare a sognare. Insieme si imbarcano in un viaggio nel cuore
dell'Amazzonia, durante il quale passato, presente e futuro si
intrecciano, e durante il quale Karamakate lentamente inizia a
riconquistare i suoi ricordi perduti (dal pressbook).</div>
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<br /></div>
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<a href="http://www.spietati.it/public/El_abrazo_de_la_serpiente_ab_3.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/El_abrazo_de_la_serpiente_ab_3.jpg" width="250" /></a>Lodevole
negli assunti (fare del punto di vista di un indigeno dell'Amazzonia
colombiana il perno dell'intera vicenda) e ammaliante nella
raffigurazione dello spazio (un bianco e nero prezioso e cristallino
ammanta quasi integralmente i territori filmati), <strong>El abrazo de la serpiente</strong>
è uno di quei film dai quali si rischia di rimanere facilmente
intimiditi o addirittura accecati. La cosiddetta “importanza del tema”
(restituire dignità e piena titolarità allo sguardo nativo
nell'incontro/scontro con la cultura colonizzatrice), le difficoltà
incontrate dalla troupe nella realizzazione delle riprese (sfida quasi
impossibile per complicazioni logistiche e ambientali) e l'encomiabile
rispetto dimostrato nei confronti del sapere tribale (la sapienza
sciamanica profondamente radicata nella conoscenza e nell’esperienza
storica del territorio) non possono non influire sull'atteggiamento e
sul posizionamento affettivo dello spettatore durante la visione. Ma dal
momento che tali fattori, per quanto consistenti e indiscutibili, non
possono e non devono condizionare né intralciare il giudizio sull’esito
cinematografico, occorre metterli in sordina e considerare liberamente
il film. Gli indubbi meriti dell’impostazione “non-occidentale” adottata
da Ciro Guerra (classe 1981) e dal cosceneggiatore Jacques Toulemond si
calano difatti in forme inequivocabilmente convenzionali e
illustrative. Detto altrimenti, dai rispettosi e rispettabili assunti
non discende una forma filmica che li inveri cinematograficamente.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/El_abrazo_de_la_serpiente_ab_4.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/El_abrazo_de_la_serpiente_ab_4.jpg" width="250" /></a>Non è soltanto il dettato visivo di <strong>El abrazo de la serpiente</strong>
a tradire un arrangiamento grammaticalmente ortodosso (composizione
dell'inquadratura concepita secondo principi di coerenza e leggibilità,
soggettive classicamente costruite con raccordi di sguardo ben
orientati), ma è anche il suo fraseggio sintattico a non discostarsi dai
precetti retorici più consolidati (scene dotate di unità spaziale e
temporale chiaramente definita, sequenze perfettamente concatenate tra
di loro). Insomma, ci troviamo di fronte a un film che espone
didascalicamente la materia trattata, “dicendo” la cultura tribale e
sapienziale con ortografia impeccabile e razionale. Non che questo sia
un limite in sé, beninteso, ma nella fattispecie impedisce alla
pellicola di oggettivare cinematograficamente i propri propositi “non
occidentali”. Persino il solo momento in cui i vincoli grammaticali e
sintattici si sciolgono vistosamente (la visione provocata dagli effetti
allucinogeni della yakruna) è incapsulato in una sequenza che, alla
stregua di una parentesi onirica, ne mostra convenzionalmente il prima
(l'assunzione della pianta) e il dopo (il risveglio/ritorno alla
coscienza).</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/El_abrazo_de_la_serpiente_ab_5.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/El_abrazo_de_la_serpiente_ab_5.jpg" width="250" /></a>Ultima considerazione sulla costruzione narrativa di <strong>El abrazo de la serpiente</strong>,
probabilmente l'aspetto più rimarchevole del film: il racconto è
imperniato sul duplice incontro tra lo sciamano Karamakate e i due
scienziati bianchi (l'etnologo Theodor Koch-Grünberg interpretato Jan
Bijvoet e il botanico Richard Evans Schultes interpretato da Brionne
Davis) nel corso di alcune decine di anni (una quarantina per la
precisione). Nel corso del tempo, il giovane e possente Karamakate
(Nilbio Torres) è divenuto un vecchio smemorato e disorientato (Antonio
Bolívar) o più precisamente un chullachaqui (sorta di Doppelgänger privo
di ricordi ed emozioni, proiezione svuotata del Karamakate di cui è il
duplicato). Ebbene, l'incontro tra il guscio vuoto del vecchio sciamano e
il botanico Evans ha non solo la funzione di riattivare gradualmente i
ricordi e le emozioni perdute di Karamakate, ma anche e soprattutto
quella di chiarirne la missione: consegnare il suo sapere ancestrale
all'uomo bianco (Karamakate considera i due scienziati come un solo
individuo, il secondo un chullachaqui del primo). Fondato sull'idea di
ricondurre la doppiezza all'unità grazie alle proprietà visionarie della
yakruna, questo programma rigenerante possiede il sapore di uno
stratagemma fortemente dimostrativo. E, per quanto condotto con
rispettosa adesione, non contribuisce minimamente a smuovere le regole
di comprensione raziocinante dello spettatore. Più una dimostrazione che
una rigenerazione, in una parola. Presentato in anteprima al Festival
di Cannes 2015 nella sezione Quinzaine des Réalisateurs (si è
aggiudicato il premio Art Cinéma) e candidato al premio Oscar come
miglior film straniero.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Pubblicata su <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=5851" target="_blank">www.spietati.it</a>.</div>
ABhttp://www.blogger.com/profile/05384764352572794697noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9104073176553617908.post-62763230148384406092016-05-24T05:33:00.000-07:002016-05-24T05:33:13.592-07:00PERICLE IL NERO <div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Pericle_il_nero_ab_1.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Pericle_il_nero_ab_1.jpg" width="200" /></a></div>
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<div style="text-align: justify;">
Pericle Scalzone, detto Il nero, di lavoro “fa il culo alla gente” per
conto di Don Luigi, boss camorrista emigrato in Belgio. Durante una
spedizione punitiva per conto del boss, Pericle commette un grave
errore. Scatta la sua condanna a morte. In una rocambolesca fuga che lo
porterà fino in Francia, Pericle incontra Anastasia, che lo accoglie e
gli mostra la possibilità di una nuova esistenza. Ma Pericle non può
sfuggire a un passato ingombrante e pieno di interrogativi (dal
pressbook). </div>
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<br /></div>
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<br /></div>
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<br /></div>
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<br /></div>
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<br /></div>
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<br /></div>
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<a href="http://www.spietati.it/public/Pericle_il_nero_ab_3.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Pericle_il_nero_ab_3.jpg" width="250" /></a><i>Pericle il nero</i> era un bel romanzo, <strong>Pericle il nero</strong>
è un bel film. Il riferimento al noir partenopeo di Ferrandino non può
essere ignorato né minimizzato, poiché l'adattamento cinematografico di
Mordini rispecchia pienamente il principio "infedeltà alla lettera del
testo di partenza/fedeltà al suo spirito". Senza dilungarci in minuziose
analisi sui meccanismi di trasposizione che hanno portato la vicenda di
Pericle dalla pagina allo schermo (la sceneggiatura è firmata da
Francesca Marciano, Valia Santella e dallo stesso Mordini), corre
tuttavia l'obbligo di segnalare almeno tre aspetti macroscopici che il
romanzo pone come passaggi obbligati: la sua marcata
visualità/sensorialità (nel romanzo Pericle non è soltanto voce
narrante, ma anche sorgente sensoriale: "Mentre colpivo ho sentito la
piscia calda colarmi all’interno di una delle gambe dei pantaloni"), la
sua impronta rigorosamente soggettiva (Pericle non è soltanto
protagonista degli eventi, ma è coscienza centrale del romanzo tanto
negli atti quanto nei pensieri) e la sua tonalità tra il confidenziale e
il grottesco (Pericle si rivolge al lettore con immediatezza e
complicità, stabilendo con lui un rapporto informalmente empatico: "Era
la prima volta in vita mia che vedevo una periferia. Non so neanche come
mi è venuta in mente questa parola. L'avrò sentita in qualche film").</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<i>Attraversando le pagine di Ferrandino, quello che ci ha subito
catturato è stata quella strana musica che suonava dentro la testa di
Pericle. Abbiamo cercato di assecondarne i pensieri, accordandoci alle
sue digressioni e alle sue intuizioni, solo così potevamo trovare la sua
storia e quella del nostro film</i> (Stefano Mordini).</div>
<br />
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Pericle_il_nero_ab_4.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Pericle_il_nero_ab_4.jpg" width="250" /></a>Ebbene,
senza tradursi in calchi automatici o cliché pedissequi, questi tre
passaggi imposti della scrittura di Ferrandino si ricompattano nel film
con ammirevole giustezza e incisività: la salienza sensoriale del
romanzo si riconfigura cinematograficamente nelle spiccate proprietà di
captazione di Pericle (Riccardo Scamarcio in un'interpretazione
semplicemente perfetta), l'impronta letteraria in prima persona si
ricompone nelle traiettorie marcatamente soggettive della pellicola
(oltre a essere costantemente in scena, Pericle orienta fisicamente ogni
inquadratura) e il sapore confidenziale del dettato romanzesco,
espurgato degli elementi più grotteschi e regionalistici, si riversa in
una voce narrante dai toni caldi e sussurrati, come una confessione
fatta a un amico di lunga data. La trasposizione filmica di Mordini
ruota precisamente attorno a questo triplice punto d'appoggio, prendendo
tuttavia le distanze dalla trascrizione illustrativa e trovando una
misura espressiva che, pur non rinnegando l'origine letteraria o la
derivazione dal genere noir, ha il coraggio di sradicare la vicenda dal
suo contesto nativo (il romanzo è ambientato tra Napoli, Battipaglia e
Pescara) e potenziare la componente affettivo-familiare (nel libro
l'aspirazione domestica di Pericle è appena accennata e il suo rapporto
con Nastasia molto più freddo).</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<i>Il Nero che contiene il titolo del film ci ha indicato la strada
del genere mentre tutti noi, compreso Pericle, cercavamo la luce. Così
il film sfugge a qualsiasi definizione, c'è dramma, c’è la teatralità di
certe figure iconiche e c’è un vena di humor (nero). Ed è la voce di
Pericle a guidarci in una fuga che ha un solo scopo: fermarsi in un
luogo tranquillo e non essere più solo</i> (SM).</div>
<br />
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Pericle_il_nero_ab_5.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Pericle_il_nero_ab_5.jpg" width="250" /></a>Le
due alterazioni (deterritorializzazione e potenziamento del desiderio
familiare) sono strettamente correlate: lo spostamento geografico da
Napoli/Pescara a Liegi/Calais fa di Pericle un vero e proprio <i>déraciné</i>
e questa condizione di profondo sradicamento, accentuata dalla
permanenza coatta nell'appartamento dei tunisini, acuisce il sentimento
di solitudine del personaggio, che non ha più punti di riferimento
stabili e si muove in uno spazio a lui completamente ignoto. L'approdo
casuale a Calais, luogo di frontiera per eccellenza, e l’incontro
altrettanto fortuito con Anastasia (Marina Foïs), altro personaggio
sostanzialmente solo e sradicato (proviene da Tolone e lì sogna di
tornare per aprire un forno tutto suo), apre uno spiraglio di
cambiamento nell'esistenza randagia e telecomandata di Pericle. Così
saldate, le due trasformazioni introdotte nell'adattamento
cinematografico ribaltano i rapporti di forza tra ambiente e
personaggio: nel libro è l'ambiente a determinare Pericle, mentre nel
film, essendo intimamente sradicato dal contesto, egli gode di
un'opportunità di affrancamento meno angusta e impraticabile. Detto
altrimenti, il Pericle del film non è completamente condizionato
dall'ambiente, ma si trova in una condizione di spaesamento permanente,
gettato in un mondo che non ha ancora scritto il suo avvenire.
Trapiantato in uno spazio al quale egli non sente di appartenere, egli
dispone ancora di un margine di scelta grazie al quale può ancora dire
sì o no a quel destino di esistenza negata che il boss Don Luigi (Gigio
Morra) gli ha gelidamente sibilato nei primi minuti (“Don Luigi, ma io
che dovevo fare?”; “Tu non dovevi proprio nascere”). Egli è ancora in
grado di progettare, seppur tra mille insicurezze e impulsività
tardoadolescenziali, il proprio futuro.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<i>Dico nostro perché tutti noi, gli autori della sceneggiatura, gli
attori, i produttori, insieme abbiamo deciso di seguire Pericle e
abbiamo aspettato che quel personaggio ci si mostrasse per intero. E
abbiamo scoperto un orfano, che non appartiene a nessuno, in cerca di
una famiglia, che vive in un paese non suo, uno strano essere che si
riempie di chimica per placare l'assenza che gli ribolle dentro</i> (SM).</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Pericle_il_nero_ab_6.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Pericle_il_nero_ab_6.jpg" width="250" /></a>Alla
luce degli snodi evidenziati (sradicamento, solitudine, invenzione del
proprio destino), pare insomma palese che il film di Mordini traghetti
la materia narrativa di partenza in pieno territorio esistenziale,
aprendo la vicenda di Pericle alla dimensione della ricerca e della
progettualità. È una dimensione che si percepisce distintamente in tutto
il film, ora convergendo in un'attività ruminativa che innerva i
momenti di stasi e non detto (i viaggi nel furgoncino, la decisione
cruciale di non sodomizzare Don Luigi), ora confluendo in un'energia che
corre sottopelle nei frangenti immediatamente precedenti all'azione
(l'individuazione dei due killer inviati a Calais, il tesissimo faccia a
faccia con Anna/ Valentina Acca nel prefinale). Ed è una dimensione
che, per forza di cose, investe collettivamente le professionalità
coinvolte nella lavorazione del film: dalle vibrazioni luministiche
della fotografia di Matteo Cocco (<a href="https://www.youtube.com/watch?v=EjBaLaTlSds" target="“_blank”">le tonalità rossastre/aranciate degli spostamenti notturni, i chiarori bluastri degli esterni a Calais</a>) alle variazioni di velocità del montaggio di Jacopo Quadri (la precipitosa fuga di Pericle dalla casa dei tunisini è un <a href="https://www.youtube.com/watch?v=cKe7BCrcDMY" target="“_blank”">piccolo saggio di sintassi visiva</a>), passando per le scenografie di Igor Gabriel (l'eclettismo pacchiano dell’<a href="https://www.youtube.com/watch?v=oTFYOR-dhMw" target="“_blank”">abitazione di Don Luigi</a>, la disadorna modestia dell'<a href="https://www.youtube.com/watch?v=ROUghYF51nU" target="“_blank”">appartamento di Anastasia</a>) e per i costumi di Antonella Cannarozzi (il giaccone di pelle scura dalle spalle cadenti indossato da Scamarcio <a href="https://www.youtube.com/watch?v=hu02tkyQwoo" target="“_blank”">connota il personaggio con straordinaria precisione</a>).</div>
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<br /></div>
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<i>Un percorso di svelamento che è continuato sul set, dove la macchina da presa è diventata testimone attivo e partecipe</i> (SM).</div>
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<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Pericle_il_nero_ab_7.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Pericle_il_nero_ab_7.jpg" width="250" /></a>Ma la maggiore riuscita di <strong>Pericle il nero</strong>
risiede, secondo chi scrive, nella qualità pseudosoggettiva dello
sguardo: anziché tempestare il fraseggio visivo del film di inquadrature
soggettive (come l’impronta fortemente individuale sembrerebbe
richiedere), la messa in scena di Mordini si deposita quasi sempre in
forme lievemente dissociate dal punto di vista del protagonista. Pur
rimanendo il centro focale e il principio di orientamento delle
sequenze, Pericle è spesso iscritto in uno spazio che lo sovrasta, lo
incapsula o gli sfugge. Ovviamente abbondano le semisoggettive
(inquadrature in cui spalle nuca di Pericle sono parzialmente visibili),
ma, ancora più spesso, anche quelle che inizialmente sembrano
soggettive (ovvero inquadrature provenienti dal suo sguardo) si rivelano
false soggettive, il suo corpo entrando in scena a scoppio ritardato:
Pericle non soltanto non è padrone dello spazio che lo circonda, ma non è
nemmeno padrone del suo sguardo, incarnando così un personaggio che,
privato del proprio passato (la rivelazione quasi edipica della sua vera
origine da parte di Signorinella/Maria Luisa Santella), vive nel
presente la condizione di entità inconsapevolmente eterodiretta. Al
lavoro del film spetta dunque il compito di ricomporre ipoteticamente
una coscienza lacerata e disintegrata che trova provvisorio conforto
nell’assunzione reiterata di sostanze chimiche, illusione di consistenza
soggettiva e comprensibilità del reale. Presentato in concorso al
Festival di Cannes 2016 nella sezione Un Certain Regard.</div>
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<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Pubblicata su <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=5812" target="_blank">www.spietati.it</a>.</div>
ABhttp://www.blogger.com/profile/05384764352572794697noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9104073176553617908.post-34206660890321529062016-05-14T01:15:00.000-07:002016-05-14T01:15:31.398-07:00LA FORESTA DEI SOGNI <a href="http://www.spietati.it/public/La_foresta_dei_sogni_ab_1.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/La_foresta_dei_sogni_ab_1.jpg" width="200" /></a><br />
<br />
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
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"Sono l’amore e la perdita a condurre Arthur Brennan (Matthew
McConaughey) all’altro capo del mondo, in Giappone, nella foresta fitta e
misteriosa di Aokigahara, nota come “la foresta dei sogni”, situata
alle pendici del Monte Fuji - un luogo in cui uomini e donne si recano a
contemplare la vita e la morte. Sconvolto dal dolore, Arthur penetra
nella foresta e vi si perde. Lì Arthur incontra Takumi Nakamura (Ken
Watanabe), un giapponese che, come lui, sembra aver perso la strada.
Incapace di abbandonare Takumi, Arthur usa tutte le energie che gli
restano per salvarlo" (dal pressbook). </div>
<br />
<br />
<br />
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<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/La_foresta_dei_sogni_ab_3.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/La_foresta_dei_sogni_ab_3.jpg" width="250" /></a>È
piuttosto difficile mantenere un atteggiamento equilibrato di fronte al
sedicesimo lungometraggio cinematografico di Gus Van Sant, poiché <strong>La foresta dei sogni</strong>, considerato separatamente dal resto della filmografia dell’autore di <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=1172" target="“_blank”"><strong>Last Days</strong></a> (2005) e <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=1062" target="“_blank”"><strong>Paranoid Park</strong></a>
(2007), può essere legittimamente considerato un coacervo di cliché
patetici, stratagemmi strappalacrime e simbolismi a buon mercato. Si
pensi all’alcolismo funzionale della moglie Joan (Naomi Watts) e al suo
tumore al cervello, questo imbattibile aggregatore di affettività che
opera da nemico comune in grado di risolvere le tensioni della coppia;
oppure si presti attenzione alla logica cinicamente accidentale che
proscioglie la stessa Joan dal verdetto canceroso per condannarla subito
dopo alla beffarda sentenza di un incrocio stradale; oppure si rifletta
sull’arsenale simbolico che ingombra sfacciatamente l’intera vicenda,
dalla foresta di Aokigahara come luogo di elezione del suicidio perfetto
all’orchidea che nel finale rimpiazza/ibrida Joan e Takumi (Ken
Watanabe), passando per l’intrico di fasce colorate che Arthur (Matthew
McConaughey) incontra all’inizio del cammino, la busta favolosa e gli
ideogrammi che nell’epilogo si riveleranno essere il colore e la
stagione preferiti da Joan.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/La_foresta_dei_sogni_ab_4.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/La_foresta_dei_sogni_ab_4.jpg" width="250" /></a>Come
se non bastasse, a questo allestimento spudoratamente segnaletico (non
ci vengono risparmiati neppure i pannelli dissuasori di suicidio) e
metaforicamente frusto (la natura è un tempio, recita il poeta, l’uomo
vi passa attraverso foreste di simboli) si aggiunge un arrangiamento
narrativo che si premura accuratamente di non lasciare lacune o rebus
irrisolti: ci sarà un flashback, una magica coincidenza o una scoperta
in extremis a mostrare i dolorosi precedenti, correggere la rotta
suicida di Arthur e restituire alla vita la dignità di essere vissuta
nonostante le tragedie che colpiscono immancabilmente ognuno di noi. A
imporsi perentoriamente, insomma, è la filosofia del "just keep living",
declinata con una serietà così enfatica da sbriciolare il muro del
comico involontario nell’arco di un paio di sequenze (il punto di non
ritorno è già guadagnato con la comparsa delle manine rattrappite di un
cadavere che spunta tra gli alberi). Persino "kaidan", termine
giapponese che designa tradizionalmente le cosiddette storie di
fantasmi, viene impiegato nell’accezione di "scala", caricandosi di
connotazioni salvifiche e metaforiche: si tratta di risalire dalla
foresta purgatoriale a una nuova vita, conquistare un’esistenza
finalmente riappacificata con gli spettri che infestavano la coscienza e
definitivamente libera dal senso di colpa. Non sarà una vera e propria
scala al paradiso, ma la guarigione catartica ottenuta grazie al
generoso intervento di Takumi si approssima incautamente alla vittoria
fuori casa col conseguimento della salvezza insperata.</div>
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<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/La_foresta_dei_sogni_ab_5.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/La_foresta_dei_sogni_ab_5.jpg" width="250" /></a>Meno deludente e improduttivo, invece, il raffronto col film di cui <strong>La foresta dei sogni</strong> rappresenta a tutti gli effetti il controtipo positivo: <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=2227" target="“_blank”"><strong>Gerry</strong></a> (2002), secondo chi scrive il capo d’opera di Gus Van Sant. Detto più chiaramente, <strong>The Sea of Trees</strong> riempie a distanza il vuoto desertico creato da <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=2227" target="“_blank”"><strong>Gerry</strong></a>. A partire dal titolo: laddove <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=2227" target="“_blank”"><strong>Gerry</strong></a>
designava entrambi i protagonisti impedendo una loro individuazione
nominale (e di conseguenza gettando un’ombra di sospetto sulla reale
esistenza/consistenza di almeno uno dei due personaggi), <strong>The Sea of Trees</strong>,
alla lettera "Il mare di alberi", sposta subito l’accento sulla
dimensione metaforica, piazzando il viaggio di Arthur sotto il segno
dell’allegoria dal valore universale. Con <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=2227" target="“_blank”"><strong>Gerry</strong></a> ci trovavamo insomma nel registro del particolare indistinto, mentre con <strong>The Sea of Trees</strong>
siamo immediatamente proiettati nell’universale localizzato (la foresta
di Aokigahara come "il luogo perfetto dove morire"). Foresta/deserto,
vita/morte, umidità/siccità, allegoria/fenomenologia,
didascalismo/enigmaticità, verbosità/laconicità, mutua
assistenza/ostilità crescente: sono queste le dicotomie fondamentali che
contrappongono <strong>La foresta dei sogni</strong> a <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=2227" target="“_blank”"><strong>Gerry</strong></a>.
Dicotomie alle quali occorre aggiungere il trattamento antitetico del
passato dei personaggi (dei due protagonisti del film del 2002 non
conoscevamo niente, del vissuto di Arthur e Takumi sappiamo tutto ciò
che occorre sapere) e l’opposta traiettoria morale disegnata dalle due
pellicole (all’assenza di qualsiasi mandato di speranza in <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=2227" target="“_blank”"><strong>Gerry</strong></a> corrisponde, in <strong>The Sea of Trees</strong>, il messaggio a caratteri cubitali "la vita vale la pena di essere vissuta perché è piena di sorprese e aiuti provvidenziali").</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/La_foresta_dei_sogni_ab_6.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/La_foresta_dei_sogni_ab_6.jpg" width="250" /></a>Ancora più delicata e ragguardevole la distanza psichica che separa la deriva disorientata di <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=2227" target="“_blank”"><strong>Gerry</strong></a> dal tragitto introspettivo di <strong>The Sea of Trees</strong>. Pur essendo film eminentemente mentali (emblematica la presentazione del "mare di alberi" sui titoli di testa de <strong>La foresta dei sogni</strong>
prima dell’inquadratura frontale di Arthur in macchina: il luogo è già
nella sua mente), le due pellicole configurano dinamiche di spaesamento
diametralmente opposte. In <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=2227" target="“_blank”"><strong>Gerry</strong></a>
la destinazione, ossessivamente chiamata "Thing" ("Cosa"), sembrerebbe
talmente facile da raggiungere da essere quasi inevitabile arrivarci -
"Ogni sentiero porta alla Cosa", veniva ottimisticamente detto nei primi
minuti da Gerry/Damon - e il seguito del film mostrerà di fatto
l’inattingibilità della Cosa stessa, mentre in <strong>The Sea of Trees</strong>
non solo l’arrivo nella foresta di Aokigahara è un semplice
trasferimento senza intoppi, ma anche la scelta del luogo deputato al
suicidio viene effettuata senza troppe esitazioni. Se in <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=2227" target="“_blank”"><strong>Gerry</strong></a>
la Cosa era irraggiungibile a causa dello smarrimento causato
dall’incapacità di fissare punti di riferimento affidabili nello spazio,
in <strong>The Sea of Trees</strong> il punto di arrivo è guadagnato in tempi tecnici e senza alcun disorientamento.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://www.spietati.it/public/La_foresta_dei_sogni_ab_7.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/La_foresta_dei_sogni_ab_7.jpg" width="250" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
Questa
enorme discrepanza nella concezione spaziale porta direttamente al
nucleo differenziale dei due film: il rapporto tra la dimensione
simbolica del linguaggio e quella del reale. L’insormontabile problema
che assilla i due <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=2227" target="“_blank”"><strong>Gerry</strong></a>
risiede difatti nell’impossibilità di ritagliare simbolicamente lo
spazio, di formulare significanti in grado di fare presa sul reale per
articolarlo e ordinarlo cartesianamente (fare del territorio una mappa
mentale, in altri termini). I materiali verbali che essi producono
tendono al contrario a diradarsi, appiattirsi e "desemantizzarsi": la
Cosa svanisce e il nome Gerry finisce per coprire porzioni sempre più
vaste di reale, perdendo il proprio statuto di nome proprio per farsi
sostantivo pervasivo il cui significato sembra slittare da un oggetto
all’altro e da una situazione all’altra (si noti anche il mutamento di
categoria grammaticale: dal nome Gerry i due personaggi ricavano il
verbo corrispondente a indicare genericamente la mancata realizzazione
di un’azione utile). Persino i gesti dei due protagonisti si sganciano
dal piano del significato intenzionale per tradursi in puri e semplici
passaggi all’atto di natura pulsionale (l’aggressione finale di
Gerry/Damon nei confronti di Gerry/Affleck). In <strong>The Sea of Trees</strong>,
al contrario, tutto è segno: Arthur scopre l’esistenza della foresta di
Aokigahara con una ricerca su Google - sempre più Pizia contemporanea -
e il contenuto verbale/iconico della ricerca si deposita subito nella
sua mente (si pensi nuovamente ai titoli di testa). La macchina
abbandonata alle soglie della foresta e i pannelli deterrenti al
suicidio, peraltro sottotitolati in inglese all’occorrenza, accolgono il
suo arrivo e lo avvisano a chiare lettere: qui siamo nell’ambito del
significato intenzionale e inconfondibile. Nulla è lasciato al caso, il
reale non ha niente di sconosciuto o intimamente misterioso: si viene
qui per morire e questo fatto è universalmente noto. Il senso condiviso e
risaputo celebra il suo trionfo: benché giapponese, Takumi parlerà
fluentemente in inglese, gli ideogrammi inizialmente indecifrabili
verranno tradotti nel finale e il corpo stesso del nipponico compagno di
sventura di Arthur si trasformerà miracolosamente in orchidea (non un
fiore a caso, ma quello preferito dalla moglie Joan). Da questa
angolazione, infine, è possibile contrapporre il vuoto nevrotico di <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=2227" target="“_blank”"><strong>Gerry</strong></a>, pellicola in cui a imporsi è il vacillamento dubbioso e ossessivo dei protagonisti, alla pienezza psicotica di <strong>The Sea of Trees</strong>,
film nel quale tutto è segno, metafora, allegoria. L’illusione di
consistenza soggettiva che la radicale certezza simbolica di <strong>The Sea of Trees</strong>
genera senza soluzione di continuità (sovrimpressione permanente:
"tutto mi parla, tutto mi riguarda") lo connota inequivocabilmente come
un film paranoico e perversamente prossimo alla credenza delirante. <strong>La foresta dei sogni</strong> diviene così, con una brusca torsione psicotica, "La foresta dei segni".</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Pubblicato su <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=5805" target="_blank">www.spietati.it</a>. </div>
ABhttp://www.blogger.com/profile/05384764352572794697noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9104073176553617908.post-7598894609183634452016-03-15T03:51:00.001-07:002016-03-15T03:53:19.647-07:00IL CLUB<br />
<a href="http://www.spietati.it/public/Il_club_ab_l1%20%28420x600%29.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Il_club_ab_l1%20%28420x600%29.jpg" style="cursor: move;" width="200" /></a><br />
<br />
<br />
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Quattro religiosi vivono in una casa appartata a La Boca, una piccola
città di mare. Ciascuno di loro è stato inviato nell’abitazione per
espiare peccati commessi in passato. Improntata a uno stretto regime
sorvegliato dall’occhio vigile di una custode, la fragile stabilità
della loro quotidianità è scombussolata dall’arrivo di un quinto uomo,
un compagno recentemente caduto in disgrazia che porta con sé quel
passato che credevano essersi lasciati alle spalle. </div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<br />
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<i>Sono sempre stato disturbato dai destini di quei preti rimossi
dalle loro posizioni dalla Chiesa stessa in circostanze completamente
segrete, a insaputa dell’opinione pubblica. </i>[…].<i> Sacerdoti che,
nel silenzio completo, sono stati spediti in case di riposo. Dove sono
questi sacerdoti? Chi sono? Che cosa fanno? Questo è un film su quei
preti esiliati e perciò questo film è il club dei preti perduti.</i> (Pablo Larraín)</div>
<br />
<h2 style="text-align: justify;">
Il cerchio</h2>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Il_club_ab_2%20%28800x332%29.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Il_club_ab_2%20%28800x332%29.jpg" width="250" /></a><b>Il club</b>
si apre con un’inquadratura piuttosto ampia in riva al mare: Padre
Vidal (Alfredo Castro) allena il suo levriero, facendolo correre in
cerchio. L’inquadratura, al di là del suo senso letterale, veicola
immediatamente un doppio significato metaforico: quello della chiusura
in un universo circolare e quello, complementare, dell’addomesticamento
dell’animalità (brutalmente, la libido). Segregati e sorvegliati
dall’occhio vigile di Madre Monica (Antonia Zegers), i quattro maturi
sacerdoti possono controllare e domare quella spinta libidica che, in
passato, li ha spinti a commettere abusi sessuali e atti di
prevaricazione su vittime innocenti. Questa condizione di equilibrio è
garantita dall’universo a tenuta stagna in cui i religiosi sono
segregati e, per così dire, tumulati: un universo ermeticamente chiuso,
scandito da regole ben precise e tenuto in ordine da Madre Monica. In
questo caso, la pulizia effettuata e assicurata con accanito zelo da
Madre Monica non è soltanto di ordine pratico, ma soprattutto morale:
non è senza motivo che la seconda inquadratura del film la mostri
intenta a lavare le scale esterne della casa (vera e propria zona di
passaggio tra il fuori e il dentro, tra le occasioni di contaminazione
provenienti dall’esterno e lo stato di purezza asettica dell’interno).
Nella casa, insomma, regna un’atmosfera di catatonica tranquillità
emblematicamente incarnata dall’istupidito e smemorato Padre Ramirez (il
drammaturgo, regista teatrale e attore Alejandro Sieveking). Dentro il
recinto domestico è tutto sotto stretto controllo, rigorosamente
equilibrato, regolato, coltivato (l’orticello curato da Padre
Silva/Jaime Vadell): “Conduciamo una vita santa”, proclamerà in seguito
Madre Monica.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<i>Al mattino ci svegliamo e preghiamo. Poi facciamo colazione. E
dopo c’è un po’ di tempo libero per le faccende personali. Alle 12 si
celebra messa. I Padri la fanno a turno e così fanno per la confessione.
Se ha bisogno di confessarsi, me lo comunica e io parlo coi Padri
perché qualcuno la confessi. All’una pranziamo, poi cantiamo. Poi, siamo
liberi e alle 8 e mezza ceniamo. Alle 8 recitiamo il rosario e alle 8 e
mezza mangiamo. Non può andare in paese se non tra le 6:30 e le 8:30 AM
o tra le 19 e le 21. Se vuole uscire in quell’orario, bene, però da
solo. Non potete andare insieme per strada. È assolutamente proibito
comunicare con persone estranee alla Casa. È proibita qualsiasi azione
auto flagellante o di piacere autoindotto. Non può maneggiare né denaro
né cellulare.</i> (Madre Monica)</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Il_club_ab_4%20%28800x332%29.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Il_club_ab_4%20%28800x332%29.jpg" width="250" /></a>L’esterno,
per il momento, si riduce a una linea d’orizzonte solcata dalla vela di
un windsurf, che Padre Vidal osserva con invaghita rassegnazione. Il
levriero Fulmine (nome che squarcia la narcotica placidità del
microcosmo) è la sola presenza vivace, che corre a perdifiato, eppure
anche il suo è un movimento rigidamente padroneggiato dalla compiaciuta
congrega di religiosi in ritiro. È un’immagine del Cile, quella
condensata nella casa, l’immagine cristallizzata di un passato che, come
una scoria radioattiva, è stata stoccata in questo centro di preghiera e
penitenza, una sorta di reparto per lo smaltimento di rifiuti tossici
o, detto più rozzamente, una lavanderia per cattive coscienze. Quanto
l’energia libidica della piccola confraternita sia stata efficacemente
convogliata sul levriero è mostrato dal successo riportato da Fulmine
nella prima corsa: sbaragliando la concorrenza dei Manzur, “i turchi del
supermercato”, la vittoria dell’animale fornisce ai religiosi un
surrogato erotico (si veda la scossa di piacere che appare sul volto di
Madre Monica) di quelle esperienze proibite che gli ex sacerdoti
consumavano nel chiuso delle loro stanze (la reazione collettiva dei
quattro religiosi per il successo di Fulmine va molto al di là della
semplice soddisfazione, lasciandoli letteralmente senza fiato). Il
denaro guadagnato dalla vittoria di Fulmine rappresenta economicamente
la circolazione di questa energia erotica sotto controllo: non è
fortuito che Madre Monica, colei che vigila sulle menti e sui cuori dei
quattro ex sacerdoti, si opponga alla proposta di spartizione del
denaro, facendosi titolare dell’importo erotico e impedendo che
l’energia libidica, sotto forma di avidità, torni a essere sparpagliata e
singolarmente disponibile.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<i>La società cilena ha fondato se stessa su una storia di potere e
sottomissione, proprio come ogni altra società. Poteri economici,
sociali, politici e religiosi, ma, in particolare, poteri che hanno
inflitto grandi violenze sotto la copertura del silenzio. Piccoli gruppi
di persone, famiglie e congregazioni hanno goduto dell’impunità per i
loro atti, molto spesso criminali, coperti dalle loro reti di
protezione. Ciò diviene oscenamente radicale durante la dittatura degli
anni ’70 e ’80, quando questa impunità è consacrata tanto nello
smantellamento dello Stato Repubblicano, tramite l’usurpazione e la
privatizzazione delle sue imprese, del sistema sanitario ed educativo,
quanto nel trattamento crudele e criminale delle sue vittime e in tutti
gli abusi contro i diritti umani e la dignità.</i> (Alfredo Castro)</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Il_club_ab_6%20%28800x332%29.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Il_club_ab_6%20%28800x332%29.jpg" width="250" /></a>Ma
questo passato non è del tutto passato, è soltanto rimosso e posto
sotto la sorveglianza di un Super-Io efficiente e insostituibile:
l’ipotesi di portare Fulmine al campionato nazionale manifesta questa
doppia funzione di Madre Monica (se lei andasse a Santiago col cane, li
lascerebbe in balia di se stessi e l’alternativa di una sostituta è
definita letteralmente impossibile; la questione viene dunque
sbrigativamente rimandata). È sufficiente l’irruzione di un fattore
esterno a slatentizzare lo squilibrio meticolosamente tenuto a bada:
l’arrivo di Padre Lazcano (José Soza) scompagina irrimediabilmente
l’ordine del microcosmo domestico, portando con sé il ritorno del
rimosso, la recrudescenza della colpa, il rimorso in una parola. Non
sfugga il carattere totalmente arbitrario dell’apparizione di Sandokan
(Roberto Farías), che si materializza proprio quando il nuovo arrivato
si ribella a Madre Monica e al rigido protocollo delle regole di
condotta che gli ha appena snocciolato: “Mi scusi, Madre, però non so
perché dovrei sottomettermi alle stesse regole “loro”. Non so se lei sa
perché sono qui. Non ho commesso nessun delitto, nessun peccato. Non
sono un invertito. Ho avuto un piccolo problema”. È proprio sulle sue
parole che s’innesta, provenendo dall’esterno, la filastrocca di
Sandokan, ideale prosecuzione della sua riluttanza a farsi disciplinare
da questa Legge inflessibile. Detto più semplicemente, Padre Lazcano non
è che l’ambasciatore di Sandokan, il suo annunciatore, il suo messo:
colui che prepara l’arrivo del personaggio deputato a lacerare
irreparabilmente l’ordine stabilito. Il suicidio di Lazcano, tanto
inopinato quanto il manifestarsi di Sandokan, testimonia la natura
provvisoria e funzionale della sua figura: egli è lì per portare
all’interno quel passato rimosso che continua ad aggirarsi nel presente
come un fantasma inconsolabile.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<i>Abbiamo anche scoperto che esiste una congregazione
internazionale, fondata negli Stati Uniti, chiamata “Servants of the
Paraclete”, che negli ultimi 60 anni si è dedicata esclusivamente alla
cura dei preti che non possono più continuare a svolgere le funzioni
sacerdotali per diversi motivi, a dispetto del fatto che la maggioranza
di questi preti hanno commesso crimini.</i> (Pablo Larraín)</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<h2 style="text-align: justify;">
Bella addormentata nel bosco: Paranoia Todo modo</h2>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Il_club_ab_8%20%28800x332%29.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Il_club_ab_8%20%28800x332%29.jpg" width="250" /></a>L’arrivo
di Sandokan tramite Lazcano ci pone di fronte a una versione
tragicamente distorta di quello che André Gardies ha definito “Effetto <i>Bella addormentata nel bosco</i>”:
“Dal momento che fa vacillare l’ordine stabilito fino a questo punto e
dal momento che trasforma ciò che non era che scenografia in un universo
dalle corrispondenze segrete, l’arrivo del personaggio - autenticamente
trasgressore - produce un singolare effetto finzionale che non resisto
al piacere di chiamare «Bella addormentata nel bosco».” (<i>L'espace au cinéma</i>,
Méridiens-Klincksieck, 1993, p.136). La casa, fino a questo istante
luogo di ordine ed equilibrio, diviene un carcere, un edificio assediato
e insidiato, uno spazio infernale: “Che ci faccio in questa Casa? In
questa merda di Casa?”, sbotta Padre Ortega (Alejandro Goic). L’esterno è
ormai strisciato all’interno, il passato rimosso risuona nel presente,
qui e ora. Già, perché quella incarnata da Sandokan è una seconda
immagine del Cile: quella di un presente che, avvezzo agli abusi
dell’istituzione religiosa e allevato in questo clima di piacere
morboso, è attualmente incapace di spezzare la relazione di ambivalenza
che lo lega al vissuto di umiliazione e protezione. Per Sandokan è
materialmente impossibile scindere i due volti della Chiesa che ha
conosciuto sulla propria pelle: violenza e fede, abuso e fiducia,
sottomissione e protezione (“E mi metteva il pene nella bocca. Ed era un
pene così grande che, siccome ero bambino, a me, a volte, faceva male
l’apertura della boccuccia. Perché l’apertura, dato che ero piccolo, non
mi bastava per ingoiare il pene del prete, ma lui veniva lo stesso. E
mi obbligava e, a volte, mi veniva da vomitare con la cosa del seme. Mi
faceva vomitare la cosa del seme. Perché poi il prete mi dava una
mentina, così il seme non si sente, così squallido, così strano, così
salato”, declama Sandokan, con sconcertante tono oratorio, davanti alla
casa).</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<i>Dalla precaria condizione di chi non ha molte alternative per
credere, Sandokan crede in qualcosa di concreto che lo ha protetto,
aiutato e allevato; qualcosa che gli ha permesso di sopravvivere. Più
che come qualcosa di filosofico o spirituale, egli vede la fede come una
cosa concreta e funzionale, nella quale è stato forzato ad assecondare
ciecamente tutte le umiliazioni e i piaceri dei preti che lo hanno
protetto - in questo caso Matias Lazcano. Qui amore e fede sono confusi e
disintegrati al tempo stesso. Ogni abuso, palpeggiamento o penetrazione
è visto come un’offerta a un Dio che protegge, nasconde e sorveglia
soltanto i milionari. Senza dubbio questa riflessione corrisponde a un
intelletto molto più grande di quello di Sandokan. Egli è più basico,
viscerale e carente di meccanismi o elementi che gli permettano di avere
un’intelligenza emotiva con la quale possa cambiare il proprio destino.</i> (Roberto Farías)</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Il_club_ab_10%20%28800x332%29.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Il_club_ab_10%20%28800x332%29.jpg" width="250" /></a>Il
suicidio di Padre Lazcano produce inoltre una forte perturbazione nel
microcosmo a causa dell’arrivo di Padre García (Marcelo Alonso), inviato
dall’autorità religiosa per fare chiarezza sull’accaduto, definito un
padre spirituale con molta esperienza di situazioni critiche, psicologo
che ha studiato a Ginevra, uomo molto preparato e, infine, molto bello.
Il suo ingresso nella casa, immediatamente successivo al funerale di
Padre Lazcano, scatena la diffidenza dei quattro sacerdoti, convertendo
l’energia libidica liberata dalla materializzazione di Sandokan e dal
suicidio di Lazcano in paranoia. I quattro confabulano animatamente,
gettando fango sull’aspetto da “ricco colpevole” del nuovo arrivato,
sospettando apertamente di lui e giungendo rapidamente a questa
conclusione: “Questo García è venuto per venderci. Così la Chiesa se ne
lava le manie noi facciamo da capri espiatori. Ci elimineranno. Ci
elimineranno” (Padre Silva a Padre Ortega). Padre García si presenta
esplicitamente come investigatore delle coscienze (“Sorella, lei e io
sappiamo perché i fratelli si trovano qui. Ciò che devo sapere è se loro
stessi siano coscienti del perché sono qui”, dice a Madre Monica) e
come agente di rinnovamento (“Quello che voglio è una Chiesa nuova”,
aggiunge chiedendole aiuto in questa difficile opera di rigenerazione
morale). Istigata dalla scoperta dei dossier di alcuni dei sacerdoti
della casa (scoperta fatta furtivamente da Padre Ortega), la paranoia
s’intensifica in seguito ai colloqui individuali, durante i quali Padre
García cerca di inchiodare i quattro sacerdoti alle loro responsabilità,
ricevendo in cambio refrattarietà, arroganza e aperta derisione.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<i>Benché manchi un momento politico evidente e specifico - come accade nel caso di </i>Tony Manero<i>, </i>Post Mortem <i> o </i>No<i>, nei quali il panorama e il contesto della dittatura erano tremendamente presenti - con </i>Il club<i>
Pablo Larraín continua a rivolgersi a un soggetto che, ai miei occhi,
attraversa tutti i suoi film e tutti i ruoli che ho dovuto interpretare:
l’impunità</i> (Alfredo Castro) </div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Il_club_ab_12%20%28800x332%29.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Il_club_ab_12%20%28800x332%29.jpg" width="250" /></a>Esercizi
spirituali di espiazione praticati secondo regole ferree e condotti in
un eremo-prigione, spettri di morbosità che assediano il luogo e morti
violente, tentativi di rinnovamento dell’istituzione e paranoia
dilagante: impossibile non pensare a <b>Todo modo</b> (1976),
al quale rimandano, non importa se deliberatamente o meno, anche il
carattere quasi esclusivamente maschile del malsano microcosmo religioso
e la presenza dei dossier custoditi segretamente dal direttore
spirituale. Il disegno narrativo di <b>Todo modo</b> e <b>Il club</b>
possiede la medesima matrice: eliminare le tracce dello sfruttamento
passato per preservare nel presente l’autorità dell’istituzione (“La
società cilena ha fondato se stessa su una storia di potere e
sottomissione, proprio come ogni altra società”), nella figura di Padre
García condensandosi i personaggi interpretati da Marcello Mastroianni e
Gian Maria Volonté nella pellicola di Petri. Ma questa affinità di
fondo non intacca minimamente la singolarità del film di Larraín, che si
sviluppa in totale autonomia secondo un arrangiamento al contempo
psicoanalitico e politico: non sorprende affatto che Padre García
individui subito in Fulmine un animale di cui sbarazzarsi poiché
ricettacolo di avidità e incontinenza, così come non meravigliano le sue
parole di rimprovero indirizzate all’ex cappellano dell’esercito Padre
Silva - “Se è rinchiuso in questa Casa, è perché resti in silenzio”.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<i>Da questo punto di vista, </i>Il club<i> appare ai miei occhi come
un’osservazione realistica della contingenza politica, sociale e
religiosa, e soprattutto della giustizia (o piuttosto della sua
mancanza). Le reti del potere continuano ad andare avanti, nascoste
nell’ombra e protette dall’impunità che certi gruppi continuano ad
avere.</i> (Alfredo Castro) </div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<h2 style="text-align: justify;">
Agnello di dio: reality show para buscar la voluntad divina</h2>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Il_club_ab_14%20%28800x332%29.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Il_club_ab_14%20%28800x332%29.jpg" width="250" /></a>Sganciata
dal levriero (Fulmine perde tutt’a un tratto la sua straordinaria
velocità, venendo battuto nella corsa domenicale), l’energia libidica si
trasferisce esplicitamente su Sandokan nel dialogo destabilizzante con
Padre García, il quale finisce per identificare in lui il Male da
esorcizzare. Così, smarrito lo statuto di surrogato erotico, il cane
viene sacrificato come semplice strumento per accalappiare e domare il
Male a piede libero. Madre Monica, Padre Ortega e Padre Silva - sotto la
muta direzione di Padre Garcia e a insaputa di Padre Vidal - non
esitano a fare di Sandokan l’oggetto di una spedizione punitiva
collettiva: l’uccisione dei levrieri del quartiere, avvalorata dalla
soppressione dello stesso Fulmine, è imputata all’innocente e ignaro
vagabondo. Sandokan (non sfugga che si tratta del solo personaggio,
oltre a Fulmine, ad avere un nome aggressivo) viene letteralmente
trasformato in vittima sacrificale, in “agnello di Dio”, come egli
stesso si definisce in una delle sue invettive davanti alla casa (“Voi a
un agnello di Dio sapete solo chiudere la porta in faccia!”) e come
sarà ribadito nel delirante canto corale dell’epilogo (“Cordero de Dios
que quitas el pecado del mundo, ten piedad de nosotros”). È in questo
tumultuoso frangente che si precisa la funzione dei tre windsurfer che
in precedenza abbiamo visto snobbare i tentativi di socializzazione di
Padre Vidal: essi rappresentano la terza immagine del Cile, quella di un
futuro totalmente indifferente alle sofferenze del passato e
irritabilmente riluttante a scendere a patti con ciò che questo passato
ha da offrire (alla proposta di dare una lezione a Sandokan dietro lauto
compenso formulata da Padre Vidal, i giovani reagiscono picchiandolo e
rifiutando il suo denaro, in un montaggio alternato che intreccia le
percosse inferte all’ex sacerdote al feroce pestaggio di Sandokan).</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<i>Superando il realismo più estremo nel trattamento estetico e nella
struttura narrativa, credo che questo film sia una testimonianza
radicalmente politica e rilevante poiché materializza un sogno comune:
che questi promotori della fede, questi guardiani di una classe, siano
esposti al processo dei cittadini, un processo storico, poiché i lori
atti sono stati a lungo diretti, hanno tratto profitto e sono stati
nutriti dalla società civile; poiché essi hanno dimenticato e non hanno
mai avuto la minima idea di reciprocità; poiché non hanno rispettato il
contratto sociale.</i> (Alfredo Castro)</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Il_club_ab_16%20%28800x332%29.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Il_club_ab_16%20%28800x332%29.jpg" width="250" /></a>Soppresso
il cane e pestato a sangue Sandokan, l’equilibrio è ripristinato: un
equilibrio senza dubbio diverso da quello iniziale ma sostanzialmente
compatibile con l’esigenza di omertà e occultamento tuttora vigente.
Nessun autentico rinnovamento della Chiesa, soltanto l’ennesima
riverniciatura della facciata: la scheggia impazzita prodotta dagli
abusi del passato viene riassorbita nella Casa di Dio (“Qui c’è Dio,
Padre!”, ha precedentemente ricordato Padre García all’insolente Padre
Ortega), viene letteralmente addomesticata. Neutralizzata e
disinnescata, la mina vagante rappresentata da Sandokan può essere
finalmente accolta nella casa (“Se date un letto a quest’uomo, mi
dimentico di voi”, assicura Padre García), ribattezzata (Sandokan
diviene Tommaso, l’apostolo che dubitò della resurrezione di Cristo) e
accuratamente disinfettata (“La prima cosa da fare è finire di
disinfettarlo”, sentenzia Padre Silva). L’impunità, ancora una volta, è
garantita: “Amo la Chiesa e non voglio danneggiarla”, afferma Padre
García per giustificare il suo silenzio; “Come non approfittare di
questa magnifica opportunità che ci dà la nuova Chiesa per salvare le
nostre anime?”, conclude sarcasticamente Padre Ortega. La sconcertante
batteria di psicofarmaci richiesta infine da Sandokan/Tommaso per
scongiurare eventuali episodi psicotici suggella definitivamente il
carattere sedativo del suo recupero: l’ordine può essere mantenuto solo
con l’aiuto dei farmaci, la tranquillità s’identifica ancora una volta
con la catatonia.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<i>Non abbiamo dato la sceneggiatura agli attori, soltanto poco prima
che la scena venisse girata, sicché non sapevano che cosa fossero gli
altri personaggi - era come un esercizio per vedere se funzionasse.</i> (Pablo Larraín)</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Il_club_ab_18%20%28800x332%29.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Il_club_ab_18%20%28800x332%29.jpg" width="250" /></a>Portato
dall’esterno e attento a non carbonizzare simbolicamente una materia
già intrinsecamente incendiaria, lo sguardo di Larraín configura un
microcosmo spaziale che riformula grottescamente e causticamente la
retorica visiva dei reality show (non sembri fortuita la concomitanza
della prima materializzazione di Sandokan con la visione del reality
trasmesso dalla Televisión Nacional, così come la minaccia di Madre
Monica a Padre García di chiamare la televisione nell’eventualità della
chiusura della casa). Ma questa volta il Grande Fratello è nientemeno
che Dio, l’onnisciente e onnipotente regista dello spettacolo che si
svolge all’interno casa, spettacolo in cui i religiosi non sono altro
che marionette, pupazzi eterodiretti, infantili e inconsapevoli agenti
della sua volontà (“Dio è l’unico che sa. Lui sa. Noi siamo bambini, per
questo non capiamo. Ma Lui è il Padre. Ed è il solo a sapere”, sussurra
Madre Monica al singhiozzante Padre Vidal, disperato per la
soppressione di Fulmine). Confessionali, dinamiche di alleanza e
cospirazione, ostilità strisciante, sessualità vigilata ed esacerbata,
sorveglianza permanente, ferree regole di condotta, infrazioni segrete,
pasti collettivi nei quali si consumano chiassosi litigi: il repertorio
narrativo e spettacolare del reality tintinna crudele in tutta la sua
vitrea e narcotica trasparenza: “Todo modo para buscar la voluntad
divina”.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Pubblicata su <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=5749" target="_blank">www.spietati.it</a>. </div>
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<a href="http://www.spietati.it/public/Knight_of_Cups_ab.1%20%28432x640%29.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Knight_of_Cups_ab.1%20%28432x640%29.jpg" width="200" /></a> </div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
C’era una volta un giovane principe che fu inviato dal proprio padre, il
re dell'Est, in Egitto per trovare una perla. Ma quando il principe
arrivò, gli abitanti del luogo gli versarono una coppa. Bevendola, egli
scordò di essere il figlio di un re, si dimenticò della perla e cadde in
un sonno profondo (traduzione dalla prima sinossi del film: “Once there
was a young prince whose father, the king of the East, sent him down
into Egypt to find a pearl. But when the prince arrived, the people
poured him a cup. Drinking it, he forgot he was the son of a king,
forgot about the pearl and fell into a deep sleep”). </div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Knight_of_Cups_ab.3%20%28433x640%29.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Knight_of_Cups_ab.3%20%28433x640%29.jpg" width="250" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
Per un’introduzione ai motivi gnostici presenti nell’ultima produzione di Terrence Malick, si rimanda alle recensioni di <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=3668" target="“_blank”"><strong>The Tree of Life</strong></a> e <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=4807" target="“_blank”"><strong>To the Wonder</strong></a>,
nelle quali è delineato il sistema religioso di riferimento e sono
presi in considerazione alcuni risvolti della stessa impronta
tradizionale (il movimento gnostico ebbe la sua massima diffusione nei
primi secoli del cristianesimo). Detto altrimenti, la lettura della
seguente trattazione non può prescindere da ciò che è stato sviluppato
nelle precedenti riflessioni su <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=3668" target="“_blank”"><strong>The Tree of Life</strong></a> e <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=4807" target="“_blank”"><strong>To the Wonder</strong></a>,
di cui rappresenta un ulteriore e più approfondito sviluppo. Sebbene
l’impianto degli ultimi tre film di Malick (ai quali, in virtù di
segnali e affinità meno evidenti, si potrebbero aggregare anche <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=534" target="“_blank”"><strong>The New World</strong></a> e <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=2630" target="“_blank”"><strong>La sottile linea rossa</strong></a>)
sia contraddistinto da un libero arrangiamento sincretistico, non
tenere conto della componente riconducibile al pensiero gnostico
impedirebbe, secondo chi scrive, di coglierne il tratto più consistente,
ingenerando plateali malintesi (accuse di estetizzante vaniloquio
ermetico) o sviste colossali (disinvolte attribuzioni ai più svariati
sistemi dottrinali). Non sorprende dunque che la prima locandina
ufficiale del film (riportata a fianco) raffiguri <i>L’albero dell’anima</i>
del tedesco Dionysius Andreas Freher (1649-1728), mistico cristiano
saldamente legato all’opera di Jacob Böhme (1575-1624), figura
ampiamente associata alla tradizione gnostica. Chi scrive, consapevole
del grado di arbitrarietà e opinabilità che essa presenta, rivendica
infine la paternità di questa chiave di lettura, elaborata alcuni anni
fa durante una revisione di <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=2630" target="“_blank”"><strong>The Thin Red Line</strong></a> e consolidata nel 2011 durante la visione di <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=3668" target="“_blank”"><strong>The Tree of Life</strong></a>.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
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Allegorie: dal <i>Pellegrinaggio del cristiano</i> all’<i>Inno della Perla</i></h2>
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</div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Knight_of_Cups_ab.4.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Knight_of_Cups_ab.4.jpg" width="250" /></a><i>Il viaggio del pellegrino da questo mondo a quello venturo presentato in forma di sogno</i>: posta all’inizio del film e recitata dalla voce narrante di John Gielgud, la citazione dell’opera <a href="http://utc.iath.virginia.edu/christn/chfijba1f.html" target="“_blank”"><i>The Pilgrim’s Progress from This World to That Which Is to Come Delivered under the Similitude of a Dream</i></a> (1678) di John Bunyan mette subito le cose in chiaro, dicendoci esplicitamente che quella raccontata da <strong>Knight of Cups</strong>
non sarà altro che una gigantesca allegoria, la storia di un viaggio
emblematico sotto forma di immagini raffiguranti la condizione
dell’essere umano costretto a errare su questa terra in un pericoloso
pellegrinaggio. Tuttavia non si tratta di un’allegoria generica e
intercambiabile con qualsiasi altra vicenda simbolica, si tratta
precisamente e quasi letteralmente dell’oggettivazione cinematografica
di un testo gnostico del III secolo: l’<a href="http://www.paxpleroma.it/prospettive/inno%20della%20perla.html" target="“_blank”"><i>Inno della Perla</i></a>. Nella recensione di <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=4807" target="“_blank”"><strong>To the Wonder</strong></a>,
si era già accennato a questo testo esemplare della tradizione
gnostica, ma in quel caso il riferimento possedeva un significato
ironico e sostanzialmente inconcludente, poiché l’aquila incaricata di
recare il messaggio di risveglio e ricordo delle origini regali non
produceva alcun effetto sull’atteggiamento di Marina/Olga Kurylenko.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Knight_of_Cups_ab.5%20%28435x640%29.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Knight_of_Cups_ab.5%20%28435x640%29.jpg" width="250" /></a>Con <strong>Knight of Cups</strong>,
invece, siamo in presenza di una vera e propria traduzione in immagini
(ovviamente libera, rapsodica e parziale) dell’Inno, la prima parte del
quale è stata addirittura utilizzata, in forma sintetica, quale sinossi
del film stesso. Mette conto riportare questa parte dell’Inno per
facilitare il confronto tra il testo gnostico e la prima trama ufficiale
del film (in seguito ne è stata rilasciata <a href="http://www.theknightofcupsmovie.com/story" target="“_blank”">un’altra più convenzionale</a>):
“Quando ero bambino e abitavo nel regno della casa di mio Padre e mi
dilettavo della ricchezza e dello splendore di coloro che mi avevano
allevato, i miei genitori mi mandarono dall’oriente, nostra patria, con
le provviste per il viaggio. Delle ricchezze della nostra casa fecero un
carico per me: esso era grande, eppure leggero, in modo che potessi
portarlo da solo... Mi tolsero il vestito di gloria che nel loro amore
avevano fatto per me, e il manto di porpora che era stato tessuto in
modo che si adattasse perfettamente alla mia persona, e fecero un patto
con me e lo scrissero nel mio cuore perché non lo potessi scordare:
‘Quando andrai in Egitto e ne riporterai l’Unica Perla che giace in
mezzo al mare, accerchiata dal serpente sibilante, indosserai di nuovo
il tuo vestito di gloria e il manto sopra di esso, e con tuo fratello,
prossimo a noi in dignità, sii erede nel nostro regno’. Lasciai
l’Oriente e m’avviai alla discesa, accompagnato da due messi reali,
poiché il cammino era pericoloso e difficile ed io ero troppo giovane
per un tale viaggio; oltrepassai i confini di Maishan, punto d’incontro
dei mercanti dell'Oriente, giunsi nella terra di Babel ed entrai nelle
mura di Sarburg. Scesi in Egitto e i miei compagni mi lasciarono. Mi
diressi deciso al serpente e mi stabilii vicino alla sua dimora in
attesa che si riposasse e dormisse per potergli prendere la Perla.
Poiché ero solo e me ne stavo in disparte, ero forestiero per gli
abitanti dell’albergo. […]. Tuttavia mi vestii con i loro abiti, perché
non sospettassero di me, che ero venuto da fuori per prendere la Perla, e
non risvegliassero il serpente contro di me. Ma in qualche modo si
accorsero che non ero uno di loro e cercarono di rendersi graditi a me;
mi mescerono nella loro astuzia [una bevanda], e mi dettero da mangiare
della loro carne; e io dimenticai che ero figlio di re e servii il loro
re. Io dimenticai la Perla per la quale i miei genitori mi avevano
mandato. Per la pesantezza del loro cibo caddi in un sonno profondo.”
(traduzione di Hans Jonas basata specialmente sul testo siriaco).</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
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</div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Knight_of_Cups_ab.6.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Knight_of_Cups_ab.6.jpg" width="250" /></a>Nei
primi minuti del film assistiamo inoltre a un’autentica illustrazione
dell’Inno: dopo i titoli di testa, accompagnati dalla declamazione del
titolo esteso e dell’incipit dell’opera di John Bunyan, vediamo l’arrivo
sulla terra del protagonista Rick (Christian Bale). In termini
allegorici, si tratta della sua discesa verso l’Egitto, regione che
nella letteratura gnostica rappresenta a tutti gli effetti il mondo
materiale. Hans Jonas, nel suo studio intitolato <i>Lo gnosticismo</i>
(SEI, Torino 1991), commenta così il motivo simbolico dell’Egitto
presente nel testo gnostico: “L’Egitto come simbolo del mondo materiale è
molto comune nello gnosticismo (e fuori di esso). La storia biblica
della schiavitù e della liberazione d’Israele si prestava magnificamente
a quel tipo d’interpretazione spirituale che piaceva agli Gnostici. Ma
la storia biblica non è l’unico riferimento che vedeva l’Egitto nella
sua funzione allegorica. Fin dai tempi antichi l’Egitto era stato
considerato come la sede del culto dei morti e perciò il regno della
Morte; questo ed altri aspetti della religione egiziana, quali i suoi
dèi con la testa di bestia e la grande parte che vi aveva la magia,
ispirarono agli Ebrei e più tardi ai Persiani un particolare orrore e li
portarono a considerare l’«Egitto» come la personificazione di un
principio demoniaco. Gli Gnostici allora si valsero di questa concezione
per fare dell’Egitto un simbolo di «questo mondo», cioè il mondo della
materia, dell’ignoranza e di una religione perversa: «Tutti gli
ignoranti [ossia coloro che sono privi di gnosi] sono ‘Egiziani’»,
afferma un detto peratico citato da Ippolito.” (p.119).</div>
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<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Knight_of_Cups_ab.7.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Knight_of_Cups_ab.7.jpg" width="250" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
In
queste prime inquadrature siamo ancora in una fase transitoria: le
vedute della terra osservata da altezze celesti, seguite da immagini di
un’infanzia all’insegna della levità e della luminosità, introducono
alla voce narrante del padre che recita, parafrasandolo, il testo
dell’Inno: “Ricordi la storia che ti raccontavo quand’eri piccolo?
Quella di un giovane principe, un cavaliere, che fu mandato da suo
padre, Re dell’Oriente, a occidente, in Egitto per trovare una perla.
Una perla proveniente dagli abissi del mare”. È esattamente in questo
momento, in concomitanza col riferimento alle profondità del mare, che
la camera si immerge letteralmente nelle onde marine con l’obiettivo
puntato verso la superficie illuminata dal sole, l’inquadratura
successiva mostrando Rick immerso nell’acqua sullo sfondo e in primo
piano le due ragazze giapponesi con le quali si sta dirigendo in
macchina a una festa sulla terrazza di un grattacielo. Lungi dall’essere
un espediente bizzarro ed estetizzante, l’immersione nell’acqua
possiede una funzione ben definita, quella di raffigurare l’ingresso
definitivo nel mondo della materia e della corruzione (nel corso del
film vedremo altre figure precipitare letteralmente nell’universo
narrativo con un tuffo nell’acqua). Questo un eloquente frammento del
commento di Hans Jonas al passaggio del Canto della Perla dedicato alle
acque : “Il “mare” o le “acque” sono un simbolo gnostico fisso per il
mondo della materia o delle tenebre nel quale è immerso il divino. […] I
Perati interpretavano il Mar Rosso, che doveva essere attraversato
andando o tornando dall’Egitto, come «l’acqua della corruzione» e lo
identificavano con Kronos, cioè il «tempo» e il «divenire».” (p.119).
L’immersione nell’acqua indica dunque, in questo frangente come in altri
momenti del film, l’immersione nel mondo materiale e il passaggio
attraverso stati mentali progressivi che scandiscono l’itinerario
spirituale di trasformazione dell’interiorità.</div>
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<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Knight_of_Cups_ab.8.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Knight_of_Cups_ab.8.jpg" width="250" /></a>L’illustrazione
del Canto della Perla prosegue per l’intera durata della festa: alle
parole “Ma quando il principe arrivò, gli offrirono una coppa che gli
fece dimenticare tutto” vediamo Rick abbracciato dalle due ragazze
giapponesi che gli fanno bere un bicchiere dopo l’altro. Immagini di
stordimento e abbandono alcolico di Rick scandiscono il seguito del
racconto: “Dimenticò di essere il figlio del re. Si dimenticò della
perla. E cadde in un sonno profondo”. “Il re, però, non aveva
dimenticato suo figlio. Continuò a mandare lettere, messaggeri, guide”,
prosegue la voce narrante, mentre la festa volge al termine e Rick si
aggira solitario negli spazi del grattacielo. Il racconto paterno si
chiude su queste parole: “Ma il principe continuava a dormire”,
preparando la sequenza successiva nella quale un terremoto, anticipato
dal frullare delle ali di un uccello, sveglia Rick costringendolo a
uscire di casa (la stessa abitazione che vedremo deserta nel finale) e
scendere per strada, procurandogli per la prima volta quella sensazione
di spaesamento che lo accompagnerà per gran parte del film. Non è
soltanto la terra a tremare, ma anche e soprattutto la sua coscienza:
l’evento sismico produce un primo cambiamento in Rick, causandogli
smarrimento e facendogli perdere interesse nelle cose del mondo. È
l’inizio di un processo che, tappa dopo tappa, lo condurrà alla
liberazione completa dai vincoli materiali nel capitolo finale
emblematicamente intitolato <i>Libertà</i>. A proposito del risveglio,
Jonas osserva: “Pertanto, il primo effetto della chiamata è sempre
descritto come «risveglio» (…). Spesso l’esortazione semplicemente
formale: «Svegliati dal sonno» (o «dall’ebbrezza», o meno frequentemente
«dalla morte»), con elaborazione metaforica e con frasario differente,
costituisce il solo contenuto del richiamo gnostico alla salvezza.
Tuttavia questo imperativo formale racchiude implicitamente tutto lo
schema speculativo nel’'ambito del quale le idee di sonno, ebbrezza,
risveglio, assumono il loro significato specifico; e di regola la
chiamata rende esplicito tale schema come parte del suo contenuto, cioè
collega il comando del risveglio con i seguenti elementi dottrinali: il
“ricordo” dell’origine celeste e della storia trascendente dell’uomo; la
“promessa” della redenzione, in cui è compresa anche la ragione della
missione del redentore e della sua discesa nel mondo; e infine
l’“istruzione” pratica sul come vivere d’ora in avanti nel mondo, in
conformità della «conoscenza» recentemente acquisita e in preparazione
dell’eventuale ascesa”. (pp.85-86).</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<h2 style="text-align: justify;">
Dualismo e salvezza</h2>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Knight_of_Cups_ab.9.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Knight_of_Cups_ab.9.jpg" width="250" /></a>Jonas
definisce lo gnosticismo “religione dualistica trascendente di
salvezza” (p.44): il dualismo risiede nella recisa e inconciliabile
opposizione tra tenebroso mondo materiale e luminoso principio divino,
tra il binomio carne-anima (quest’ultima non essendo altro che un
ulteriore rivestimento concepito dalle maligne potenze cosmiche) e
l’elemento spirituale o “pneuma” che risiede, come scintilla perduta,
nell’interiorità più recondita dell’individuo (alcune correnti gnostiche
dividevano l’umanità in tre categorie di rango discendente: pneumatici,
psichici e sarchici o carnali). Ancora Jonas: “Il Dio gnostico non è
semplicemente estramondano e sopramondano, ma nel suo significato ultimo
contromondano. L’unità sublime del cosmo e di Dio è spezzata, i due
vengono separati e si apre tra di essi un abisso che non sarà mai
completamente colmato: Dio e il mondo, Dio e la natura, spirito e
natura, fanno divorzio, estranei l’uno all’altro, persino contrari. Ma
se questi due sono estranei l’uno all’altro, allora anche l’uomo e il
mondo sono estranei l’uno all’altro, e questo in termini di sentimento è
molto probabilmente il fatto primario. C’è una fondamentale esperienza
di una frattura assoluta tra l’uomo e ciò in cui si trova situato, il
mondo. […] Codesta impostazione dualistica è alla base di tutto
l’atteggiamento gnostico e unifica le espressioni grandemente diverse,
più o meno sistematiche, che quell’atteggiamento assunse nel rituale e
nella fede gnostica” (p.234). Dio e mondo da una parte e uomo e mondo
dall’altra si trovano in questo modo nettamente e irriducibilmente
contrapposti: gli appetiti e le seduzioni dei sensi così come le leggi
morali e l’etica terrena altro non sono che stratagemmi escogitati dal
potere demiurgico e dagli arconti (i governanti al suo servizio,
guardiani della prigione cosmica) per tiranneggiare e tenere sotto
scacco gli uomini: “Come il mondo è ciò che aliena da Dio, così Dio è
ciò che aliena e libera dal mondo” (p.235), oppure “Il Dio gnostico, in
quanto distinto dal demiurgo, è il totalmente differente, l’altro, lo
sconosciuto. In lui l’assoluto che è al di là trasparisce attraverso gli
involucri cosmici che lo racchiudono” (p.253).</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Knight_of_Cups_ab.10.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Knight_of_Cups_ab.10.jpg" width="250" /></a>Se
il dualismo configura questa frattura insanabile, la prospettiva di
salvezza conduce a una presa di posizione altrettanto radicale nei
confronti del mondo terreno e delle sue leggi. La salvezza,
invariabilmente vincolata al riconoscimento dell’elemento pneumatico che
risiede nel soggetto e ne costituisce il vero sé, consiste proprio nel
conoscere con mezzi spirituali la propria origine divina e dirigere
tutte le energie a disposizione nel mantenimento di tale consapevolezza,
disinteressandosi sistematicamente di tutto ciò che ostacola questa
verità trascendente: “Per gli Gnostici, «guardare a Dio» significa (…)
saltare al di là delle realtà interposte, che per questa diretta
relazione non sono altro che legami ed ostacoli, o tentazioni che
distraggono, o, tutt’al più, realtà irrilevanti. La somma di queste
realtà interposte è il mondo, compreso il mondo sociale. L’interesse
eminente per la salvezza, l’occuparsi esclusivamente del destino dell’io
trascendentale, «snatura», per così dire, tali realtà e distacca il
cuore da esse quando è inevitabile occuparsene” (p.250). Ebbene, gli
otto capitoli di <strong>Knight of Cups</strong> non fanno altro che
raccontare questo distacco dal mondo sociale e questo superamento delle
realtà interposte tra il principio divino e l’elemento pneumatico di
Rick, in un processo associato agli arcani maggiori - non privo di
ostacoli - che muove dalla <i>Luna</i> alla <i>Libertà</i> (unico capitolo il cui titolo non corrisponde a una carta dei tarocchi), passando per <i>L’Appeso</i>, <i>L’Eremita</i>, il <i>Giudizio</i>, <i>La Torre</i>, <i>La Papessa</i> e la <i>Morte</i>. Ogni capitolo coincide piuttosto chiaramente con un incontro e un commiato. <i>La Luna</i>:
incontro con Della (Imogen Poots), che rimprovera Rick di non volere
l’amore ma solo un’esperienza d’amore, e separazione improvvisa; <i>L’Appeso</i>:
incontro col fratello Barry (Wes Bentley) e il padre Joseph (Brian
Dennehy), entrambi accecati da rabbia e sensi di colpa, e graduale
distacco (torneranno brevemente, sempre più collerici e inquieti, tanto
nel quinto capitolo <i>La Torre</i> quanto nel settimo <i>Morte</i>); <i>Giudizio</i>:
incontro con l’ex moglie Nancy (Cate Blanchett), che gli rinfaccia di
essere stato sempre più assorbito dal mondo, nuova separazione e così
via.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<h2 style="text-align: justify;">
Visioni di unità e frammentazione dell’io, lo straniero e il salvatore salvato</h2>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Knight_of_Cups_ab.11.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Knight_of_Cups_ab.11.jpg" width="250" /></a>Il
crescente disinteresse di Rick nei confronti dell'attività
professionale (quella di sceneggiatore hollywoodiano a un punto di
svolta) si manifesta con evidenza nel capitolo <i>La Luna</i> e si definisce ulteriormente in quello intitolato <i>La Torre</i>. È in questo capitolo, il quinto, che, mentre Rick vaga in macchina per le strade di Los Angeles, ascoltiamo <a href="https://www.youtube.com/watch?v=yX84iQ_tTU8" target="“_blank”"><i>Hyperborea</i></a>: un brano tratto dall’album <i>Substrata</i> (1997) del musicista norvegese Biosphere (Geir Jenssen). Il brano ambient riporta quasi integralmente il racconto della <a href="https://www.youtube.com/watch?v=kjeCNnbVYAQ" target="“_blank”">visione del maggiore Garland Briggs</a> (Don S. Davis) al figlio Bobby (Dana Ashbrook) nel primo episodio (<i>Che il gigante sia con te</i>) della seconda stagione di <strong>Twin Peaks</strong>:
"Parlo di una visione radiosa, chiara come un torrente di montagna,
dove l’anima può rivelare tutti i suoi segreti [“the mind revealing
itself to itself” nell’originale]. Nella mia visione mi trovavo sulla
veranda di una grande costruzione, un palazzo lussuoso di proporzioni
gigantesche, al suo interno sembrava di vedere una luce proveniente dai
riflessi del candido marmo. Conoscevo questo posto, era la casa dove
sono nato e cresciuto. Da tanto tempo non vi ritornavo, è stato come
ritrovare il senso profondo della mia stessa esistenza. Mi aggiravo per
le camere e notavo che tutto era rimasto come ai tempi della mia
giovinezza. A dire il vero c’erano più stanze di quante ne ricordassi,
ma disposte in modo da integrarsi perfettamente con la costruzione
originale, io stesso non riuscivo a cogliere la differenza. Mentre mi
dirigevo verso l’ingresso della casa, ho udito bussare alla porta, c’era
mio figlio dietro quella porta. Era spensierato, era felice come lo è
chi ha una vita da vivere in profonda armonia, con gioia. Ci siamo
abbracciati, un abbraccio caldo e affettuoso, ci eravamo ritrovati.
Eravamo una sola persona in quel momento, una sola. La visione era
finita e io mi sono svegliato con una straordinaria sensazione di
ottimismo e di totale fiducia in te e nel tuo futuro. Così ti vedo io,
figliolo. Sono tanto felice di aver avuto l’opportunità di parlarti di
questo. Io desidero solo di poterti aiutare in tutte le cose.”. Nel film
di Malick, il brano si interrompe dopo il riferimento alla luce che
sembra emanare dall’interno del marmo radioso e splendente, tuttavia il
frammento riportato è più che sufficiente non soltanto a stabilire una
connessione tra le due sequenze, ma soprattutto a suggerire l’affinità
di contenuto tra il racconto del maggiore Briggs e il componimento
gnostico che innerva <strong>Knight of Cups</strong>: entrambi parlano
di luminosi ritorni e riconciliazioni unificanti. Riconoscimento,
rispecchiamento e gioia nell’unità ritrovata tra padre e figlio. Questa
la parte finale dell’Inno (corsivo mio): “Trovai la lettera che mi aveva
ridestato davanti a me sul mio cammino; e come mi aveva svegliato con
la sua voce, ora mi guidava con la sua luce che brillava dinanzi a me; e
con la voce incoraggiava il mio timore e col suo amore mi traeva. E
andai avanti... I miei genitori... mandarono incontro a me a mezzo dei
loro tesorieri, a cui erano stati affidati, il vestito di gloria che
avevo tolto e il manto che doveva coprirlo. Avevo dimenticato il suo
splendore, avendolo lasciato da bambino in casa di mio Padre. Mentre ora
osservavo il vestito, <i>mi sembrò che diventasse improvvisamente uno
specchio-immagine di me stesso: mi vidi tutto intero in esso ed esso
tutto vidi in me, cosicché eravamo due separati, eppure ancora uno per
l'uguaglianza della forma…</i> […]. E con i suoi movimenti regali si
offerse tutto a me e dalle mani di quelli che lo portavano si affrettò
perché potessi prenderlo; e anch’io ero mosso dall'amore a correre verso
di esso per riceverlo. E mi protesi verso di lui, lo presi, e mi
avvolsi nella bellezza dei suoi colori. E gettai il manto regale intorno
a tutta la mia persona. <i>Così rivestito, salii alla porta della
salvezza e dell’adorazione. Inchinai la testa e adorai lo splendore di
mio Padre che me lo aveva mandato, i cui comandi avevo adempiuto perché
anch'egli aveva mantenuto ciò che aveva promesso... Mi accolse
gioiosamente ed ero con lui nel suo regno, e tutti i suoi servitori lo
lodarono con voce di organo, cantando che egli aveva promesso che avrei
raggiunto la corte del Re dei Re e avendo portato la mia Perla sarei
apparso insieme a lui</i>»." (p.117).</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Knight_of_Cups_ab.12.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Knight_of_Cups_ab.12.jpg" width="250" /></a>Quella
di Rick, insomma, è la tipica figura gnostica del "salvatore salvato":
il nobile uomo straniero (il principe proveniente dal regno orientale)
inviato in Egitto (il mondo terreno) per trovare la perla che giace
nelle profondità marine (la scintilla divina imprigionata nella realtà
materiale), ma che durante la sua missione, a causa delle narcotizzanti
seduzioni del mondo delle tenebre, cade nel sonno e dimentica il compito
assegnatogli. Occorre dunque un intervento dall’alto (una voce che
parli alla sua interiorità, segni che lo spronino al ricordo della
ricerca e figure che lo guidino al ritorno nella dimora celeste),
affinché si svegli e ricordi la sua missione: "C’è un inconfondibile
accenno ad una doppia funzione, attiva e passiva, dell’unica e medesima
entità. In ultima analisi, lo Straniero che discende redime se stesso,
cioè quella parte di sé (...) persa un tempo nel mondo e per lei egli
stesso diviene straniero nella terra delle tenebre ed è infine un
«salvatore salvato»." (p.84). Non è senza motivo che la voce narrante,
una voce interiore/interiorizzata e perciò distinta dall’inquieta figura
del padre Joseph che vediamo aggirarsi nel film, gli attribuisca
esplicitamente lo statuto di straniero: "Tu vivi in esilio. Straniero in
un paese straniero. Un pellegrino. Un cavaliere", gli sussurra
interiormente la voce flautata esattamente a metà film. Ma la condizione
di estraneità era già stata formulata, nei primi minuti del film, in un
passaggio che sanciva l’identificazione sostanziale di padre e figlio:
"Figlio mio... sei esattamente come me. (…) Un pellegrino, su questa
Terra. Uno straniero. Frammenti... Pezzi... di un uomo". A proposito
della frammentazione che ha intaccato la pienezza originaria (il
Pleroma) e della conseguente necessità di ristabilire l’unità
primordiale nella prospettiva della salvezza, Jonas osserva: "Di
conseguenza la salvezza implica un processo di raccolta, di collezione
di ciò che era andato disperso, e la salvezza mira al ristabilimento
dell’unità primitiva. «Io sono tu e tu sei io, e dove tu sei io sono, e
in tutte le cose sono disperso. E da ovunque tu vuoi, tu mi raccogli; ma
raccogliendomi, tu raccogli te stesso». Questa raccolta di sé viene
considerata come procedente "pari passu" con il progresso della
«conoscenza», e il suo adempimento come una condizione per la definitiva
liberazione dal mondo: «Colui che raggiunge tale gnosi e raccoglie se
stesso dal cosmo... non è più trattenuto quaggiù, ma sale al di sopra
degli Arconti»; e proclamando questo stesso fatto l’anima che ascende
risponde alla sfida dei guardiani celesti: «Sono giunto a conoscere me
stesso ed ho raccolto me stesso da ogni parte»" (p.68).</div>
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<br /></div>
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<a href="http://www.spietati.it/public/Knight_of_Cups_ab.13.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Knight_of_Cups_ab.13.jpg" width="250" /></a>Se
l’idea della frammentazione rimanda alla necessità di una raccolta
inesausta delle particelle divine sparpagliate e imprigionate nel mondo
(una raccolta che coinvolge nel suo svolgimento tanto il destino del
singolo quanto quello dell’essere universale), lo statuto di “straniero
in un paese straniero” chiama in causa uno dei concetti chiave del
repertorio gnostico. Considerata la sua importanza nel sistema di
pensiero gnostico, mette conto riportare per esteso il passo nel quale
Jonas illustra il carattere fondamentale e praticamente inedito
dell’attributo riferito tanto all’Essere supremo quanto all’Uomo (il
“redentore redento”): “Il concetto di Vita straniera è una delle
parole-simbolo maggiormente espressive che si incontrano nel linguaggio
gnostico, ed è nuova nella storia del linguaggio umano in generale. Ha
equivalenti in tutta la letteratura gnostica, per esempio nel concetto
di Marcione del «Dio straniero» o soltanto dello «Straniero», «l’Altro»,
«lo Sconosciuto», «l’Innominabile», «il Nascosto»; o il «Padre
sconosciuto» di parecchi scritti gnostico-cristiani. […]. Ma anche al di
fuori di questi usi teologici in cui è uno dei predicati di Dio o
dell’Essere supremo, la parola «straniero» (e i suoi equivalenti) ha il
suo proprio significato simbolico come espressione di una elementare
esperienza umana, e questo è il fondamento dei differenti significati
della parola in parecchi contesti teoretici. […]. Straniero è ciò che
proviene da altro luogo e non appartiene a questo qui. A coloro che sono
di qui appare strano, non familiare e incomprensibile; ma il loro mondo
dal canto suo è altrettanto incomprensibile allo straniero che viene ad
abitarvi e simile ad una terra straniera dove si trova lontano da casa.
Soffre perciò il destino dello straniero che è solitario, senza
protezione, incompreso e incapace a comprendere, in una situazione piena
di pericoli. Angoscia e nostalgia della patria sono parte del destino
dello straniero. Egli che non conosce le strade del nuovo paese girovaga
sperduto; se impara a conoscerle troppo bene, dimentica di essere uno
straniero e si perde in un senso diverso, soccombendo all’attrattiva del
mondo straniero e diventando estraneo alla sua propria origine. Diviene
così un «figlio della casa», ed anche ciò fa parte del fato del
forestiero. Nell’alienazione da se stesso l’angoscia è sparita, ma
questo stesso fatto è il culmine della tragedia dello straniero. La
reminiscenza della sua origine, il riconoscimento del suo posto di
esilio per quello che è, è il primo passo indietro; il risveglio del
desiderio della patria è l’inizio del ritorno. Tutto ciò appartiene al
lato di «sofferenza» dell’estraneità; tuttavia in relazione alla sua
origine è allo stesso tempo un segno di eccellenza, una fonte di potere e
di vita segreta, sconosciuta all’ambiente circostante, e in ultima
analisi impermeabile per esso, perché è incomprensibile alle creature di
questo mondo. In questa superiorità dello straniero, che lo distingue
anche quaggiù, sebbene segretamente, sta la sua gloria manifesta nel
regno nativo, che è al di fuori di questo mondo. In tale situazione lo
straniero è il remoto, l’inaccessibile, e la sua singolarità significa
maestà. Perciò lo straniero preso assolutamente è il totalmente
trascendente, l’«al di là», e un attributo eminente di Dio. Entrambi gli
aspetti dell’idea dello «straniero», il positivo e il negativo,
l’estraneità come superiorità e sofferenza, come prerogativa di distanza
e fato di essere coinvolto nel mondo, si alternano come le
caratteristiche di un unico e medesimo soggetto: la «Vita». […] Nella
sua suddivisa esistenza in questo mondo essa partecipa in modo tragico
all’interpenetrazione di entrambi gli aspetti; e l’attualizzazione di
tutte le caratteristiche delineate sopra, in una drammatica successione
che è governata dal tema della salvezza, compone la storia metafisica
della luce esiliata dalla Luce, della vita esiliata dalla Vita e
coinvolta nel mondo: la storia della sua alienazione e del suo
ritrovamento, la sua «via» giù e attraverso il basso mondo e su di
nuovo. Secondo i vari stadi di questa storia, il termine «straniero» o i
suoi equivalenti possono entrare in molteplici combinazioni: «la mia
anima straniera», «il mio cuore oppresso dal mondo», «la vigna
solitaria», si applicano alla condizione umana, mentre «l’uomo
straniero» e «l’estraneo» si applicano al messaggero del mondo della
Luce (…).” (pp.60-61).</div>
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<a href="http://www.spietati.it/public/Knight_of_Cups_ab.14.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Knight_of_Cups_ab.14.jpg" width="250" /></a>Rick,
dunque, si configura chiaramente ed esplicitamente come un personaggio
allegorico che ripropone nella contemporaneità la figura tradizionale
dell’uomo straniero: quel “redentore redento” dell’Inno della perla che,
dimentico della sua missione e della sua natura a causa dell’attrattiva
del mondo (piacere carnale, affermazione professionale, concupiscenza e
ambizione), è divenuto un “figlio della casa” (non è fortuito che nel
capitolo finale <i>Libertà</i> l’appartamento in cui egli ha dimorato
nella sua esistenza terrena sia totalmente deserto). È proprio in virtù
del terremoto iniziale e delle continue esortazioni della voce paterna
(si ribadisce che si tratta di una voce interiore, quindi virtualmente
proveniente dal “Padre sconosciuto”) che Rick viene risvegliato e inizia
a provare quelle sensazioni di angoscia e nostalgia della patria che
“sono parte del destino dello straniero” (non sfugga inoltre questo
dettaglio apparentemente insignificante: la prima volta che Rick compare
sul set si stropiccia gli occhi come se si fosse appena svegliato e
vaga sperduto tra i teatri di posa). Ma se è il terremoto a scuotere
inizialmente la sua coscienza, è la voce interiore del padre a
costituire il vero e proprio filo conduttore del suo pellegrinaggio:
lungo tutto il film è questo <i>flatus vocis</i> a rammentare in
continuazione la ricerca e il suo oggetto. Queste alcune delle formule
impiegate: “La perla. Da qualche parte, nel mare”; “Ricorda. La perla.
Che sussurra. Che fa un cenno. Ogni uomo… ogni donna. Una guida. Un dio
”. E soprattutto, subito dopo il riferimento alla condizione di
“straniero in un paese straniero”, esattamente al centro del film,
l’accorata esortazione “Trova la tua strada dall’oscurità alla luce”
(“Find your way from darkness to light”). È questo il passaggio cruciale
di <strong>Knight of Cups</strong>, per inciso un’altra carta dei
tarocchi (il Cavaliere o Fante di Coppe): nientemeno che l’esortazione,
indirizzata allo spettatore per interposto personaggio, a trovare il
proprio percorso spirituale dall'oscurità alla luce.</div>
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<h2 style="text-align: justify;">
Trilogia gnostica, l’anima e il pneuma, la ricaduta nel sonno</h2>
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<a href="http://www.spietati.it/public/Knight_of_Cups_ab.15.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Knight_of_Cups_ab.15.jpg" width="250" /></a>In questo senso e al netto di future smentite, <strong>Knight of Cups</strong>, <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=3668" target="“_blank”"><strong>The Tree of Life</strong></a> e <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=4807" target="“_blank”"><strong>To the Wonder</strong></a>
comporrebbero una “trilogia gnostica” modulata su tonalità differenti,
il primo film ponendo maggiormente l’accento sulla cosmogonia, il
secondo sull’errore di amore (profano e sacro: la passionalità che
inganna e l'Amor Dei come coercizione), il terzo, infine,
sull’esemplarità del pellegrinaggio terreno (<i>Il viaggio del
pellegrino da questo mondo a quello venturo presentato in forma di
sogno, nel quale si scopre il modo in cui si mette in viaggio, le sue
pericolose avventure e, infine, l’arrivo alla destinazione desiderata</i>).
Secondo chi scrive, i tre film configurerebbero un macrotesto di genere
protrettico, vale a dire teso a proporre un itinerario di conversione
ed esortare il risveglio delle anime - anche se in questo caso sarebbe
più pertinente parlare di spirito o, ancora più correttamente, di
“pneuma”: “Il termine “pneuma” è usato in genere nello gnosticismo greco
come equivalente dell'espressione «sé» spirituale, per il quale il
greco, a differenza di alcune lingue orientali, manca di un termine
proprio. In tale funzione lo troviamo impiegato nella cosiddetta
Liturgia di Mitra con aggettivi quali «santo» e «immortale», in
contrasto a "psyche" o «potere umano psichico». L’alchimista Zosimo usa
«il nostro “pneuma” luminoso», «l’uomo interiore pneumatico», eccetera.
In alcuni gnostici cristiani è anche chiamato «scintilla» e «seme di
luce».” (p.125). È del resto il processo di affioramento degli elementi
gnostici a sorprendere e reclamare attenzione: se in <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=3668" target="“_blank”"><strong>The Tree of Life</strong></a> e in <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=4807" target="“_blank”"><strong>To the Wonder</strong></a> la trama gnostica, intrecciata a motivi autobiografici e sacri in senso lato, si poteva cogliere in filigrana, in <strong>Knight of Cups</strong>
viene praticamente abolita la distinzione tra significato essoterico
(esterno, letterale) e significato esoterico (interno, simbolico), il
percorso iniziatico del protagonista attestandosi esplicitamente quale
motore del racconto. Detto altrimenti, la parabola esemplare dell’Inno
della perla può benissimo rimpiazzare (lo ha fatto ufficialmente nella
prima sinossi del film) la vicenda dello sceneggiatore in crisi tra Los
Angeles e Las Vegas: anzi, senza la ricerca del vero sé rappresentato
dalla perla, <strong>Knight of Cups</strong> non avrebbe alcuna
traiettoria narrativa comprensibile. Il carattere fortemente protrettico
della trilogia, con un salto mortale che si avventura spericolatamente
nell’universo mentale dell’autore, potrebbe anche rendere conto
dell’improvvisa accelerazione creativa compiuta da Malick in questi
ultimi anni: tenuto conto che persino <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=534" target="“_blank”"><strong>The New World</strong></a>
sarebbe suscettibile di essere letto in chiave dualistica (la lotta
precosmica tra i due arciprincipi della Luce e delle Tenebre in
un’ottica vicina al tipo iranico di speculazione gnostica), la
consapevolezza del dato anagrafico (oggi Malick ha 72 anni) potrebbe
averlo spinto a oggettivare cinematograficamente la prospettiva
religiosa in questione. Certo, si tratta di un’ipotesi rozzamente
psicologistica e puramente congetturale, ma difficilmente evitabile sul
piano spicciolo e sulla base davvero sorprendente di una proliferazione
produttiva così straordinaria.</div>
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<br /></div>
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<a href="http://www.spietati.it/public/Knight_of_Cups_ab.16.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Knight_of_Cups_ab.16.jpg" width="250" /></a>Il <i>pólemos</i> eracliteo o il “panteismo senza Dio” di cui si è parlato per film come <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=2630" target="“_blank”"><strong>La sottile linea rossa</strong></a> e <strong>I giorni del cielo</strong>
(1978) - a proposito di quest’ultimo Bruno Fornara scrisse nel luglio
2004: “Lo si potrebbe definire un film panteista, se mai si potesse
pensare a un panteismo senza Dio” - non hanno più diritto di
cittadinanza in <strong>Knight of Cups</strong>: qui si dice di trattare
il mondo come merita, si afferma che nessuno è a casa, si dichiara che
il mondo è una palude e occorre volarci sopra, in alto, dove tutto è
solo un granello. Il conflitto, “padre e re di tutte le cose” (Fornara),
e la rigogliosa innocenza della natura (si rammenti l’ultima
inquadratura di <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=2630" target="“_blank”"><strong>The Thin Red Line</strong></a>,
col grosso seme che germoglia nell’acqua) hanno ceduto il passo a un
distacco dal mondo che rasenta il disprezzo esplicito e irrevocabile,
pur passando attraverso la concupiscenza inebriante e la seduzione
terrena. Anzi, gli otto pannelli che scandiscono il film, affinché
questa vicenda di distacco dalla terra sia davvero esemplare, devono
necessariamente passare attraverso l’attrattiva del mondo, le sue
lusinghe e i suoi inganni narcotizzanti. Perché se la scansione in
capitoli rimanda in prima istanza al significato dei tarocchi
(dall’invito a cercare il senso reale delle cose della <i>Luna</i> alla trasformazione e al rinnovamento simboleggiati dalla <i>Morte</i>),
in seconda battuta richiama le sfere cosmiche che, nella tradizione
gnostica, circondano la terra e rappresentano il governo arcontico:
“L’universo, il dominio degli Arconti, è come una vasta prigione la cui
cavità più interna è la terra, lo scenario della vita dell’uomo. Intorno
e al di sopra di esso le sfere cosmiche sono disposte in orbite
concentriche che lo racchiudono. Più spesso vi sono le sette sfere dei
pianeti circondati dall’ottava, quella delle stelle fisse” (pp.54-55). E
come le sfere cosmiche racchiudono l’uomo nel carcere terrestre, così
la carne e l’anima (il precipitato psichico delle potenze cosmiche)
imprigionano la scintilla divina che risiede dormiente in lui: “L’uomo,
l’oggetto principale di quest’ampia prospettiva, è composto di carne,
anima e spirito. Ma ridotto ai princìpi ultimi, la sua origine è
duplice: mondana ed extramondana. Non soltanto il corpo, ma anche
l’«anima» è un prodotto delle potenze cosmiche che hanno formato il
corpo ad immagine dell’Uomo Primigenio divino (o Archetipo) e lo hanno
animato con le loro proprie forze psichiche: queste sono gli appetiti e
le passioni dell'uomo naturale, ciascuna delle quali deriva e
corrisponde ad una delle sfere cosmiche, e tutte insieme formano l’anima
astrale dell’uomo, la sua «psiche». […] Racchiuso nell’anima c’è lo
spirito, o «pneuma» (chiamato anche «scintilla»), una porzione della
divina sostanza dell’aldilà che è caduta nel mondo; e gli Arconti
crearono l’uomo con l’espresso proposito di trattenerlo prigioniero
quaggiù. Perciò, come nel macrocosmo l’uomo è racchiuso dalle sette
sfere, così nel microcosmo umano lo spirito è racchiuso dai sette
rivestimenti dell’anima, originati da esse. Nel suo stato irredento il
pneuma, così immerso nell’anima e nella carne, non ha coscienza di se
stesso, è intorpidito, addormentato, o intossicato dal veleno del mondo:
in breve, è «ignorante». Il suo risveglio e la sua liberazione vengono
effettuate mediante la «conoscenza».” (pp.55-56).</div>
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<br /></div>
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<a href="http://www.spietati.it/public/Knight_of_Cups_ab.17.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Knight_of_Cups_ab.17.jpg" width="250" /></a>La
stessa anima - o psiche - costituisce in definitiva il volto interiore
del potere cosmico e l’io dell’uomo si trova soggiogato alla tirannia di
potenze maligne che controllano e condizionano la sua volontà,
assoggettandola all’<i>heimarméne</i> (l’oppressivo destino cosmico):
“L’asservimento dell’anima ai poteri cosmici deriva dalla sua stessa
origine da questi poteri. È una loro emanazione; ed essere afflitto
dalla psiche, o abitare in essa, fa parte per lo spirito della
situazione cosmica. Il cosmo è per se stesso un sistema demoniaco: «non
c’è parte del cosmo vuota di demoni» (…); e se l’anima rappresenta il
cosmo nell’interiorità dell’uomo, ovvero per mezzo dell’anima «il mondo»
è nell’uomo, allora l’interiorità dell'uomo diventa la scena naturale
per l’attività demoniaca e il suo io è esposto al gioco di forze che non
può controllare” (pp.259-260). Il messaggio di salvezza della gnosi non
si rivolge dunque all’anima dell’uomo, ennesima invenzione diabolica
degli arconti, ma allo spirito o pneuma doppiamente imprigionato nella
carne e nella psiche: “È pertanto condizione naturale dell’uomo di
essere preda di forze estranee che tuttavia sono tanta parte di lui
stesso, ed occorre l’intervento miracoloso della gnosi dal di fuori per
dare la capacità al pneuma imprigionato di ritornare a ciò che gli è
proprio. «Coloro che sono illuminati nella parte spirituale da un raggio
della luce divina - e non sono che pochi - sono lasciati in pace dai
demoni... tutti gli altri sono trascinati e mantenuti nelle loro anime e
corpi dai demoni, amando e apprezzando le loro opere... Questo governo
terreno è esercitato dai demoni attraverso gli organi del corpo, e tale
governo è chiamato da Hermes ‘heimarméne’» (…). […] Perciò l’esistenza
nel mondo è essenzialmente uno stato di essere posseduto dal mondo, nel
senso letterale, ossia demonologico del termine” (p.261). Ecco il motivo
del dissidio e del tormento interiore, motivo che risponde alla
necessità di esprimere lo sgomento di fronte a forze che controllano la
psiche e spingono incessantemente la volontà ad assecondare appetiti e
passioni: “(…) lo sguardo atterrito degli Gnostici vedeva la vita intima
come un abisso dal quale sorgono potenze tenebrose per governare il
nostro essere, non controllato dalla nostra volontà, tale volontà
essendo strumento ed esecutrice di quelle potenze. Questa è la
condizione fondamentale dell’umana insufficienza. «Che cosa è Dio? bene
immutabile; che cosa è l’uomo? male immutabile» (…). Abbandonata al
turbine demoniaco delle proprie passioni, l’anima empia grida: «Brucio,
ardo... sono consumata, misera me, dai demoni che mi possiedono» (…)”
(pp.261-262).</div>
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<br /></div>
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<a href="http://www.spietati.it/public/Knight_of_Cups_ab.18.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Knight_of_Cups_ab.18.jpg" width="250" /></a>Questa
frastornante dualità tra universo materiale e dimensione spirituale si
presenta in tutta la sua intensità nel sesto capitolo di <strong>Knight of Cups</strong>, intitolato <i>La Papessa</i> (<i>The High Priestess</i>):
precedentemente vittima di un furto in casa propria e abbandonata la
stesura della sceneggiatura alla quale stava lavorando, in questo
capitolo Rick incontra Karen (Teresa Palmer), una spogliarellista che
lo seduce, ammaliandolo con formule fumose (“Siamo come le nuvole, no?”
“Andiamo e veniamo”. “Non esiste il concetto di eternità”) e
incoraggiandolo a provare ogni tipo di esperienza (“La tua mente è un
teatro. Devi provare tutto. Perché no?”). Incantato dalle fantasie di
Karen, Rick cade di nuovo nel sonno (“Allora mi riaddormento”),
chiedendole di cantare e sognare ancora per lui (“Canta per me. E sogna
un altro sogno”). La nuova fantasia di Karen li porta a Las Vegas, dove
incontrano un uomo, molto probabilmente un <i>pimp</i> con le sue
prostitute, che illustra esattamente la condizione attuale di Rick. Alla
domanda “Sei religioso? Hai una croce al collo”, l’uomo replica:
“Certo, assolutamente sì. Oh, anche se sono nell’oscurità, credo nella
luce. Mi sono state date istruzioni di non essere parte del mondo né
delle cose che lo formano. Ma i miei occhi ora sono semplici e divento
carnale quando vedo belle donne, macchine grandi, molti soldi, e voglio
essere parte di tutto questo” (torna in mente la tripartizione già
menzionata tra uomini pneumatici, psichici e carnali). È qui, a Las
Vegas, che Rick sperimenta ancora una volta le illusorie tentazioni del
mondo: “E il mondo tirò su uno specchio. Qui. Prendi le cose che vuoi.
Possono essere tue”. In questo specchio, Rick vede riflesso il
condensato fittizio e frastornante delle meraviglie del mondo, fino a
stordirsi del tutto durante una serata in discoteca a base di
stupefacenti, nani e ballerine. Ma, anche in questo vortice allucinato,
la voce interiore del padre lo sprona a continuare la ricerca e trovare
la perla (“Vai. Trovala”), ridestandone la coscienza e facendolo uscire
dallo stato di alterazione in cui si trova.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<h2 style="text-align: justify;">
Ascetismo e libertinismo, avvicinamento alla perla</h2>
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</div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Knight_of_Cups_ab.19.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Knight_of_Cups_ab.19.jpg" width="250" /></a>Nel penultimo capitolo del film, <i>Morte</i>,
Rick incontra Elizabeth (Natalie Portman), una donna sposata con la
quale ha una relazione, e insieme a lei si reca nella sontuosa dimora di
Christopher (Peter Matthiessen, lo scrittore, naturalista e monaco Zen
scomparso nel 2014). Il passaggio di forte sapore buddhista offre
l’occasione di evidenziare una curiosa coincidenza tra l’ascetismo
monastico e il ciclo di rinascite in questa religione e alcune
concezioni gnostiche (l’etica manichea nella fattispecie), che prevedono
tanto il rigoroso ascetismo per gli “Eletti” quanto un destino di
reincarnazione per la gran massa dei credenti. Jonas ipotizza
addirittura l’influenza della tradizione buddista nella definizione di
queste concezioni: “Tuttavia il rigorismo così completo dell’etica
manichea è riservato ad un gruppo speciale, gli «Eletti» o «Veri», che
devono aver condotto una vita monastica di straordinario ascetismo,
forse plasmata sul monasticismo buddista e che certamente ebbe una
grande influenza sulla formazione del monacheismo cristiano. La gran
massa dei credenti, chiamati «Auditori» o «Soldati», viveva nel mondo
sotto regole meno rigide e tra le azioni meritorie c’era il mantenimento
degli Eletti, che rendeva possibile la loro vita di santificazione. Vi
erano dunque tre categorie di persone: gli Eletti, i Soldati e i
peccatori, un evidente parallelo della triade dello gnosticismo
cristiano formata di pneumatici, psichici e sarkici («uomini carnali»).
Di conseguenza ci sono tre «vie» per le anime dopo la morte: gli Eletti
vanno al «Paradiso della Luce»; i Soldati, i «guardiani della religione e
sostenitori degli Eletti», devono ritornare «nel mondo e nei suoi
terrori» così spesso e così a lungo «fintantoché la loro Luce e il loro
spirito siano stati liberati e dopo molto vagabondare raggiungono
l’adunanza degli Eletti»; i peccatori cadono in potere del Demonio e
finiscono nell'Inferno.” (p.216). Più avanti, trattando
dell’atteggiamento opposto, ovvero del libertinismo gnostico (anch’esso
contemplato non soltanto come comportamento lecito, ma talvolta
addirittura obbligatorio per trasgredire e danneggiare il disegno
arcontico), Jonas arriva persino a ipotizzare un vero e proprio
adattamento gnostico della legge del karma: “D’altra parte, la
combinazione in Carpocrate di questa dottrina [il libertinismo gnostico]
col tema della trasmigrazione rappresenta un curioso adattamento
dell’insegnamento pitagorico e forse anche della dottrina del “karma”
indiano, dove la liberazione dalla «ruota delle nascite» è l’interesse
dominante, sebbene in uno spirito molto diverso” (p.255).</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Knight_of_Cups_ab.20.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Knight_of_Cups_ab.20.jpg" width="250" /></a>Tuttavia,
al di là del sincretismo non soltanto compatibile col pensiero gnostico
ma essenzialmente caratteristico della sua espressione, il settimo
capitolo di <strong>Knight of Cups</strong> suggerisce l’avvicinamento
alla perla (“il nucleo spirituale indefinibile dell’esistenza”, p.306).
Durante una giocosa sequenza in riva al mare e sul molo insieme a
Elizabeth, la voce interiore di Rick pronuncia queste parole: “Quindi
siamo questo. Un fuoco”. Pur non accompagnato da formule
cinematografiche trionfali e consumatosi quasi in sordina, questo
avvicinamento prepara di fatto la definitiva liberazione dal mondo che,
dopo l’immancabile separazione da Elizabeth, culminerà nel capitolo
conclusivo, emblematicamente intitolato <i>Libertà</i> (si tratta
dell’unico capitolo, mette conto ripeterlo, che non mutua il titolo
dagli arcani maggiori). Pur non essendo, quello rappresentato dal film,
un evento assimilabile all’esperienza superlativa dell’illuminazione
estatica, non è ozioso riportare l’ennesimo brano tratto dallo studio di
Hans Jonas che chiarisce il tipo assolutamente peculiare di conoscenza
veicolata dalla gnosi: “La mistica “gnosis theoû” - visione diretta
della divina realtà - è già un pegno della consumazione futura. È la
trascendenza divenuta immanente; e sebbene sia preparata dagli atti
umani di trasformazione dell’io che attuano la giusta disposizione, il
fatto stesso è da attribuirsi all’attività divina e alla grazia. Perciò è
altrettanto un «essere conosciuti» da dio quanto un «conoscerlo», e in
questa reciprocità finale la gnosi va molto oltre la «conoscenza»
propriamente detta. Come visione di un oggetto supremo può essere detta
teoretica - di qui «conoscenza» o «cognizione»; come assorbimento,
trasfigurazione, la presenza dell’oggetto può essere considerata pratica
- di qui «apoteosi» o «rinascita»: ma né la qualità mediatrice della
conoscenza.... né quella strumentale della prassi... valgono quando
l’essere del conoscente è assorbito in quello dell’oggetto - il quale
«oggetto» significa la cancellazione di tutto il regno degli oggetti”
(p.263). Di nuovo solo e spaesato, in una situazione simile a quella del
prologo, Rick riprende il cammino mentre, in un montaggio che mescola
liberamente tempi e spazi diversi, raccoglie i frammenti della sua
esistenza, saluta per l’ultima volta, confortandoli, il padre e il
fratello e getta un ultimo sguardo al mondo che si appresta ad
abbandonare.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<h2 style="text-align: justify;">
Sophia, orientamento, libertà</h2>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Knight_of_Cups_ab.21.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Knight_of_Cups_ab.21.jpg" width="250" /></a>Fortemente
segnato dalla presenza di un’enigmatica ed eterea figura femminile
(Isabel Lucas), l’ottavo capitolo vede infine Rick intraprendere il
viaggio di ritorno verso la dimora celeste: la casa del Padre
nell’Oriente. La voce narrante lo esorta a dirigere il cammino verso est
confidando nel suo ricordo infantile e nella segnaletica astrale:
“Trova la luce che conosci a est. Come un bambino. La luna. Le stelle.
Ti sono d’aiuto. Ti guidano nel tuo cammino”. Il riferimento alla luna
(ricordiamo che <i>Luna</i> è anche il titolo del primo capitolo del
film) reclama un ultimo ricorso allo studio di Jonas, che ricorda come,
nel simbolismo gnostico, essa sia semplicemente il nome di un’emanazione
divina: “Nella spiritualizzazione gnostica, «Luna» è semplicemente il
nome esoterico della figura: il suo vero nome è Epinoia, Ennoia, Sofia e
Spirito Santo” (p.111). Sebbene la figura di Sophia, ossia “Sapienza”,
sia causa di immani catastrofi nella mitologia gnostica (soprattutto
nella gnosi valentiniana, nella quale rappresenta l’aspetto defettibile
di Dio), qualcosa di sensibilmente divino permane in lei. Benché questa
figura sia talvolta degradata a tal punto da essere definita
“Sophia-Prunikos” (“Sapienza-Prostituta”) o semplicemente “Prunikos”
(“la pruriente”), nel film di Malick il personaggio lunare (Della), così
come le altre figure femminili che attraversano il film di capitolo in
capitolo, possiede un’evidente funzione di orientamento (diversamente
dalle figure maschili, per lo più fallaci e disperate). Bastino, a
titolo di esempio, queste frasi pronunciate rispettivamente dalla stessa
Della, da Nancy e da Helen (Freida Pinto): “Non stiamo vivendo le vite a
cui siamo destinati. Siamo destinati a qualcos’altro”; “Non potevo
aiutarti a stare sulla retta via. La tua testa era girata nella
direzione sbagliata”; “C’è qualche altro posto in cui dobbiamo arrivare.
Lo so”.</div>
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<br /></div>
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</div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Knight_of_Cups_ab.22.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Knight_of_Cups_ab.22.jpg" width="250" /></a>Ebbene, nel pannello conclusivo <i>Libertà</i>
questa funzione di orientamento (alla lettera volgersi verso l’oriente e
stabilire la giusta direzione) diviene preponderante, la figura
femminile interpretata da Isabel Lucas perdendo qualsiasi altra
proprietà narrativa (non sappiamo da dove provenga, non conosciamo la
natura della sua relazione con Rick, ignoriamo che cosa la spinga a
sollecitarlo). La vediamo soltanto stare al suo fianco e pronunciare
impercettibili formule attorno alla fiamma di una candela o al di sopra
di un fuoco che arde tra le rocce. Alcune immagini interpolate dell’ex
moglie Nancy suggeriscono un’associazione tra le due donne, ma questa
figura appena sbozzata rimane troppo enigmatica per poterle attribuire
qualcosa di diverso dal semplice ruolo di guida. Le uniche parole che
proferisce sono quattro imperativi: “Sveglia. Voltati. Guarda. Esci
fuori”. Tornano in mente le frasi pronunciate in precedenza proprio da
Nancy (“Il mondo ti ha assorbito sempre di più. Non potevo aiutarti a
stare sulla retta via. La tua testa era girata nella direzione
sbagliata”), di cui questo quartetto di imperativi sembra costituire un
sintetico e ineludibile contrappunto. Poi, leggiadra, si bagna
nell’acqua lucente e di notte, totalmente scevra di ogni connotazione
erotica o sensuale, s’immerge nuda nella piscina: figura eterea
quant’altre mai, è lei ad accompagnare Rick alle soglie del mondo dopo
l’ennesima esortazione della voce paterna (“Figlio mio, ricorda”).</div>
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<br /></div>
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<a href="http://www.spietati.it/public/Knight_of_Cups_ab.23.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Knight_of_Cups_ab.23.jpg" width="250" /></a>Rick
si trova di nuovo solo nel deserto, sostanzialmente nelle stessa
situazione del prologo, soltanto che stavolta il suo cammino segue la
direzione opposta: anziché scendere, continua a salire verso la sommità
della formazione rocciosa sulla quale si trova. Velato dalle nuvole, il
sole risplende maestoso in lontananza: la camera procede con un lento
movimento in avanti e l’inquadratura successiva, speculare
all’immersione iniziale, ci mostra l’uscita di Rick dalle acque torbide
del mare (come osservato in precedenza “simbolo gnostico fisso per il
mondo della materia o delle tenebre nel quale è immerso il divino”). Una
volta emerso, egli è virtualmente fuori da questo mondo: lo vediamo
un’ultima volta inquadrato fugacemente, la camera andando rapidamente a
seguire il volo di alcuni gabbiani e tornando su di lui dal basso verso
l’alto. La sua abitazione terrena è ormai vuota: non è più un «figlio
della casa» ed egli, ormai trasfigurato e ridotto a pura visione, può
finalmente iniziare l’ultima, ineffabile ascesa: “Inizia”.</div>
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<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<i>Ringrazio Elisa Schiavi, Jean Claude Ciamporcero, Leo Benedetti
Pagni e, infine, il professor Amleto Spicciani per le preziose occasioni
di confronto, i suggerimenti bibliografici e gli insegnamenti ricevuti.</i></div>
ABhttp://www.blogger.com/profile/05384764352572794697noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9104073176553617908.post-59412958876187596952016-02-05T02:20:00.000-08:002016-02-05T02:21:29.620-08:00REVENANT - REDIVIVO<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Revenant_Redivivo_1.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Revenant_Redivivo_1.jpg" width="200" /></a> </div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
“Durante una spedizione in un territorio incontaminato e sconosciuto, il
leggendario esploratore Hugh Glass (Leonardo DiCaprio) viene aggredito
da un orso, quindi abbandonato dagli altri compagni di caccia. Ma,
nonostante le feriti mortali e la solitudine, Glass riesce a non
soccombere. Grazie alla sua forte determinazione e all’amore che nutre
per sua moglie, una indiana d’America, percorrerà oltre 300 chilometri
in un viaggio simile a un’odissea, attraverso il grande e selvaggio
West, per scovare l’uomo che lo ha tradito, John Fitzgerald (Tom Hardy).
Il suo inseguimento implacabile diventa un’epopea che sfida il tempo e
le avversità, alimentata dal desiderio di tornare a casa e ottenere la
meritata giustizia” (dal pressbook). </div>
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<br /></div>
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<br /></div>
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<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Revenant_Redivivo_3.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Revenant_Redivivo_3.jpg" width="250" /></a>L’enorme scoglio contro il quale è destinato a scontrarsi qualsiasi spettatore di <b>Revenant - Redivivo</b>,
a prescindere dalla propensione più o meno spiccata ad assecondare la
famigerata sospensione dell’incredulità, è quello
dell’inverosimiglianza. La questione, pur cenciosa e indegna di figurare
in sede di recensione, risiede nella plateale invulnerabilità di Hugh
Glass (Leonardo DiCaprio): le sue doti di sopravvivenza,
automedicamento, infrangibilità e resistenza alle intemperie sono così
sovrumane e incredibili da sfondare irreparabilmente il muro della
credibilità. Per quanto si sia disposti a concedere a un robusto
quarantenne - quale quello interpretato da un DiCaprio non
particolarmente scheletrico - un patrimonio genetico straordinariamente
fortunato, le aggressioni e le disgrazie dalle quali Glass viene
bersagliato lungo tutto il film (lacerazioni di grizzly, contusioni da
sballottamento nelle rapide gelate, incolumità ad attentati plurimi,
cadute vertiginose da altezze incalcolabili e ferite da arma da taglio)
risultano francamente inammissibili per un solo corpo. Detto più
semplicemente, Glass più che un redivivo pare un immortale o, in
alternativa, un essere umano che muore e resuscita più volte: dopo
l’attacco del grizzly, dopo la frettolosa sepoltura di Fitzgerald (Tom
Hardy) e Bridger (Will Poulter), dopo la sauna terapeutica allestita dal
Pawnee che lo soccorre e, infine, dopo la permanenza nella carcassa
equina. Non è dunque fortuito che, nel prefinale, egli convinca il
recalcitrante Capitano Henry (Domhnall Gleeson) a portarlo con sé nella
caccia a Fitzgerald dicendogli: “Ormai non ho più paura di morire. L’ho
già fatto” (“I ain’t afraid to die anymore. I’ve done that already”).</div>
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<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Revenant_Redivivo_4.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Revenant_Redivivo_4.jpg" width="250" /></a>Ora,
sappiamo bene che il mito della verosimiglianza nasconde troppe insidie
e acceca troppi occhi, sicché occorre chiedersi se questa plateale
implausibilità non suggerisca altre chiavi di lettura (del resto se lo
scrupolo della verosimiglianza fosse stato davvero irrilevante, la
sequenza dell’aggressione del grizzly non sarebbe stata così
scrupolosamente particolareggiata e, per così dire, incredibilmente
credibile). Ebbene, dal momento che <b>Revenant - Redivivo</b>
si apre e chiude sul respiro profondo di Glass e il prologo visualizza
letteralmente un suo sogno in compagnia del figlio e della moglie,
l’ipotesi meno stravagante e campata in aria consisterebbe nel piazzare
l’intero film sotto l’ipoteca onirica. Eppure, per quanto suggestiva,
anche questa supposizione non sembra in grado di sorreggere l’intero
film, poiché l’onirismo di <b>Revenant - Redivivo</b> si
manifesta in maniera palesemente sporadica e disorganica, possedendo
esclusivamente la funzione di mostrare alcuni squarci dell’interiorità
di Glass (Iñárritu: “Durante il viaggio, quando Glass è solo e
fisicamente distrutto, l’unico modo per restare in contatto con la
propria umanità è attraverso sogni e visioni, che ci forniscono
informazioni sul suo stato mentale e sul suo passato”). In altri
termini, il tenore onirico del sesto lungometraggio cinematografico di
Alejandro González Iñárritu non determina l’impianto narrativo
complessivo, ma lo punteggia episodicamente in chiave introspettiva. A
questa componente, che cozza violentemente contro il registro
iperrealistico di gran parte del film, si aggiunge infine una vena
spirituale-animistica che mette in comunicazione le vicende di Glass e
Fitzgerald con eventi naturali ad alto coefficiente numinoso e
premonitorio quali cadute di meteore e gigantesche valanghe. Eventi che,
entrando in risonanza l’apparato visionario e onirico partorito da
Glass (la caduta della meteora si configura inizialmente come fenomeno
naturale apparso a Fitzgerald, salvo poi venire riassorbita nel
tumultuoso sogno di Glass) dialogano dall’alto con gli insegnamenti
impartiti dalla moglie (“Quando c’è una tormenta e sei in piedi di
fronte a un albero e guardi i suoi rami, giuri che cadrà, ma se guardi
il tronco, vedrai la sua stabilità”) e da Hikuc (Arthur RedCloud), il
misericordioso Pawnee che pronuncia la frase decisiva “La vendetta è
nelle mani del Creatore”.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Revenant_Redivivo_5.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Revenant_Redivivo_5.jpg" width="250" /></a>E,
secondo chi scrive, è proprio questa giustapposizione dei tre registri a
risultare stridente, condannando il film a carambolare tra clima
iperrealistico, paesaggi onirici ed epifanie animiste (l’uccellino che
esce dal petto della moglie, la spettrale montagna di teschi di bisonte,
l’abbraccio col figlio-albero nella rovine della chiesa). Anziché
compenetrarsi o conciliarsi tra loro, insomma, le tre modalità
espressive si avvicendano bruscamente, impedendo al film di trovare una
sua organicità narrativa. Inoltre, all’interno dello stesso registro
iperrealistico si percepisce un forte attrito tra l’impronta
poderosamente basica delle riprese quasi documentaristiche e i momenti
performativi, nei quali i vari interpreti recitano le loro parti in
ossequio alle norme didascaliche del canone hollywoodiano: si pensi al
primo battibecco tra Fitzgerald e Glass, al minaccioso confronto tra
Fitzgerald e Bridger una volta abbandonato Glass o al già menzionato
dialogo tra Glass e il Capitano Henry nella baracca del forte. In questi
frangenti dialogati persino lo stile cinematografico viene
progressivamente appianato e normalizzato, passando dalle riprese in
continuità della prima lite ai più convenzionali campi/controcampi del
colloquio col comandante della spedizione. In definitiva, sotto il
profilo narrativo e drammaturgico, <b>Revenant - Redivivo</b>
sconta una disomogeneità di fondo che a lungo andare ne sfibra la
tenuta: se i primi 40 minuti (fino alla decisione di lasciare Bridger,
Fitzgerald e, naturalmente, Hawk ad assistere l’agonizzante Glass)
possiedono una potenza di coinvolgimento pressoché priva d’incrinature,
l’affacciarsi sempre più palpabile dei registri divergenti sfilaccia
gradualmente la tenuta drammatica del film, allentandone la compattezza
e, conseguentemente, la presa sullo spettatore.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Revenant_Redivivo_6.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Revenant_Redivivo_6.jpg" width="250" /></a>Tre
vicoli ciechi o solo parzialmente percorribili (nessuno dei tre
provvede a fornire una chiave di lettura estensiva e ben necessitata del
film) che vengono ampiamente riscattati sotto il profilo squisitamente
visivo. Emmanuel Lubezki in testa, il comparto tecnico direttamente
proveniente dalla troupe di Terrence Malick (non soltanto la direzione
della fotografia di Lubezki, ma anche le scenografie di Jack Fisk e i
costumi di Jacqueline West) compensa abbondantemente le rapsodiche
divagazioni narrative, assicurando al film un’indiscutibile solidità sul
piano figurativo. Traendo il massimo partito dalle riprese in ordine
cronologico e dall’impiego pressoché esclusivo di luce naturale, la
costola malickiana non si limita tuttavia a rivestire la pellicola di
una corazza smagliante (campi lunghissimi di maestosa vastità, notturni
dalle vibrazioni luministiche cangianti, apparati scenografici
perfettamente integrati nell’ambiente), ma la dota a pieno titolo di una
sua singolarità visiva: di una sua visione, in una parola. Ecco perché
le accuse di eccessiva derivatività rivolte a <b>Revenant - Redivivo</b>
non hanno molto senso: benché i riferimenti più stringenti siano
facilmente intuibili (oltre a Terrence Malick, Andrej Tarkovskij e
Werner Herzog), il film possiede un arrangiamento visivo di una fluidità
cinetica (grazie all’uso combinato di gru, steadicam e camera a mano) e
di una torsione ottica (in virtù dei grandangoli) tali da renderlo a
tutti gli effetti un unicum capace di conquistare pienamente la propria
autonomia cinematografica. Liberamente ispirato al romanzo del 2002 <i>The Revenant: A Novel of Revenge</i> di Michael Punke (tr. it. <a href="http://www.einaudi.it/libri/libro/michael-punke/revenant/978880621722" target="“_blank”">Revenant. La storia vera di Hugh Glass e della sua vendetta</a>, Einaudi, 2014), libro a sua volta ispirato alle autentiche vicende del trapper Hugh Glass (1783-1833), <b>Revenant - Redivivo</b>,
dunque, è sì un film iperrealisticamente inverosimile con ipoteca
onirica a carico, ma solidamente provvisto di una sua autonomia estetica
e di una sua impetuosa crudezza (non solo l’aggressione del grizzly, ma
anche l’agguato iniziale degli Arikara e il corpo a corpo finale tra
Glass e Fitzgerald). Per una versione dell’avventura di Hugh Glass
sostanzialmente diversa e maggiormente incentrata sugli aspetti
tragico-patriarcali, si suggerisce la visione di <a href="http://www.imdb.com/title/tt0067388/" target="“_blank”"><b>Uomo bianco va’ col tuo dio</b></a> (<i>Man in the Wilderness</i>, 1971) di Richard C. Sarafian.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Pubblicata su <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=5722" target="_blank">www.spietati.it</a>. </div>
ABhttp://www.blogger.com/profile/05384764352572794697noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9104073176553617908.post-6108507073976773542016-01-05T02:04:00.002-08:002016-01-05T02:04:57.943-08:00LA ISLA MINIMA<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/La_isla_minima_ab_1.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/La_isla_minima_ab_1.jpg" width="200" /></a> “Profondo sud della Spagna, 1980. In un piccolo villaggio in cui il
tempo sembra essersi fermato – nei pressi di un labirinto di paludi e
risaie – si è installato un serial killer responsabile della scomparsa
di molte adolescenti delle quali nessuno sembra interessarsi. Ma quando
due giovani sorelle spariscono durante le festività annuali, la madre
spinge per un’indagine e due detective della omicidi arrivano da Madrid
per cercare di risolvere il mistero. Sia Juan che Pedro hanno una vasta
esperienza nei casi di omicidio, ma differiscono nei metodi e nello
stile. Dovranno ben presto fronteggiare ostacoli per i quali non sono
preparati. Uno sciopero dei lavoratori locali mette a rischio il
raccolto del riso e distrae i detective, messi sotto pressione affinché
il caso si risolva rapidamente. Con loro grande sorpresa, le indagini in
corso portano alla luce un’altra fonte di ricchezza per il villaggio:
il traffico di droga. Gli investigatori vengono intrappolati da una rete
di intrighi alimentata dall’apatia e dalla natura introversa della
gente del posto. Niente è ciò che sembra in questa isolata e opaca
regione e l’indagine incontra difficoltà inaspettate. Entrambi gli
uomini capiscono di dover mettere da parte le rispettive divergenze
professionali se vogliono fermare la persona responsabile della
scomparsa delle sorelle prima che altre ragazze facciano la stessa
fine.” (dal pressbook).</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/La_isla_minima_ab_3.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/La_isla_minima_ab_3.jpg" width="250" /></a>Alberto Rodríguez: “A conti fatti, <i>La isla mínima</i>
è un film che rivela un tocco classico, per quanto riguarda le indagini
e lo sviluppo dei personaggi, ma con uno sfondo che è torbido, fangoso,
denso e impenetrabile... come le vere paludi nelle quali è ambientato. <i>La isla mínima</i>
è la pellicola con cui mi sono avvicinato di più al fare cinema di
genere, ma allo stesso tempo possiede una sua identità che lo rende
differente, speciale”. Leggendo dichiarazioni simili, la tentazione di
collocare <strong>La isla minima</strong> nel macroscopico scaffale dei
prodotti-costruiti-a-tavolino è particolarmente forte, eppure il sesto
lungometraggio cinematografico del quarantaquattrenne cineasta
sivigliano non si lascia archiviare così pacificamente e
sbrigativamente. Nonostante la tronfia e convenzionale affermazione
testé riportata, <strong>La isla minima</strong> possiede alcuni tratti
che, pur non riscattandolo interamente dalla confezione derivativa, lo
rendono un film dotato di una sua singolarità. Se le risonanze con la
prima stagione di <a href="http://www.spietati.it/z_dettaglio_serie.asp?idSerieAnno=82%20&idSerie=71" target="“_blank”"><strong>True Detective</strong></a>
risultano francamente assordanti, l’ambientazione andalusa, negli
acquitrini intorno al piccolo centro abitato di Villafranco del
Guadalquivir, sprigiona un’atmosfera palustre e stagnante che ben si
attaglia all'andatura tortuosa e vischiosa delle indagini di Pedro (Raúl
Arévalo) e Juan (Javier Gutiérrez), due detective inviati in missione
nella sperduta regione per motivi antiteticamente punitivi (eccessivo
dissenso nei confronti della gerarchia militare per il primo, eccessivo
coinvolgimento col regime franchista per il secondo).</div>
<br />
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/La_isla_minima_ab_4.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/La_isla_minima_ab_4.jpg" width="250" /></a>Siamo
nel settembre del 1980 e i postumi dell’era franchista si fanno ancora
sentire, non soltanto per l’influenza più che palpabile della gerarchia
militare (Pedro è stato allontanato da Madrid, nonché da una promettente
carriera, a causa di una lettera inviata a un giornale in cui provocava
un generale), ma soprattutto per il clima di omertà e sudditanza nei
confronti di un sistema signorile che regna incontrastato nel territorio
del Basso Guadalquivir (l’intera regione è dominata dal signore del
luogo, che esercita un potere pressoché assoluto sui lavoratori e sulla
popolazione). In questa sacca di tradizionalismo e superstizione,
contraddistinta dal lavoro stagionale per il raccolto e dal contrabbando
di sigarette e stupefacenti, i due detective s’imbattono sì nelle
immancabili resistenze dei locali (reticenza, negligenza e connivenza),
ma trovano anche l’aiuto inaspettato di alcuni individui ai margini del
consorzio sociale (l’indisciplinato bracconiere Jesús e il giornalista
antimilitarista, memore dei metodi usati dalla Brigata Politico-Sociale
durante il regime). E così, in rigorosa focalizzazione interna (lo
spettatore conosce solo i particolari della vicenda scoperti
gradualmente dai due detective), il racconto poliziesco si snoda
progressivamente in virtù di una gestione misurata dei tempi narrativi e
di una controllata distribuzione delle informazioni strettamente
necessarie allo sviluppo dell’intrigo.</div>
<br />
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/La_isla_minima_ab_5.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/La_isla_minima_ab_5.jpg" width="250" /></a>L'improvvisa
e simultanea apparizione delle due piste che condurranno alla soluzione
del caso (una per ciascun detective, naturalmente) accresce la
sensazione di trovarsi di fronte a un ingranaggio tanto padroneggiato
quanto programmato, confermando l’impressione di uno schema compositivo
che sfrutta il genere per dimostrare l’abilità cinematografica di
Rodríguez e collaboratori (non sorprende affatto il banco regio di
riconoscimenti - ben dieci - ai <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Premi_Goya_2015" target="“_blank”">Premi Goya 2015</a>).
Ne è ulteriore riprova l’uso smaccatamente scolastico delle soggettive
lungo l’intero film: anziché immergerci nel morboso mistero
dell’universo esplorato (cosa che, giusto per citare un paio di titoli
sottostimati, riusciva assai bene <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=1813" target="“_blank”"><strong>In the Cut</strong></a> e <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=4356" target="“_blank”"><strong>Le paludi della morte</strong></a>),
servono soltanto a far procedere l’indagine secondo una logica
rigidamente funzionale e meccanicistica (lo spettatore ne deve sapere
quanto i detective, quindi scoprirà tutti gli indizi attraverso i loro
occhi). Inevitabile dunque che, in questa supremazia del cognitivo sul
visivo, i rari squarci allucinatori suonino come stridenti e artificiosi
inserti introspettivi: nessun timore, non si rischia di smarrire la
strada maestra del racconto d’inchiesta, il timone segue la rotta
prestabilita. Analogamente, le sparute astrazioni grafiche del
territorio andaluso (ottenute per lo più con inquadrature aeree a
piombo) non possiedono la forza sufficiente a spalancare un’altra
dimensione espressiva nel film (si pensa di nuovo e per contrasto alla
prima stagione di <a href="http://www.spietati.it/z_dettaglio_serie.asp?idSerieAnno=82%20&idSerie=71" target="“_blank”"><strong>True Detective</strong></a>,
in cui i campi lunghissimi trasfiguravano le paludi della Louisiana in
acquitrino mentale), ma si fermano allo stadio della belluria, del
calligrafismo ornamentale.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/La_isla_minima_ab_6.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/La_isla_minima_ab_6.jpg" width="250" /></a>L’aspetto
più interessante della pellicola risiede invece nel fatto che il grande
marionettista, colui che tiene i fili e manipola i personaggi, non solo
si riduce a una macchia illeggibile su una fotografia a causa del flash
che ne occulta il riflesso su uno specchio, ma è anche lo stesso autore
degli scatti: è l’artefice delle immagini attorno alle quali si snodano
le indagini e che, alla fine della vicenda, resterà impunito. Se la sua
identità si costruisce gradualmente per via indiziaria, la sua
responsabilità sfugge emblematicamente alla sanzione della giustizia. Di
più: è proprio producendo queste immagini che egli ricatta le vittime e
manovra i personaggi conniventi. Detto più chiaramente, la produzione
di immagini coincide col ricatto, la manipolazione e l’impunità: siamo
insomma in presenza di un demiurgo tirannico che sfrutta le immagini per
signoreggiare impunemente e dominare arbitrariamente un microcosmo
saturo di credenze e superstizioni (difficile concepire una figura più
sinistra e autoritaria di <i>auctor in fabula</i>). È questo, secondo chi scrive, il risvolto più fruttuosamente inquietante e perversamente incisivo di <strong>La isla minima</strong>: l’immagine del potere è un'immagine accecante, colpevolmente innocente.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Pubblicata su <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=5701" target="_blank">www.spietati.it</a>. </div>
ABhttp://www.blogger.com/profile/05384764352572794697noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9104073176553617908.post-6207976381645700252015-12-15T13:34:00.001-08:002015-12-15T13:34:40.738-08:00L'INFINITA FABBRICA DEL DUOMO<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/L%27infinita_Fabbrica_del%20Duomo_ab.1.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/L%27infinita_Fabbrica_del%20Duomo_ab.1.jpg" width="200" /></a>“La storia dell’edificio simbolo di Milano, a partire dalla notte in cui
Gian Galeazzo Visconti sognò il diavolo che gli intimava di costruire
un luogo maestoso. La sua risposta fu immediata: concedere l’uso delle
cave di Candoglia a una Veneranda Fabbrica per costruire una cattedrale
degna dei sogni di grandezza della casata. Dalla fine del ’300 ai primi
anni del ’900, quando l’ultima porta di bronzo venne posizionata, dalle
cave sono partiti in barca più di mezzo milione di blocchi di marmo. I
due cineasti ci conducono attraverso i secoli in quello che appare un
lavoro in continuo divenire. Primo atto della quadrilogia Spira
Mirabilis sul concetto di immortalità attraverso gli elementi della
natura, <i>L’infinita fabbrica del Duomo</i> rappresenta la Terra. I testi adattati da <i>Milano in mano</i> di Guido Lopez e Silvestro Severgnini e <i>Storia della Veneranda fabbrica</i>
di Carlo Ferrari da Passano rappresentano un contrappunto al racconto
per immagini e alla riflessione su finitezza e immortalità” (dalla
scheda del <a href="http://www.filmmakerfest.com/FilmFestival/643" target="“_blank”">FilmMakerFest 2015</a>). </div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/L%27infinita_Fabbrica_del%20Duomo_ab.3.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/L%27infinita_Fabbrica_del%20Duomo_ab.3.jpg" width="250" /></a>Le inquadrature iniziali de <strong>L’infinita Fabbrica del Duomo</strong>, primo pannello di una tetralogia sugli elementi naturali intitolata <a href="http://www.labete.fr/post/115230078815/spira-mirabilis-en-post-production-un-film-de" target="“_blank”">Spira Mirabilis</a>,
sono dedicate all’olmo più antico d’Italia, piantato nel 1386 ai piedi
della montagna dalla quale, nello stesso anno, si estraeva il primo
blocco di marmo per la costruzione della cattedrale. Scrutato dal nodoso
interno della sua cavità e osservato nelle sue poderose ramificazioni
sorrette da stampelle, l’olmo di Mergozzo si collega alla vicenda del
Duomo non soltanto per concomitanza cronologica e geografica, ma
soprattutto per tradizione leggendaria, poiché, come recita la
didascalia che chiude il prologo: “La leggenda dice che finché l’olmo
vivrà, anche la cattedrale rimarrà in piedi”. È precisamente questa la
traiettoria dell’ultimo lavoro di Martina Parenti e Massimo D’Anolfi:
ricavare dagli elementi (in questo caso la terra) un dialogo organico
che, pur non smarrendo il punto focale di osservazione, restituisca la
loro incessante compenetrazione, la loro continua sovrapposizione. Ed è
così che procede <strong>L’infinita Fabbrica del Duomo</strong>: con un
movimento ascensionale che dalle viscere delle montagne di Candoglia
conduce alla sommità della cattedrale e al cielo che si staglia dietro
le statue svettanti sulle guglie. Dalla terra all’aria, dall’elemento
terrestre a quello celeste passando per l’infinito lavorio degli uomini,
soprattutto quelli umili, anonimi e dimenticati.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/L%27infinita_Fabbrica_del%20Duomo_ab.4.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/L%27infinita_Fabbrica_del%20Duomo_ab.4.jpg" width="250" /></a>Autentica
chiave di volta del titolo, l’aggettivo “infinita” esprime insieme
grandezza e miseria: grandezza di un’opera che, per ambizione e sfarzo,
tende alla “gloria di colui che tutto move” e miseria di un lavoro che,
per glorificare il divino, implica privazioni e violenza. Privazioni di
chi, lavorando nell’ombra e sacrificando le proprie risorse alla
Veneranda Fabbrica, ha contribuito all’edificazione e alla manutenzione
della maestosa cattedrale; violenza praticata da secoli sugli elementi
per creare un gigantesco simbolo del dominio sul creato: “Nel caso del
Duomo abbiamo trovato interessante l’idea che sia stato realizzato con
le più alte intenzioni, ma a partire comunque da un atto di violenza nei
confronti della natura. L’estrazione del marmo, della materia prima
dalla montagna è un gesto violento: il taglio di queste vene marmoree è
il primo segno di una perdita di innocenza. L’opera dell’uomo ha sempre e
comunque a che fare con qualcosa di brutale” (<a href="http://ilmanifesto.info/i-protagonisti-anonimi-della-grande-cattedrale/" target="“_blank”">Massimo D’Anolfi</a>).
Una violenza, dunque, che, pur animata da intenti solennemente
celebrativi e apotropaici (la terza didascalia recita: “Tutto cominciò
la notte in cui Gian Galeazzo Visconti, signore di Milano, sognò il
diavolo in persona che gli intimava di costruire un luogo maestoso e
ricco di immagini sataniche e demoniache. Pena le fiamme dell’inferno”),
è intrinsecamente e inevitabilmente connessa all’azione umana, al suo
intervento diretto sugli elementi naturali. Edificare un tempio alla
gloria celeste significa contemporaneamente sventrare montagne, alterare
la fisionomia del territorio, operare un intervento sul corpo della
natura (alcune immagini in negativo e alcune immagini d’archivio delle
cave di Candoglia sono piazzate davanti ai nostri occhi e sfogliate
clinicamente come radiografie).</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/L%27infinita_Fabbrica_del%20Duomo_ab.5.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/L%27infinita_Fabbrica_del%20Duomo_ab.5.jpg" width="250" /></a>Eppure
a imporsi, agli occhi di chi scrive, è soprattutto l’indocilità della
materia, la sua resistenza ai tagli inferti dall’uomo. Una riluttanza
che s’indovina, non troppo diversamente da ciò che accadeva con
l’umanità residuale di <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=4960" target="“_blank”"><strong>Materia oscura</strong></a> o <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=4034" target="“_blank”"><strong>Il castello</strong></a>,
nei detriti inutilizzabili, nelle fragorose cascate di pietrisco, nella
consunzione che sfigura i volti e abrade le forme delle statue, in una
lucertola che fa capolino dalla cavità di un frammento lapideo dismesso,
nel candido pulviscolo che imbianca le officine dei cantieri. È qui che
la materia prende la sua rivincita, ribellandosi alla proterva
brutalità dell’opera umana, negando il segno netto e incisivo impresso
dal lavoro dell’uomo. Sotto l’apparente celebrazione della solerte e
inesausta laboriosità umana (la Fabbrica del Duomo è Veneranda per
definizione: degna di rispetto e ammirazione) si disegna quindi un’altra
storia, quella del perenne antagonismo tra uomo e ambiente, tra azione
umana e materia prima: è questo l’autentico fulcro del cinema di Martina
Parenti e Massimo D’Anolfi (ancora <a href="http://ilmanifesto.info/i-protagonisti-anonimi-della-grande-cattedrale/" target="“_blank”">D’Anolfi</a>: “In <i>Materia oscura</i> siamo davanti a una brutalità stupida e ottusa, mentre in <i>L’infinita fabbrica</i>
è quasi connaturata all’azione umana nel momento in cui si rapporta con
la natura; c’è sempre una sorta di sentimento di appropriazione, anche
quando si vogliono fare cose buone”). Insomma, più vedo i loro film e
più mi convinco che siano l’antagonismo e la residualità a costituire il
nucleo del loro fare cinema: la tenace umanità interstiziale de <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=4034" target="“_blank”"><strong>Il castello</strong></a> o di <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=4960" target="“_blank”"><strong>Materia oscura</strong></a> resiste alla violenza del potere così come la marmorea materialità de <strong>L’infinita Fabbrica del Duomo</strong> resiste alla superbia della significazione umana (significare nel senso di “signum facere”: fabbricare appositamente un segno).</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/L%27infinita_Fabbrica_del%20Duomo_ab.6.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/L%27infinita_Fabbrica_del%20Duomo_ab.6.jpg" width="250" /></a>Così,
alla storia ufficiale del Duomo, raffigurato apertamente come un
gigantesco organismo che possiede i propri ritmi, i propri rumori e le
proprie funzioni quasi fisiologiche (si presti attenzione allo
sgocciolamento della cera, raccolta quotidianamente alla stregua di
deiezioni animali), si contrappone la storia segreta di questa
indocilità della materia segnata dallo scarto, dal deperimento, dalla
caducità (le sculture e i frammenti lapidei eccessivamente corrosi
vengono accantonati nel cimitero delle statue). Scandito da ventisette
didascalie ricavate dai documenti custoditi nell’archivio della Fabbrica
e cadenzato dal metronomo di un montaggio che genera una musicalità
visiva pullulante di ritmi interni, <strong>L’infinita Fabbrica del Duomo</strong>
si sviluppa in quattro movimenti ascendenti intrecciati tra loro (le
cave, l’archivio, il cantiere e la cattedrale), lasciando che il motivo
cimiteriale s’insinui lieve tra una sezione e l’altra come un Leitmotiv
(o meglio una Totentanz) sommessamente dissacrante - una sorta di
disadorna <i>vanitas</i> che contrasta la monumentale grandiosità
dell’opera, riportando in terra l’anelito celeste. Ricondurre la
sfrenata ambizione umana alla concretezza minerale della natura, la
maestosità della cattedrale alla dimensione originaria della conchiglia,
come chiarisce definitivamente la penultima didascalia: “Sicché,
scolpito in questo grandioso monumento, noi vediamo il racconto di tante
generazioni, ma anche il segno profondo della natura che impiega 10.000
anni per trasformare un deposito di conchiglie in una vena di marmo
rosa. Il Duomo è cresciuto da una conchiglia, le conchiglie sono
cattedrali”. Il segreto del cinema di Martina Parenti e Massimo
D’Anolfi? Immagini che racchiudono il mondo senza rinchiuderlo
nell’angusta cornice di un quadro.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Già pubblicata su <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=5685" target="_blank">www.spietati.it</a>. </div>
ABhttp://www.blogger.com/profile/05384764352572794697noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9104073176553617908.post-48478077303282830942015-11-17T02:25:00.000-08:002015-11-17T14:15:21.693-08:00LOVE<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Love_ab_1.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Love_ab_1.jpg" width="200" /></a> </div>
<div style="text-align: justify;">
<br />
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
“Mattino del 1º gennaio, il telefono squilla. Murphy si sveglia accanto
alla giovane moglie e al figlio di due anni. Ascolta un messaggio
lasciato alla segreteria telefonica: tremendamente angosciata, la madre
di Electra vuole sapere se Murphy ha notizie di sua figlia scomparsa da
tempo, poiché teme che le sia capitato qualcosa di grave. Nel corso di
una lunga giornata piovosa, Murphy si ritrova solo nel suo appartamento a
ricordare la sua più grande storia d’amore: due anni con Electra. Una
passione ardente piena di promesse, giochi, eccessi ed errori…” (dal
presskit).</div>
<div style="text-align: justify;">
<br />
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
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<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Love_ab_3.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Love_ab_3.jpg" width="250" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
<i>Nel
corso degli anni ho sognato di fare un film che riproducesse al meglio
la passione amorosa di una giovane coppia in tutti i suoi eccessi fisici
ed emotivi. Una sorta di amour fou simile alla quintessenza di ciò che i
miei amici o io stesso abbiamo potuto vivere. Un melodramma
contemporaneo in grado d’integrare molteplici scene d’amore e capace di
superare la ridicola barriera che impedisce di mostrare sequenze
apertamente erotiche in un film normale (…). Volevo filmare ciò che il
cinema, per ragioni commerciali o legali, può permettersi raramente,
vale a dire filmare la dimensione organica dello stato amoroso. Eppure,
nella maggioranza dei casi, è qui che risiede l’essenza stessa
dell’attrazione all’interno di una coppia. Il partito preso consisteva
quindi nel mostrare una passione intensa sotto una luce naturale, dunque
animale, ludica, orgasmica e lacrimale. Contrariamente ai miei progetti
precedenti, per una volta non si tratta che di violenza sentimentale ed
estasi amorosa.</i></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<h2 style="text-align: justify;">
<span style="font-size: large;">Affaire Love</span></h2>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Love_ab_3_a.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Love_ab_3_a.jpg" width="250" /></a>La prima questione da affrontare senza indugi nell’<i>affaire</i> <b>Love</b>
riguarda l’assegnazione a scoppio ritardato del divieto ai minori di 18
anni (nelle prime due settimane di programmazione, il film è uscito in
33 sale francesi con un divieto ai minori di anni 16). Non tanto per
capriccio morboso o per un’indignata difesa della libertà di
espressione, quanto per mettere in evidenza un’anomalia che interessa
attualmente il sistema francese di assegnazione dei visti di
distribuzione cinematografica (<a href="https://fr.wikipedia.org/wiki/Visa_d%27exploitation" target="“_blank”">Visa d’exploitation</a>).
Come funziona questo sistema? L’organo consultivo deputato
all’assegnazione dei visti è, in prima istanza, la Commissione di
classificazione delle opere cinematografiche (<a href="https://fr.wikipedia.org/wiki/Commission_de_classification_des_%C5%93uvres_cin%C3%A9matographiques" target="“_blank”">Commission de classification des œuvres cinématographiques</a>):
se non insorgono complicazioni, l’indicazione proposta dalla
commissione viene pacificamente approvata dal Ministero della Cultura e
della Comunicazione che, per mano del ministro, la conferma e la rende
effettiva. Questa la prassi consolidata da decenni. Ora, dal momento che
la commissione di classificazione è diretta emanazione del Centro
Nazionale del Cinema e dell’Immagine Animata (<a href="https://fr.wikipedia.org/wiki/Centre_national_du_cin%C3%A9ma_et_de_l%27image_anim%C3%A9e" target="“_blank”">CNC</a>)
ed è composta in maggioranza da professionisti che operano nel settore,
le indicazioni che essa suggerisce, improntate al rispetto delle opere e
alla protezione della creazione artistica, possono essere considerate
eccessivamente permissive e indulgenti, se non addirittura lassiste, da
chi reclama un’applicazione letterale e draconiana della legge in
materia (<a href="http://www.legifrance.gouv.fr/affichCodeArticle.do?cidTexte=LEGITEXT000006070719&idArticle=LEGIARTI000006418096&dateTexte=&categorieLien=cid" target="“_blank”">l’articolo 227-24</a>
del Codice penale francese proibisce formalmente la diffusione ai
minori di un messaggio “a carattere violento, pornografico, incitante al
terrorismo o di natura tale da offendere gravemente la dignità umana”,
contemplando la punizione a tre anni di reclusione e la sanzione
pecuniaria di 75000 euro).</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Love_ab_4.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Love_ab_4.jpg" width="250" /></a>È
proprio questa discrezionalità della commissione, una discrezionalità
rispettosa delle opere e ragionevolmente duttile nell’applicazione della
normativa in materia, a prestare il fianco alle controversie. Eppure
l’anomalia non risiede nella presunta elasticità della commissione di
classificazione - che per le frange più reazionarie equivale al lassismo
- o in un ipotetico richiamo all’inflessibile applicazione della legge
da parte del ministero, poiché il più delle volte quest'ultimo si limita
ad avallare le indicazioni suggerite dalla prima. L’anomalia consiste
invece nell’eventualità che una terza parte, reclamando maggior rigore
applicativo, contesti la correttezza del visto erogato dagli organi
competenti e interpelli altri organi istituzionali (il tribunale
amministrativo e, in ultima istanza, il Consiglio di Stato) per
procedere a un riesame del film e all’attribuzione di una
classificazione più severa. Perché parlo di anomalia e non di semplice
risorsa democratica? Perché negli ultimi anni <i>Promouvoir</i>,
un’associazione cattolica fondata nel 1996 la cui finalità consiste
nella “promozione dei valori giudaico-cristiani in tutti i domini della
vita sociale”, ha più volte contestato le decisioni di commissione e
ministero, ottenendo più volte dal Consiglio di Stato la revoca dei
visti ministeriali e l’assegnazione di classificazioni più rigorose (dal
divieto ai minori di 16 anni al visto “X” o all’interdizione ai minori
di 18) per pellicole quali <a href="http://www.premiere.fr/Cinema/News-Cinema/Baise-moi-Nymphomaniac-Saw-rencontre-avec-l-homme-qui-fait-tomber-les-visas-4210793" target="“_blank”">Baise-moi (1999), Ken Park (2003), Saw 3D (2010), Nymphomaniac (2013)</a> e, appunto, <b>Love</b>.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Love_ab_5.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Love_ab_5.jpg" width="250" /></a>In sostanza, la situazione attuale è questa: l’associazione di estrema destra <i>Promouvoir</i>, capitanata dall’avvocato omofobo e ultratradizionalista <a href="http://www.lesinrocks.com/2015/08/10/actualite/qui-est-andre-bonnet-le-croise-qui-a-interdit-love-11766136/" target="“_blank”">André Bonnet</a>,
tiene sotto scacco il Ministero della Cultura e la Commissione di
classificazione del CNC, attaccando le loro deliberazioni ogni qual
volta le giudichi troppo permissive o condiscendenti. Questa situazione,
definita da Vincent Maraval, patron di Wild Bunch, vero e proprio <a href="http://www.premiere.fr/Cinema/News-Cinema/Vincent-Maraval-sur-la-classification-de-Love-C-est-du-terrorisme-moral-4199887" target="“_blank”">“terrorismo morale”</a> ha accompagnato la vicenda di <b>Love</b>
fin dall’inizio, giacché il ministro (o la ministra che dir si voglia)
della cultura in carica Fleur Pellerin, prevedendo la reazione di <i>Promouvoir</i>,
non ha avallato la prima raccomandazione della commissione di vietare
il film ai minori di 16 anni, ma, caso rarissimo, ha chiesto alla
commissione stessa di riesaminare il film con l’auspicio di ottenere una
classificazione più severa. Oltre all’evidente cerchiobottismo del
ministro (perché non ha semplicemente scelto di non seguire
l’indicazione, anziché chiedere alla commissione di cambiare parere?),
si spalanca una questione letteralmente surreale: <a href="http://www.larp.fr/home/?p=11878" target="“_blank”">che senso ha mantenere in vita un’apposita commissione</a>
composta in maggioranza da professionisti del settore, se a stabilire
la classificazione delle pellicole è in ultima analisi un’associazione
reazionaria?</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Love_ab_6.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Love_ab_6.jpg" width="250" /></a>Cionondimeno,
per la seconda volta e con regolare votazione, la commissione ha
confermato il divieto ai minori di 16 anni senza lasciarsi influenzare
dalla richiesta di revisione del ministro o farsi intimidire dalle
prevedibili reazioni di <i>Promouvoir</i>. Reazioni che, naturalmente, non si sono fatte attendere: <b>Love</b>
è uscito nelle sale francesi mercoledì 15 luglio col divieto ai minori
di 16 anni e il giorno successivo l’associazione di André Bonnet ha
richiesto un provvedimento d’urgenza al Tribunale Amministrativo di
Parigi per contestare il visto di distribuzione del film. Il nuovo esame
(e siamo a quota tre) del tribunale amministrativo ha sospeso, in data
giovedì 30 luglio, il visto ministeriale e, in ragione della presenza
nel film di “scene di sesso non simulate”, ha ufficialmente innalzato il
divieto ai minori di 18 anni, non senza qualche complicazione per le 33
sale che stavano programmando <b>Love</b> da due settimane
con la classificazione improvvisamente annullata. La parola finale è
comunque spettata alla più alta corte amministrativa francese: il
Consiglio di Stato, interpellato con un ricorso in cassazione presentato
nel mese di agosto dalle società di produzione e distribuzione del
film, nonché dal gabinetto del ministro Fleur Pellerin, che nel
frattempo ha assunto posizioni meno cerchiobottiste, difendendo con
prudenza ma sempre più apertamente - <a href="http://www.canalplus.fr/c-emissions/c-le-petit-journal/pid6515-le-petit-journal.html?vid=1305770" target="“_blank”">a 20:48 si parla del film di Noé e della temibile associazione di Bonnet</a> - la libertà di creazione artistica e l’operato della commissione di classificazione. L’affaire <b>Love</b>
si chiude definitivamente mercoledì 30 settembre quando, esaminato
nuovamente il film lunedì 14 settembre (quarto vaglio istituzionale in
poco meno di tre mesi: un autentico record), il Consiglio di Stato
respinge il ricorso e conferma il divieto ai minori di 18 anni con la
seguente <a href="http://www.conseil-etat.fr/Actualites/Communiques/Visa-d-exploitation-du-film-Love" target="“_blank”">motivazione</a>:
“il giudice dei provvedimenti d’urgenza del tribunale amministrativo
non ha commesso errore sospendendo parzialmente il visto di
distribuzione in base al fatto che <i>Love</i> avrebbe dovuto essere
vietato ai minori di 18 anni (senza classificazione “X”) in ragione
delle numerose scene di sesso non simulate che esso comporta”.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Love_ab_7.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Love_ab_7.jpg" width="250" /></a>Tirando
le somme, l’intera controversia sorta intorno all’ultimo film di Gaspar
Noé ha finito per concentrarsi sulla presenza di “scene di sesso non
simulate” (l’articolo <a href="http://www.legifrance.gouv.fr/affichCodeArticle.do;jsessionid=439E61EE97063ACEBEBB0E17A5091130.tpdila13v_2?cidTexte=LEGITEXT000020908868&idArticle=LEGIARTI000029231750&dateTexte=20151014&categorieLien=cid#LEGIARTI000029231750" target="“_blank”">R. 211-12</a>
del Codice del cinema e dell’immagine animata prevede difatti il
divieto ai minori di 18 anni nel caso in cui l’opera comporti scene di
tale natura), sollevando un importante problema di carattere normativo.
Dal momento che questo criterio grossolanamente quantitativo e
automatico (presenza di scene di sesso non simulate = divieto ai minori
di 18) risulta palesemente inadeguato alla realtà contemporanea, da una
parte per la frequenza sempre maggiore di film comprendenti scene di
sesso esplicito a finalità non masturbatoria (basti pensare a pellicole
di Catherine Breillat, Bruno Dumont, Bertrand Bonello, Philippe
Grandrieux, Jean-Claude Brisseau, Alain Guiraudie e Abdellatif Kechiche)
e, dall’altra, per il ruolo sempre più marginale del cinema nella
formazione sessuale degli adolescenti (ruolo rimpiazzato dal possesso di
un dispositivo informatico e dall’accesso a un motore di ricerca
qualsiasi), il solo modo di correggere l’anomalia del sistema di
classificazione risiede nella revisione dei criteri che disciplinano la
regolamentazione. A fare problema, insomma, è la necessità sempre più
stringente di stabilire una distinzione tra scene di sesso non simulate e
scene a vocazione dichiaratamente pornografica. È per questo motivo
che, sulla scorta dell’affaire <b>Love</b>, il ministro della cultura Fleur Pellerin ha annunciato l’avvio di una <a href="http://www.allocine.fr/article/fichearticle_gen_carticle=18645702.html" target="“_blank”">riflessione per la riforma del sistema</a> concertata con la commissione di classificazione, con <a href="http://www.larp.fr/home/?p=12055" target="“_blank”">rappresentanti del mondo del cinema</a>,
specialisti nella protezione della gioventù e neuropsichiatri
infantili. Entro gennaio 2016 Jean-François Mary, presidente della
commissione del CNC, dovrà presentare al ministro delle proposte
pianificate per l’elaborazione di una regolamentazione più adatta alla
realtà cinematografica attuale. In definitiva l’affaire <b>Love</b>, in maniera non troppo dissimile dall’affaire <b>Baise-moi</b>
(in seguito al quale è stato reintrodotto il divieto ai minori di 18
anni, precedentemente sospeso dal ministro della cultura Jack Lang),
avrà con ogni probabilità decisive ripercussioni sull’intero sistema
francese di classificazione delle opere cinematografiche.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
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</div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Love_ab_7_a.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Love_ab_7_a.jpg" width="250" /></a><i>Malgrado
il suo piccolo budget, questo film colorato dal formato cinemascope è
stato girato in rilievo grazie a nuove videocamere. Spero che questa
scelta renderà l’esperienza più immersiva per gli spettatori.
Affascinato dalle immagini in rilievo, continuo da anni a scattare foto
in 3D, analogiche o digitali. La posta in gioco è ancora più inquietante
quando si filma una persona cara la cui vita sta svanendo. Rivedendo le
immagini, si ha la sensazione di aver trattenuto una parte quasi
vivente della persona dentro una piccola scatola. Il rilievo dà
l’impressione illogica e infantile di aver afferrato un momento del
passato molto meglio di quanto possa farlo un’immagine piatta. Siccome
questo film racconta un amore perduto, ho pensato che il rilievo potesse
aumentare l’identificazione dello spettatore col personaggio e la sua
condizione nostalgica. Analogamente, la presenza di una voce over o la
scelta delle musiche sono lì per riflettere meglio lo scacco emotivo del
protagonista, tanto smarrito nei suoi atti quanto nei suoi pensieri.</i></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<h2 style="text-align: justify;">
<span style="font-size: large;">Love Affair</span></h2>
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</div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Love_ab_8.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Love_ab_8.jpg" width="250" /></a>Il
lungo preambolo sulla controversia legale non costituisce una semplice
curiosità, poiché, oltre a mettere in luce le peculiarità del sistema
francese di assegnazione dei visti, evidenzia uno dei tratti distintivi
di <b>Love</b>, anzi forse il suo tratto più saliente, ovvero l’inscindibilità della componente erotica da quella narrativa e sentimentale (<a href="http://www.theguardian.com/film/2015/nov/12/gaspar-noe-erotic-3d-film-love-sex-is-zone-of-danger" target="“_blank”">Love is Noé’s attempt to marry sex and story</a>).
In maniera ancor più marcata e indissociabile di quanto avveniva in
alcune pellicole di Catherine Breillat, Bruno Dumont, Philippe
Grandrieux o Jacques Nolot, nell’ultimo film di Gaspar Noé
configurazione narrativa, modulazione sentimentale e rappresentazione
erotica sono visceralmente, geneticamente inseparabili: è letteralmente
impossibile alterare uno solo di questi aspetti del film senza
snaturarlo completamente o intaccarne in profondità la fisionomia
complessiva. Ed è proprio questa omogeneità di fondo, simile a un'osmosi
molecolare, ad aver posto il problema della classificazione in termini
cogenti e ineludibili. In questo senso uno dei punti di riferimento di <b>Love</b> è <a href="https://www.youtube.com/watch?v=T8eOBmuBQQA" target="“_blank”">The Defiance of Good</a>
(1975) di Armand Weston (la locandina del quale campeggia su una parete
della camera di Murphy), uno dei rari porno-horror degli anni ’70 in
cui progressione drammatica, sessualità esplicita e tensione emotiva non
seguono percorsi divergenti e discordanti, ma si integrano
congiuntamente ed efficacemente nel disegno narrativo.</div>
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<br /></div>
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</div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Love_ab_9.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Love_ab_9.jpg" width="250" /></a>L’origine di <b>Love</b> risale a più di quindici anni fa, precisamente al periodo successivo a <b>Seul contre tous</b> (1998), quando Gaspar Noé, impossibilitato a realizzare in tempi brevi <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=4003" target="“_blank”"><b>Enter the Void</b></a>
per motivi tecnici, economici e logistici, decide di posporre
provvisoriamente il progetto e ripiegare su un piccolo film intimista,
una storia d’amore con copiosa rappresentazione del sesso sullo schermo.
Un giorno del giugno 2001 Noé incrocia Vincent Cassel in un locale e
gli parla del nuovo progetto, salutato da quest’ultimo con entusiasmo e
intraprendenza (sia Cassel che la moglie Monica Bellucci apprezzavano i
lavori precedenti di Noé), fissando nel mese di agosto il periodo adatto
alle riprese. Noé e Cassel interpellano dunque i due produttori Richard
Grandpierre e Christophe Rossignon (<b>L’odio</b>, <b>Il patto dei lupi</b>),
che si dicono realmente interessati alla proposta, e la produzione del
film inizia a ingranare con Studio Canal come compagnia di sostegno. Ma
quando Vincent e Monica leggono il trattamento di sette pagine prive dei
dialoghi (da improvvisare totalmente durante le riprese) vengono
spaventati dall’eccessiva intimità della vicenda, revocando la loro
partecipazione al film. Per non perdere la favorevole congiuntura
produttiva, Noé propone allora di realizzare un altro film, un <i>rape and revenge</i> raccontato al contrario: è così che dalle ceneri di <i>Danger</i> (il titolo originale del trattamento rifiutato) nasce <b>Irréversible</b> (2002). Grazie al successo commerciale di <i>Irréversible</i>, Noé può finalmente girare <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=4003" target="“_blank”"><b>Enter the Void</b></a>,
pellicola molto più costosa e molto meno fortunata dal punto di vista
degli incassi. A sedici anni di distanza, infine, Noé ritorna al
trattamento di Danger, che diventa <b>Love</b>.</div>
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<br /></div>
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</div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Love_ab_10.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Love_ab_10.jpg" width="250" /></a>Film dal budget decisamente meno impegnativo di <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=4003" target="“_blank”"><b>Enter the Void</b></a> (costato più di 10 milioni di euro), <b>Love</b>
(costato tra i 2 e i 3 milioni di euro) è stato realizzato grazie a una
coproduzione con investimenti privati che ha visto tra i principali
artefici Vincent Maraval di Wild Bunch: a questa rischiosa sinergia si
sono aggiunti in extremis gli aiuti del CNC per l’utilizzo del 3D (<a href="http://www.cnc.fr/web/fr/aide-aux-nouvelles-technologies-en-production-ntp" target="“_blank”">aide aux nouvelles technologies en production</a>).
Preparato e portato a termine in soli 9 mesi (da settembre 2014 a
maggio 2015) e proiettato in anteprima in un’affollatissima <a href="http://www.dailymotion.com/video/x2qvfcl_love-red-carpet-en-cannes-2015_shortfilms" target="“_blank”">Séance de minuit</a> al 68º Festival di Cannes, <b>Love</b>
è stato girato in 3D per più motivi: in primo luogo perché Noé aveva
già dimestichezza con questa tecnica (da anni scatta fotografie
stereoscopiche con un piccolo apparecchio e registra immagini in rilievo
con una videocamera Panasonic 3D a basso costo, videocamera che
peraltro viene utilizzata in una <a href="https://www.youtube.com/watch?v=5x7VbG9yJkA" target="“_blank”">sequenza iperstereoscopica</a>
del film); in secondo luogo, importante quanto il primo se non di più,
poiché Benoît Debie, direttore della fotografia di fiducia di Noé a
partire da <b>Irréversible</b>, aveva appena finito di girare <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=5632" target="“_blank”"><b>Every Thing Will Be Fine</b></a> e, forte dell’esperienza acquisita sul set di Wim Wenders, ha convinto l’amico Gaspar che realizzare <b>Love</b>
in 3D sarebbe stato meno complicato del previsto (grazie a un sistema
ottico stereoscopico più leggero di quello utilizzato per il film di
Wenders).</div>
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<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Love_ab_11.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Love_ab_11.jpg" width="250" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
Sulle pagine del quotidiano elvetico <a href="http://www.letemps.ch/culture/2015/08/25/amour-physique-issue-love" target="“_blank”">Le Temps</a>, Marie-Claude Martin scrive: “Come <i>Irréversible</i> che raccontava una storia di stupro al contrario, <i>Love</i>
è una macchina per risalire il tempo. Come sempre, Gaspar Noé cerca
l’origine, questo tempo originario in cui niente è stato ancora
alterato, nel quale tutto è puro, semplice, infantile. Solo il ritorno
all’indietro e su di sé permette di raggiungere - sapendolo
definitivamente perduto - questo stato precedente alla corruzione”.
L’osservazione di Marie-Claude Martin coglie perfettamente nel segno:
se per Noé “il tempo distrugge tutto” (<a href="http://www.letempsdetruittout.net/" target="“_blank”">Le Temps Détruit Tout</a>),
la sola risorsa a disposizione per contrastare o sospendere questa
opera devastatrice risiede nello sfaldamento, nello smantellamento della
linearità cronologica e nella regressione verso il luogo immaginario e
primordiale dell’origine, là dove ogni cosa è colta <i>in statu nascendi</i>,
nel momento aurorale del suo manifestarsi. L’inversione diviene una
figura della regressione allo stato anteriore alla degradazione e al
disfacimento: i finali di <b>Irréversible</b>, <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=4003" target="“_blank”"><b>Enter the Void</b></a> e <b>Love</b>,
tre pellicole concepite più o meno nello stesso periodo e
indissolubilmente legate tra loro, rispondono a questa logica
regressiva, amniotica e lustrale. L’epilogo nella vasca da bagno di <b>Love</b>,
benché suscettibile di una lettura simbolica d’impronta mortuaria (le
tonalità purpuree che impregnano l’inquadratura, il freeze frame
cadaverico che paralizza i corpi avvinghiati e la didascalia-epitaffio
THE END a caratteri cubitali), conclude quella che potrebbe essere
plausibilmente definita “trilogia della regressione”. Una trilogia che,
per quanto contraddistinta dallo stesso movimento retrogrado, porrebbe
di volta in volta l’accento su elementi diversi della dinamica
regressiva: la violenza in <b>Irréversible</b>, la morte in <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=4003" target="“_blank”"><b>Enter the Void</b></a> e, infine, il sentimento amoroso in <b>Love</b>. Non è affatto fortuito che Noé, interpellato sull’influenza esercitata da <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=3108" target="“_blank”"><b>2001: Odissea nello spazio</b></a> e da Kubrick in generale sul suo cinema, abbia risposto in questi termini: “<i>2001: Odissea nello spazio</i>
è un film sensoriale, ma è soprattutto un film molto cerebrale,
meccanico, che sviluppa un discorso sull’umanità, sull’intelligenza
artificiale e altre cose ancora. I miei film sono molto mammiferi, i
suoi sono più costruiti con la neocorteccia, dunque la parte del
cervello che serve al linguaggio e alla previsione del futuro, i miei
film parlano più delle pulsioni mammifere - o rettili - dell’uomo e
della donna”.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Love_ab_12.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Love_ab_12.jpg" width="250" /></a>Ancora Marie-Claude Martin: “E il 3D, direte voi? Contro ogni aspettativa, è la bella sorpresa di <i>Love</i>.
Venduta come la promessa allettante di un’immersione totale, il 3D è
meno un invito al voyeurismo che uno scrigno protettivo. […] Il 3D ha la
stessa funzione: offrendo l’artificio di una profondità di campo,
mettendo i corpi in rilievo, giocando sull’aspetto teatrale, mette a
distanza più di quanto ci faccia penetrare nell’intimità dei corpi. I
quali, bagnati da una luce alonata, sono come protetti dagli sguardi che
potrebbero sporcarli”. Girato con un sistema a due videocamere 3D, <b>Love</b>
deve praticamente tutta la concezione del suo impianto visivo
all’arrangiamento tridimensionale: impossibile afferrare e comprendere
completamente la strutturazione spaziale delle inquadrature, la
collocazione dei punti macchina, la gestione delle distanze tra i
personaggi e la resa volumetrica dei corpi con una visione 2D. Giusto a
titolo di esempio: quella che potrebbe sembrare una scelta squisitamente
stilistica come la predilezione per le inquadrature fisse e l’uso
parsimonioso dei movimenti di macchina è invece il precipitato estetico
della tecnica di ripresa (dal momento che in 3D i movimenti di camera
risultano eccessivamente vertiginosi e nauseanti, Gaspar Noé e Benoît
Debie, entrambi anche interpreti nei panni del gallerista Noé e dello
sciamano Yuyo, hanno rinunciato ai virtuosismi cinetici di <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=4003" target="“_blank”"><b>Enter the Void</b></a>
e hanno al contrario adottato una misura visiva adatta a esaltare la
profondità di campo e l’iscrizione statuaria dei corpi nello spazio).
Detto più chiaramente, la sola versione di <b>Love</b> in cui
il film canta e incanta è quella in 3D: lo “scrigno protettivo” di cui
parla Marie-Claude Martin, uno scrigno che mette al riparo la visione
dal sentimentalismo e dal voyeurismo, viene schiacciato e frantumato
dall’appiattimento della versione bidimensionale (altro esempio
emblematico: nella versione 3D, la frequente collocazione di Murphy/Karl
Glusman nella soglia tra due stanze possiede naturalezza e spontaneità,
mentre in quella bidimensionale acquista un artificioso sapore di
incorniciatura metacinematografica).</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Love_ab_13.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Love_ab_13.jpg" width="250" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
Strutturato sull’esperienza del ricordo di Murphy (l’espediente narrativo che permette a Noé lo zigzagante percorso a ritroso), <b>Love</b>
abbraccia deliberatamente codici visivi che si discostano in modo
eclatante dal canone pornografico: anziché concentrarsi esclusivamente
sui genitali e sui particolari prestazionali, le inquadrature concedono
ampio respiro all’integralità fisica (la scena di apertura sulle note
della <a href="https://www.youtube.com/watch?v=wx8dnWY6Wd4" target="“_blank”">Gnossienne nº 3</a> di Satie, la sequenza del <i>threesome</i> su quelle di <a href="https://www.youtube.com/watch?v=JOKn33-q4Ao" target="“_blank”">Maggot Brain</a>
dei Funkadelic), si assestano sulle parti superiori dei corpi
(l’amplesso che segue al “Can you show me how tender you can be?”
sussurrato da Electra/Aomi Muyock a Murphy sulle note
dell’indimenticabile <a href="https://www.youtube.com/watch?v=HDeQbhXvC4E" target="“_blank”">Lucifer Rising Take Two</a>
di Bobby Beausoleil) oppure si stringono addirittura sui soli volti
ripresi in primo piano (Murphy e la sua ex Lucile/Xamira Zuloaga intenti
a baciarsi sulle note di <a href="https://www.youtube.com/watch?v=c3qN_66H99U" target="“_blank”">Always Returning</a>
di Brian Eno). Contrariamente a quanto ipotizzato nelle fasi di
scrittura e preparazione (inizialmente Noé avrebbe voluto fare un film
pressoché privo di dialoghi, con sole musiche di accompagnamento e voce
over di Murphy), grande spazio è stato lasciato all’improvvisazione, sia
nelle parti dialogate (si pensi al feroce litigio nel taxi tra Murphy
ed Electra) che in quelle performative (la sequenza, già divenuta di
culto, del <i>full frontal cumshot</i> girato alla fine del primo giorno
di riprese, con tanto di richiesta esplicita di Karl Glusman a Noé di
togliersi dal suo campo visivo per non inibire l'eiaculazione).</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
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</div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Love_ab_14.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Love_ab_14.jpg" width="250" /></a>Attenzione
però a non scambiare Murphy per l’alter ego di Gaspar Noé: la svista
più imperdonabile che si potrebbe commettere (stortura che si è
puntualmente verificata) nei confronti di <b>Love</b>
consisterebbe proprio nel confondere il punto di vista di Murphy con
quello del film nel suo complesso e di lì (il passo è breve) con quello
di Noé stesso. Nonostante porti il cognome materno del regista, ne
indossi le magliette e la giacca militare <i>à la</i> Travis Bickle e
benché le pareti della sua camera siano tappezzate di poster e
suppellettili di proprietà del cineasta (tra i quali spicca il modellino
del LOVE HOTEL già utilizzato in <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=4003" target="“_blank”"><b>Enter the Void</b></a>),
Murphy appartiene a pieno titolo alla stirpe dei protagonisti
sgradevoli, inconcludenti e caricaturali ai quali Noé ci ha abituati fin
dal suo esordio (<a href="http://www.interviewmagazine.com/film/gaspar-noe" target="“_blank”">GN</a>:
“My characters are never heroic. They are mostly lost and trying to
find the right door to open and they end up opening the wrong doors”).
Come il boucher interpretato da Philippe Nahon in <a href="https://www.youtube.com/watch?v=5bSLA4KCEPA" target="“_blank”">Carne</a> (1991) e <a href="https://www.youtube.com/watch?v=qdXso79Mhjk" target="“_blank”">Seul contre tous</a>
(1998), Murphy è il tipico antieroe di Noé in cui si accumulano
velenosamente aspirazioni velleitarie (si dichiara un filmmaker ma le
sue pompose ambizioni non trovano alcun riscontro effettivo),
atteggiamenti stereotipati (propina indistintamente le stesse formule
sentimentali all’ex fidanzata Lucile e a Electra, spingendosi
addirittura a suggerire lo stesso nome per il figlio prima a Electra e,
nell’inquadratura immediatamente successiva, a Omi/Klara Kristin) e
maschilismo tracotante (l’aggressione al gallerista insolentemente
interpretato dallo stesso Noé con parrucca petersellersiana,
l’interrogatorio in centrale col poliziotto interpretato in modo
formidabile daVincent Maraval al suo esordio nei panni di un flic
lussurioso).</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Love_ab_15.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Love_ab_15.jpg" width="250" /></a>Il profondo legame tra il cialtronesco protagonista di <b>Love</b>, il macellaio xenofobo di <a href="https://www.youtube.com/watch?v=5bSLA4KCEPA" target="“_blank”">Carne</a>/<a href="https://www.youtube.com/watch?v=qdXso79Mhjk" target="“_blank”">Seul contre tous</a> e il giovane Oscar di <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=4003" target="“_blank”"><b>Enter the Void</b></a>
si oggettiva inoltre nel risentito vittimismo della voce over, permeata
di un’acredine e di un’autocommiserazione che, pur ammantate di
nostalgica rassegnazione, richiamano esplicitamente le rancorose
recriminazioni del boucher nei confronti della ributtante compagna
(boucher: “Un salame di merda. Un vino di merda e una famiglia di merda
in un paese di merda”; Oscar: “Ne ho abbastanza di questa puttana (…)
Vivere con una donna è come condividere il letto con la CIA”) e la
tossica autoindulgenza dell’inconsapevole morituro di <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=4003" target="“_blank”"><b>Enter the Void</b></a>
(Oscar, poco prima di accendersi una pipa di DMT, bisbiglia
paradossalmente: “I know I’m not a junkie”; Murphy, sotto oppio, mormora
tra sé e sé: “I feel like a junkie”). Quelli di Noé, insomma, sono
sempre protagonisti che, nonostante l’impronta soggettiva impressa ai
film, ingaggiano lo spettatore in una dinamica giocata sul filo
dell’identificazione e della repulsione: se gli smacchi che vivono
incoraggiano fortemente l’immedesimazione, le loro meschinità e i loro
egoismi ostacolano altrettanto fortemente l’adesione incondizionata.
Sollecitato e intralciato al tempo stesso, lo spettatore è dunque preso
in un’impasse che neutralizza i convenzionali e rassicuranti meccanismi
di partecipazione emotiva. Messo fuori causa l’apparato psicologico, il
cinema di Noé è dunque libero di sferrare l’offensiva sul fronte
sensoriale e pulsionale della rappresentazione cinematografica (“I miei
film parlano delle pulsioni mammifere - o rettili - dell’uomo e della
donna”). E benché <b>Love</b> non costituisca il capo d’opera
del cineasta franco-argentino (alcuni stilemi come le didascalie a tutto
schermo e gli stacchi in nero “effetto diaporama” sono qui adoperati in
chiave vezzosamente ornamentale), l’ultimo film di Gaspar Noé
rappresenta l’ennesima testimonianza di un talento espressivo capace di
lasciare un segno indelebile nel panorama internazionale con
proposizioni cinematografiche di profonda originalità e inesausta
radicalità. Uno dei rari casi in cui la cinefilia non fagocita
l’inventiva e la vitalità nelle soffocanti spire del miserabile
metacinema.</div>
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<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<i>Questo, tra tutti i miei film, è quello più vicino a ciò che ho potuto conoscere dell’esistenza e anche il più malinconico.</i></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Un ringraziamento a Lorenzo Baldassari per la consulenza tecnica.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Già pubblicata su <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=5664" target="_blank">www.spietati.it</a>.</div>
ABhttp://www.blogger.com/profile/05384764352572794697noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9104073176553617908.post-85335842130148338712015-11-03T02:12:00.000-08:002015-11-03T02:12:13.447-08:00DHEEPAN - UNA NUOVA VITA<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Dheepan_ab_1.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Dheepan_ab_1.jpg" width="200" /></a> </div>
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</div>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
"In fuga dalla guerra civile in Sri Lanka, un ex guerriero Tamil, una
giovane donna e una bambina si fingono una famiglia. Accolti come
rifugiati in Francia, vanno ad abitare in una banlieue difficile dove,
pur conoscendosi appena, cercano di vivere in armonia." (dal pressbook). </div>
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</div>
<div style="text-align: justify;">
Settimo lungometraggio di Jacques Audiard, <strong>Dheepan</strong>
si è aggiudicato la Palma d’oro al Festival di Cannes del 2015. Se la
ricompensa suprema arriva solo oggi, il figlio d’arte del celebre
dialoghista, sceneggiatore e romanziere Michel Audiard è già stato
premiato a Cannes nel 1996 con <strong>Un héros très discret</strong> (migliore sceneggiatura) e nel 2009 con <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=2348" target="“_blank”"><strong>Un prophète</strong></a> (Grand Prix Speciale della Giuria). Entrambi i film precedentemente ricompensati condividono con quest’ultimo, a differenza di <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=4527" target="“_blank”"><strong>Un sapore di ruggine e ossa</strong></a>,
la tipica ossessione audiardiana: quella di un talento sopito o
nascosto che si risveglia nel protagonista a causa della pressione
ambientale e delle regole di sopravvivenza dettate dal microcosmo in cui
egli si trova accidentalmente gettato - si pensi anche al bellissimo
noir d’esordio del 1994 <strong>Regarde les hommes tomber</strong>.
Questa volta, tuttavia, l’accento è posto più sulla forza che spinge il
protagonista a ridestare il talento dormiente che sull’eccezionalità del
talento stesso: in <strong>Dheepan</strong> l’uomo che non amava più la
guerra, come recitava il sottotitolo originale, diventa l’uomo che
torna alla guerra per amore/amare. E stavolta, inoltre, l’impianto
drammaturgico cambia sensibilmente rotta rispetto alle costruzioni
controllatissime cui Audiard ci ha abituati (<a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=4527" target="“_blank”"><strong>Un sapore di ruggine e ossa</strong></a>
rappresenta il culmine di questa signoria autoriale): tutta la parte
sentimentale della sceneggiatura è stata scritta lasciando dei vuoti da
colmare durante le riprese, che hanno dunque avuto il compito di
sviluppare i frammenti lasciati allo stato embrionale nello script.</div>
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<br />
<a href="http://www.spietati.it/public/Dheepan_ab_4.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Dheepan_ab_4.jpg" width="250" /></a>Il
risultato definitivo, insomma, è stato fortemente influenzato dalle
dinamiche di immedesimazione degli interpreti sul set, motivo per cui si
è reso necessario un metodo di tournage diverso dal solito: non più
ciak centellinati ma numerose riprese per ogni scena, in modo da
lasciare ai tre attori principali (Antony, la piccola Claudine e Kali,
non professionisti a eccezione di quest’ultima, attrice teatrale di
Madras) la libertà di raggiungere e aggiungere sfumature nuove e
sorprendenti. Ma se il tentativo di variare registro rispetto alla
scrittura ipersorvegliata di <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=4527" target="“_blank”"><strong>Un sapore di ruggine e ossa</strong></a>
è indubbiamente apprezzabile, questa stessa plasticità progettuale
confida eccessivamente nell’effetto di autenticità indotto dal metodo
aperto, trascinando il film nelle secche di una convenzionalità
semplificatoria che tiene l’intera vicenda malamente in bilico sul
fondale del miserabilismo benevolente (Dheepan e Yalini convertono
increduli in rupie i 500 euro offerti alla donna per fare la domestica) e
del sentimentalismo pedagogico (la piccola Illayaal che avvicina i due
falsi genitori e istruisce affettivamente la madre improvvisata). Non
soccorre, infine, il candido escapismo dell’epilogo che, pur ammantato
da un alone illusorio di sapore fantastico-favolistico che ne smorza
vistosamente la portata realistica, propone l’idillio inglese come
ottenimento di una felicità finalmente priva di ostacoli e complicazioni
(un vero figlio, qualche amico, un barbecue). E se l’intento di
Audiard, scaturito dal guizzo germinale di realizzare un remake di <strong>Cane di paglia</strong> in una banlieue francese e assunta come indicazione ideale le <i>Lettere persiane</i> di Montesquieu, consisteva nel “ricavare l’immagine eroica da una situazione derisoria” (JA), <strong>Dheepan</strong>
oggettiva lacunosamente e solo a tratti questo proposito, il film
barcamenandosi goffamente tra squarci surreali (l’apparizione di Dheepan
dall’oscurità col cerchietto a luci intermittenti), siparietti
didascalici (il dialogo in lingua tamil con l’interprete per la
richiesta di asilo), proclami metacinematografici (Dheepan e Yalini alla
finestra: “Guarda, sembra di stare al cinema!”) e patetismi d’accatto
(Dheepan che dona a Yalini i fiori appena ricevuti da Illayaal). Titoli
di testa una spanna sopra il resto della pellicola.</div>
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Pubblicata su www.spietati.it.</div>
ABhttp://www.blogger.com/profile/05384764352572794697noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9104073176553617908.post-30252287359546853592015-10-21T02:54:00.001-07:002015-10-21T02:54:36.313-07:00SUBURRA<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Suburra_ab_1.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Suburra_ab_1.jpg" width="200" /></a>“Nell’antica Roma, la Suburra era il quartiere dove il potere e la
criminalità segretamente si incontravano. Dopo oltre duemila anni, quel
luogo esiste ancora. Perché oggi, forse più di allora, Roma è la città
del potere: quello dei grandi palazzi della politica, delle stanze
affrescate e cariche di spiritualità del Vaticano e quello, infine,
della strada, dove la criminalità continua da sempre a cercare la via
più diretta per imporre a tutti la propria legge. Il film è la storia di
una grande speculazione edilizia, il Water-front, che trasformerà il
litorale romano in una nuova Las Vegas. Per realizzarla servirà
l’appoggio di Filippo Malgradi (Pierfrancesco Favino), politico corrotto
e invischiato fino al collo con la malavita, di Numero 8 (Alessandro
Borghi), capo di una potentissima famiglia che gestisce il territorio e,
soprattutto, di Samurai (Claudio Amendola), il più temuto
rappresentante della criminalità romana e ultimo componente della Banda
della Magliana. Ma a generare un inarrestabile effetto domino capace di
inceppare definitivamente questo meccanismo saranno, in realtà, dei
personaggi che vivono ai margini dei giochi di potere come Sebastiano
(Elio Germano), un PR viscido e senza scrupoli, Sabrina un’avvenente
escort (Giulia Elettra Gorietti), Viola (Greta Scarano) la fidanzata
tossicodipendente di Numero 8 e Manfredi (Adamo Dionisi) il capoclan di
una pericolosa famiglia di zingari.” (dal presskit). </div>
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<a href="http://www.spietati.it/public/Suburra_ab_3.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Suburra_ab_3.jpg" width="250" /></a>Esistono almeno due modi di considerare <strong>Suburra</strong>:
il primo - che rispecchia in maniera ragionevolmente fedele
l’atteggiamento di chi scrive - consiste nel rimanere sostanzialmente
indifferenti al cinema squadernato dal film: cinema bullo e
romanocentrico, roboante e pieno zeppo di facce note, sempre uguale a se
stesso perché sempre un po’ diverso. Un cinema che mette in scena lo
spettacolo della morte ma perfettamente al riparo dalla morte dello
spettacolo. Un cinema che racconta il racconto della corruzione
pretendendo di raccontare la corruzione stessa. Cinema della
mistificazione sistematica, della simulazione invulnerabile: anziché
rielaborare la tragedia in narrazione, la spettacolarizza compiacendosi
del proprio segno da farsa grottesca. Un cinema in cui ogni elemento è
assoggettato e docilmente obbediente al primato della convenzione e
della resa effettistica: celebrazione impeccabile di una credibilità
esclusivamente stereotipata e caricaturale. Cinema dell’overacting anche
quando - soprattutto quando - la recitazione assume pose trattenute e
interiorizzate (vedasi Amendola). Cinema del dialetto capitolino come
indice di veracità, cinema che scimmiotta modelli americani (Scorsese,
Mann, <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=4446" target="“_blank”"><strong>Il cattivo tenente</strong></a>
di Abel Ferrara) assimilando stilemi seriali e scaraventandoli in
un’impaginazione da graphic novel. Cinema di dialoghi fieramente
folkloristici, musiche di rinforzo e montaggi alternati di inossidabile
dualismo (carezza e bacio al figlio dormiente, incatenamento e lancio
del cadavere zavorrato). Cinema totalmente innocuo, infine, perché
lascia lo spettatore esattamente dove e come si trovava prima di essere
sequestrato per 130’. Risultato? L'indifferenza più imperturbabile.
Questo l’atteggiamento di chi non accetta le regole del gioco postulate
dal film di Stefano Sollima.</div>
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<a href="http://www.spietati.it/public/Suburra_ab_4.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Suburra_ab_4.jpg" width="250" /></a>Il
secondo modo, legittimo quanto il primo e forte degli stessi titoli di
nobiltà (la facoltà di incanaglirsi liberamente è garantita dalla carta
dei diritti dello spettatore), risiede nell’accettare più o meno
consapevolmente le regole del gioco - altri le chiamerebbero senza
esitazioni regole di genere - e godersi lo spettacolo sontuosamente
allestito da Sollima, Petraglia, Rulli, Bonini e De Cataldo, abilmente
spalleggiati dalla poderosa fotografia di Paolo Carnera (illuminazione e
cromatismi di indiscutibile virtuosismo), dalle certosine scenografie
di Paki Meduri (dall’emiciclo parlamentare alle stanze vaticane,
passando per ville al neon o arredi sfarzosamente eclettici) e dal
montaggio incalzante di Patrizio Marone (l’orchestrazione visiva della
sparatoria nel supermercato, l’implacabilità della carneficina nelle
baracche dei pescatori). Un atteggiamento, questo, che vedrà
plausibilmente inverarsi in <strong> Suburra</strong> un affresco nero
di sconcertante attualità in grado di reinventare la cinecriminalità
italiana, trasportando sul grande schermo l’irruenza ritmica della
migliore fiction e trascinando lo spettatore, con tecnica di rara
maestria ma sempre al servizio dell’emozione e dell’intensità
drammatica, nel melmoso abisso di un’Apocalisse che non salva niente e
nessuno. Un universo marcio e dai giorni contati nel quale Favino,
Germano e Amendola si superano letteralmente in prove attoriali da
applausi a scena aperta, peraltro affiancati da impressionanti
interpreti della nuova generazione quali Alessandro Borghi, Giacomo
Ferrara, Giulia Elettra Gorietti e, soprattutto, Greta Scarano, che con
la sua Viola dà vita a un personaggio indomito e tormentato capace di
riparare i torti subiti con una vendicatività tanto furente quanto
inesorabile. Una guerra senza quartiere e senza esclusione di colpi,
infine, irrobustita dalle sonorità dream pop e shoegaze degli M83. Se si
sta al gioco, insomma, ci si gode lo spettacolo di questa accattivante
“Settimana dell’Apocalisse” con voluttuosa e più che soddisfacente
adesione.</div>
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<a href="http://www.spietati.it/public/Suburra_ab_5.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Suburra_ab_5.jpg" width="250" /></a>Un
terzo atteggiamento, puramente ipotetico ma verosimilmente più
interessante dei due sopra sbozzati, si lascia infine sollecitare (e
solleticare) dalla massiccia presenza di segnali necrotici che, in
maniera più o meno deliberata, costellano il corpo e i corpi di <strong>Suburra</strong>.
Una fitta serie di ferite mortali inferte sul tessuto filmico che,
colpendo senza pietà i corpi depositari di tradizioni cinematografiche e
pratiche consolidate dell’audiovisivo, fanno piazza pulita delle
concezioni incarnate da questi ectoplasmi in carne e celluloide. Si
tratta di una lettura sintomatica che, praticando una sorta di
necroscopia sulla salma <strong>Suburra</strong>, rileva una lunga lista
di cadaveri eccellenti. Innanzitutto il cinema italiano dagli anni ’80
in poi, sacrificato nella doppia eliminazione di Antonello Fassari e
Claudio Amendola: il primo suicida poiché incapace di comunicare col
figlio Sebastiano/Germano (il dialogo tra i due è un campionario di
incomprensioni più che un passaggio di testimone: “È stato uno sbaglio
farti venire qui”, sussurra rassegnato Fassari), il secondo giustiziato
con determinazione punitiva da Viola/Scarano, che liquida il tentativo
di patteggiare in extremis del Samurai, palese residuo di una
cinecriminalità ormai normalizzata, con un sarcastico “La prossima
volta!”. Altro cadavere: le serie televisive, freddate con l’esecuzione
di Numero 8/Borghi da parte di quello stesso cinema, il
Samurai/Amendola, che soccomberà davanti all’unica sopravvissuta di
questa ecatombe cinematografica. Il regolamento di conti non risparmia
il cinema italiano contemporaneo, esemplarmente rappresentato dal
binomio Favino/Germano: un cinema lasciato in vita soltanto formalmente
ma severamente offeso sia sotto il profilo fisico (nell’impietosa e
brutale animalità di Filippo Malgradi e nella repellente viscidità di
Sebastiano) che sotto quello morale (Favino puttaniere strafatto e
politico senza scrupoli, il giovane favoloso Germano convertito alle
delizie del lenocinio e della delazione). Un bodycount cinematografico
che, avvolto nel sudario di una recitazione smaccatamente necrofila e
marionettistica, fa di <strong>Suburra</strong> uno slasher sotto
mentite spoglie: Viola, finalmente trasfigurata in eroina da graphic
novel, esce dall’inquadratura lasciando dietro di sé il vuoto, irrorato
di pioggia e sangue.</div>
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Un ringraziamento a Elisa Schiavi per il suggerimento della terza chiave di lettura.</div>
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Pubblicata su www.spietati.it.</div>
ABhttp://www.blogger.com/profile/05384764352572794697noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9104073176553617908.post-70570255959536498362015-10-08T13:34:00.000-07:002015-10-08T13:34:59.812-07:00SICARIO<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Sicario_ab_1.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Sicario_ab_1.jpg" width="200" /></a> </div>
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“In una zona di confine tra Stati Uniti e Messico, dove la legge non
conta, Kate (Emily Blunt) è un’agente dell’FBI giovane e idealista,
arruolata dal funzionario di una task force governativa per la lotta
alla droga (Josh Brolin) per compiere una missione speciale. Sotto la
guida di un ambiguo e impenetrabile consulente (Benicio Del Toro) la
squadra parte per un viaggio clandestino, costringendo Kate a mettere in
discussione tutto ciò in cui crede per riuscire a sopravvivere.” (dal
presskit). </div>
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<a href="http://www.spietati.it/public/Sicario_ab_3.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Sicario_ab_3.jpg" width="250" /></a>Se per il <i>mind game movie</i> <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=5621" target="“_blank”"><strong>Enemy</strong></a> si è resa necessaria una lettura dettagliata e approfondita, per <strong>Sicario</strong>, altro film di marcata impronta hollywoodiana alla stregua di <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=4939" target="“_blank”"><strong>Prisoners</strong></a>
, non mette conto, secondo chi scrive, lanciarsi in elucubrazioni
analitiche particolarmente sofisticate. Col settimo lungometraggio del
cineasta canadese Denis Villeneuve ci troviamo precisamente in quella
zona grigia che, per usare una formula convenzionale e risaputa quanto
il film, suolsi definire “blockbuster d’autore” (una di quelle
espressioni che non significano assolutamente nulla se non suggerire una
paradossale e contraddittoria coesistenza nobilitante di concezione
commerciale e tocco autoriale). Non che Villeneuve si impegni poco o che
la vicenda di Kate (Emily Blunt), Matt (Josh Brolin) e Alejandro
(Benicio Del Toro) non presenti elementi che chiamino in causa la sua
principale ossessione (ancora una volta è il caso, inteso come
coincidenza e destino, a decidere la sorte degli individui che si
affannano inutilmente), ma la scrittura prefabbricata di Taylor Sheridan
e l’inviolabile armatura spettacolare del film pregiudicano
irrimediabilmente qualsiasi scarto sostanziale dalla norma a cui i
thriller statunitensi ci hanno abituati (e assuefatti) ormai da decenni.
Quando i dialoghi nelle stanze del potere somigliano a scambi da
giardino d’infanzia e la questione di fondo che attraversa la pellicola
si riduce alla trita domanda “Il fine giustifica i mezzi?”, c’è poco da
fare: non rimane che affidarsi al fenomeno della persistenza retinica e
disattivare le sinapsi.</div>
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<a href="http://www.spietati.it/public/Sicario_ab_4.jpeg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Sicario_ab_4.jpeg" width="250" /></a>Occorre
tuttavia osservare che Denis Villeneuve possiede un indiscutibile
talento visivo e, soprattutto, ha il dono di saper creare relazioni
conflittuali tra spazio e personaggi che non sviliscono l’ambiente a
semplice contenitore dell’azione: basti pensare alla lunga e
determinante sequenza iniziale in cui avviene il ritrovamento fortuito
della “casa della morte” (la casualità non è mai innocente nei film di
Villeneuve, è sempre dominata da un principio superiore) o
all’altrettanto corposa sequenza della trasferta a Juárez, nella quale
l’ostilità latente che permea l’intero viaggio sfocia in uno scontro a
fuoco egregiamente orchestrato. Ma questi pezzi di bravura, ai quali si
stenta ad associare la parte notturna girata con le termocamere (di
sapore smaccatamente videoludico, scaffale first-person shooter),
s’incastonano nel film come sparute gemme su una montatura dozzinale,
restando allo stadio di mero ornamento formale. Detto altrimenti, queste
esibizioni di destrezza registica non coinvolgono lo stile inteso come
trattamento <i>complessivo</i> della materia cinematografica (dalla
scrittura alla postproduzione), ma si limitano ad abbellire la parte più
esteriore e visibile della pellicola (non sorprende quindi che siano
proprio queste due sequenze a essere sfoggiate orgogliosamente nel <a href="https://www.youtube.com/watch?v=uUHX2or3pOQ" target="“_blank”">trailer ufficiale</a>). Lo stesso dicasi per il <a href="http://noisey.vice.com/blog/stream-the-new-sicario-by-composer" target="“_blank”">soundtrack</a>
potente e tellurico, quasi industrial/noise in alcuni passaggi, di
Jóhann Johansson e per la virtuosistica fotografia di Roger Deakins
(alla seconda collaborazione con Villeneuve dopo <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=4939" target="“_blank”"><strong>Prisoners</strong></a>):
anziché modellare in profondità la sostanza del film, vi si appiccicano
esternamente come gradevoli motivi decorativi. Ciononostante, di fronte
a una sceneggiatura che ammannisce a getto continuo situazioni di
adamantina convenzionalità (il rapporto tra Kate e il partner Reggie,
l’abbordaggio formidabilmente sospetto nel pub dell’irresistibile Ted,
le continue e sempre più brutali strigliate di Matt, il regolamento di
conti nella casa del boss messicano e, apoteosi finale, la minaccia a
mano armata del dannato Alejandro), ogni tentativo di traghettare la
pellicola verso destinazioni meno note e frequentate finisce per colare a
picco insieme allo spettacolare blocco che trasporta. Presentato in
concorso al 68º Festival di Cannes.</div>
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<br /></div>
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Pubblicata su www.spietati.it.</div>
ABhttp://www.blogger.com/profile/05384764352572794697noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9104073176553617908.post-22322932977927168072015-10-08T13:27:00.000-07:002015-10-08T13:30:05.014-07:00ENEMY<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Enemy_ab_1.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Enemy_ab_1.jpg" height="320" width="216" /></a><br />
<br />
“Adam, un professore discreto, conduce una vita tranquilla con la
fidanzata Mary. Il giorno in cui scopre il suo sosia perfetto nella
persona di Anthony, un attore stravagante, sente una profonda
inquietudine. Inizia allora a osservare a distanza la vita di questo
uomo e della sua misteriosa moglie incinta. Poi Adam si mette a
immaginare i più fantastici scenari per sé e la propria coppia.” (dal
presskit). </div>
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Quella che segue non è una recensione, ma un'indagine interpretativa
del film in questione. Si suggerisce caldamente la lettura soltanto a
visione avvenuta, dal momento che l'indagine stessa, come ogni inchiesta
degna di questo nome, non sarebbe stata possibile omettendo snodi
centrali e passaggi salienti della trama. Detto altrimenti e più
chiaramente, ciò che segue si rivolge esclusivamente a chi abbia visto
il film e sia disposto ad avventurarsi - non dico a condividerla, non mi
spingerei a tanto - nella mia proposta interpretativa.</div>
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<a href="http://www.spietati.it/public/Enemy_ab_3.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Enemy_ab_3.jpg" width="250" /></a>Quinto lungometraggio del cineasta canadese Denis Villeneuve, <b>Enemy</b> conferma quanto ipotizzato nella recensione di <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=4939" target="“_blank”"><b>Prisoners</b></a>: mentre quest’ultimo era un film spettacolare e pressoché anonimo al servizio della macchina hollywoodiana, <b>Enemy</b>
è una produzione canadese indipendente e, soprattutto, una pellicola
inequivocabilmente personale (“il mio film più personale”, secondo le
dichiarazioni di Villeneuve). Presentato l’8 settembre al Toronto
International Film festival del 2013 a due soli giorni dalla proiezione
di <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=4939" target="“_blank”"><b>Prisoners</b></a> e non distribuito in Italia, <b>Enemy</b> è la libera trasposizione cinematografica del romanzo <i>L’uomo duplicato</i>
(2002) di José Saramago (pubblicato in Italia prima da Einaudi e poi da
Feltrinelli con la traduzione di Rita Desti). Una trasposizione che lo
sceneggiatore Javier Gullón, naturalmente in sintonia con Villeneuve, ha
concepito all’insegna del tradimento letterale e della fedeltà
sostanziale. Al di là di alcune variazioni più o meno rilevanti
(spostamento geografico e cronologico, riduzione di alcune dinamiche
relazionali, finale diverso e aggiunta del motivo simbolico del ragno),
film e romanzo si specchiano difatti l’uno nell’altro pur mantenendo la
loro singolarità e la loro autonomia (cosa che del resto avviene anche
nella duplice vicenda raccontata).</div>
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<a href="http://www.spietati.it/public/Enemy_ab_4.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Enemy_ab_4.jpg" width="250" /></a>Senza
dilungarsi eccessivamente sul lavoro di adattamento, corre tuttavia
l’obbligo di osservare che il romanzo di Saramago possiede una scrittura
palesemente anticinematografica: non tanto per la carenza di elementi
visivi o di una linea narrativa ben definita, quanto piuttosto per la
sinuosità dello stile letterario. Abolendo la distinzione tra discorso
diretto e indiretto e moltiplicando le contorsioni introspettive, lo
stile di Saramago poggia il suo baricentro proprio in questa fluidità
discorsiva che da una parte permette l’adozione di prospettive variabili
(si entra ed esce dalla testa dei personaggi con la stessa disinvoltura
con la quale, all’occorrenza, si sorvola l’universo descritto con uno
sguardo disincarnato) e, dall’altra, impregna l’intero dettato narrativo
della sensibilità tendente al farneticamento immaginativo del
protagonista. Non si tratta, a rigore, di un vero e proprio flusso di
coscienza, ma di un tappeto discorsivo apparentemente omogeneo che, se
osservato da vicino, si rivela composto da fili che lo attraversano a
diverse altezze e profondità. Malgrado la lunghezza del brano e a
esemplificazione di quanto appena detto, mette conto riportare
integralmente il passo del romanzo nel quale Maria da Paz (Mary/Mélanie
Laurent nel film), la fidanzata di Tertuliano Máximo Afonso (Adam/Jake
Gyllenhaal nel film), pronuncia la frase “Il caos è un ordine da
decifrare”, frase posta in esergo al romanzo e attribuita a un
immaginario <i>Libro dei contrari</i> da Saramago e collocata subito dopo il prologo con la telefonata materna nel film di Villeneuve.<br />
[Per non appesantire ulteriormente la lettura, il corposo passaggio si trova nel seguente paragrafo.]</div>
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<a href="http://www.spietati.it/public/Enemy_ab_5.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Enemy_ab_5.jpg" width="250" /></a></div>
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“Si
sono separati lentamente, lei ha accennato un sorriso, lui ha accennato
un sorriso, ma noi sappiamo che Tertuliano Máximo Afonso ha un'altra
idea in testa, e cioè sottrarre alla vista di Maria da Paz, il prima
possibile, i fogli rivelatori, per cui non c'è da stupirsi che l'abbia
quasi spinta in cucina, Vai, vai a fare il caffè mentre io metto un po'
di ordine in questo caos, e allora è accaduto l'inaudito, come se non
desse importanza alle parole che le uscivano di bocca o come se non le
capisse completamente, lei ha mormorato, Il caos è un ordine da
decifrare, Cosa, cos'hai detto, domandò Tertuliano Máximo Afonso, che
aveva già la lista dei nomi in salvo, Che il caos è un ordine da
decifrare, Dove l'hai letto, da chi l'hai sentito, Mi è venuto in questo
momento, non credo di averlo mai letto, e, quanto ad averlo udito, sono
sicura di no, Ma come mai ti è venuta una frase del genere, Cos'ha di
speciale questa frase, Moltissimo, Non so, forse perché il mio lavoro in
banca si fa con cifre, e le cifre, quando si presentano mescolate,
confuse, possono apparire come elementi caotici a chi non le conosca,
eppure in loro c'è, latente, un ordine, in realtà credo che le cifre non
abbiano senso al di fuori di un qualsiasi ordine si dia loro, il
problema sta nel saperlo trovare, Qui non ci sono cifre, Ma c'è caos,
sei stato tu a dirlo, Un po' di video fuori posto, nient'altro, E anche
le immagini che vi sono dentro, le une accostate alle altre in modo da
raccontare una storia, cioè, un ordine, e i successivi caos che
formerebbero se le disperdessimo prima di riaccostarle per organizzare
storie diverse, e i successivi ordini che così otterremmo, sempre
lasciando dietro un caos ordinato, sempre avanzando in un caos da
ordinare, I segnali ideologici, ha detto Tertuliano Máximo Afonso, poco
sicuro che il riferimento venisse a proposito, Sì, i segnali ideologici,
se vuoi, Dai l'impressione di non credermi, Non importa se ti credo o
non ti credo, lo saprai tu cosa stai cercando, Ciò che stento a capire è
come tu abbia fatto questa scoperta, l'idea di un ordine contenuto nel
caos e che al suo interno può essere decifrato, Vuoi dire che in tutti
questi mesi, da quando è iniziata la nostra relazione, non mi hai mai
considerato abbastanza intelligente da avere delle idee, Macché, non si
tratta di questo, tu sei una persona molto intelligente, eppure, Eppure,
non hai bisogno di terminare, meno intelligente di te, e, chiaramente,
mi manca la buona preparazione di base, sono una povera impiegata di
banca, Smettila di ironizzare, non ho mai pensato che fossi meno
intelligente di me, voglio solo dire che questa tua idea è assolutamente
sorprendente, In me inaspettata, In un certo qual modo, sì, Lo storico
sei tu, ma credo di sapere che i nostri antenati hanno cominciato a
essere abbastanza intelligenti per avere delle idee solo dopo aver avuto
quelle idee che li resero intelligenti, Ora te ne vieni fuori anche con
i paradossi, passo da uno stupore all'altro, disse Tertuliano Máximo
Afonso, Prima che tu finisca per trasformarti in una statua di sale,
vado a fare il caffè, sorrise Maria da Paz, e mentre camminava nel
corridoio che la conduceva in cucina stava dicendo, Metti in ordine il
caos, Máximo, metti in ordine il caos.”, (pp. 88-89).</div>
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<a href="http://www.spietati.it/public/Enemy_ab_6.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Enemy_ab_6.jpg" width="250" /></a>Ebbene,
il difficile lavoro di riduzione (non a caso porta questo nome)
compiuto da Gullón e Villeneuve è consistito essenzialmente nel ridurre
all’osso la tendenza verbigerante che di fatto costituisce la forza
espressiva del romanzo, oggettivando visivamente la duplice ossessione
del protagonista senza l’ausilio di voci interiori o delucidazioni
introspettive (e adesso sappiamo quanto siano importanti nell’economia
stilistica del libro), sopprimendo totalmente il dialogo intimo e
ininterrotto tra Tertuliano e il buon senso (autentico interlocutore non
interpellato e rumoroso disturbatore dei soliloqui dell'uomo duplicato)
e, infine, mantenendo in vita soltanto gli scambi verbali strettamente
necessari allo sviluppo e alla comprensione del disegno narrativo. Il
tutto senza frantumare o snaturare irrimediabilmente la struttura
profonda del testo di partenza, una struttura saldamente imperniata
sulla nozione di destino come forza inarrestabile che travolge le
imbelli esistenze umane, presentandosi sotto forma di pura e semplice
necessità: proprio quella necessità che, osserva Saramago, “è uno dei
nomi che prende il destino quando gli conviene camuffarsi.” (p. 242) . È
dunque solo a questo grado di profondità che la sovrapposizione tra
necessità e destino si lascia vedere distintamente e afferrare con
sicurezza. Ed è esattamente su questa riduzione all’osso - o meglio
proprio in virtù di essa - che Villeneuve ha innestato le due grandi
variazioni personali: l’ossessione del controllo collettivo
(rappresentato dalla ripetizione dello schema repressivo adottato dalle
dittature) e quella del controllo individuale esercitato dal subconscio,
incarnato precisamente e reiteratamente dalla madre-tarantola (non
sfugga la fonte d’ispirazione, riconosciuta dallo stesso Villeneuve, per
la rappresentazione dell’enorme ragno che incombe sulla metropoli
avvolta nello smog: la gigantesca scultura <a href="https://en.wikipedia.org/wiki/Maman_%28sculpture%29" target="“_blank”"><i>Maman</i></a> di Louise Bourgeois).</div>
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<a href="http://www.spietati.it/public/Enemy_ab_7.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Enemy_ab_7.jpg" width="250" /></a>Se
è vero che entrambe le ossessioni, ancorché in maniera larvale o
disseminata, si trovano già nel libro, è altrettanto vero che, nel film,
queste si concretizzano figurativamente con impressionante incisività
(dai fili aerei del tram che, intersecandosi, disegnano una tela sospesa
ai graffiti seriali che, in stile Banksy, raffigurano silhouette di
impiegati-cloni, passando per gli schemi tentacolari disegnati sulla
lavagna dal professore di storia) e, soprattutto, assumono inflessioni
squisitamente personali. L’ossessione repressiva acquisisce inquietanti
tratti stereotipici, intrinsecamente legati al timore della ripetizione
sterile e dell’involuzione creativa del cineasta stesso, e
l’inquietudine per l’esigente autoritarismo materno si converte nella
minacciosa e pervasiva presenza di ragni e ragnatele, caricandosi così
di forti e allarmanti risonanze psichiche (peraltro totalmente assenti
nella scultura di Louise Bourgeois, nella quale la madre-ragno
rappresenta esclusivamente qualità positive come intelligenza, pazienza,
utilità, protezione e via seguitando). Villeneuve non mente quando
sostiene che il modo migliore per definire <b>Enemy</b> è
quello di considerarlo come un “documentario sul subconscio di Jake
Gyllenhaal”, ovviamente riferendosi al doppio personaggio da lui
interpretato, e quando aggiunge che il film non è altro che
“l’esplorazione dell’intimità maschile”, calcando ulteriormente la mano
sulle dinamiche intrapsichiche messe in scena dalla pellicola.</div>
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<a href="http://www.spietati.it/public/Enemy_ab_8.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Enemy_ab_8.jpg" width="250" /></a>Del resto è lo stesso Villeneuve, <a href="https://www.youtube.com/watch?v=T-B4IJcJ37s" target="“_blank”">in un'intervista rilasciata a una testata canadese</a>,
a fornire una chiave di lettura psichicamente orientata: "È una storia
molto semplice: è un uomo che decide di lasciare l'amante e tornare
dalla moglie incinta. E noi vediamo la storia dal punto di vista del suo
subconscio". Il che equivale a dire che si tratta non tanto della
"storia di un uomo che…", quanto, più precisamente, della "storia del
subconscio di un uomo che…". L'intero film, difatti, è costruito come
un enigma, un puzzle o, più precisamente, come un <i>mind game movie</i> secondo la definizione formulata da Thomas Elsaesser e Malte Hagener in <i>Teoria del film</i> (Einaudi, Torino, 2009): "Il principio strutturale dei <i>mind game movies</i>
consiste nel trascinare gli spettatori nel mondo del protagonista, e
ciò in un modo che sarebbe impossibile se la narrazione guadagnasse
distanza (…)", pp. 171-172. Una pellicola, insomma, la cui proprietà
principale consiste nel giocare con lo spettatore e la sua percezione
della realtà, ovviamente quella offerta dal film stesso: non è fortuito
che Villeneuve indichi tra i suoi titoli preferiti film-enigma come <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=1427" target="“_blank”"><b>Mulholland Drive</b></a>, <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=3108" target="“_blank”"><b>2001: Odissea nello Spazio</b></a> o <b>L'inquilino del terzo piano</b>,
film che propongono immagini potenti sul piano emotivo e che, al
contempo, ingaggiano gli spettatori nella ricerca di un significato che,
naturalmente, non sarà mai lo stesso per ciascuno di loro. Quella
tessuta da <b>Enemy</b>, insomma, è una ragnatela di segni
(chiedo venia per l’immagine scontata) che, al di là del suo potere
d'irretimento fascinatorio, suggerisce una meticolosa elaborazione
psichica e reclama la formulazione di un'ipotesi interpretativa
eminentemente mentale.</div>
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<a href="http://www.spietati.it/public/Enemy_ab_9.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Enemy_ab_9.jpg" width="250" /></a>Impossibile,
difatti, non scorgere nel personaggio duplicato interpretato da
Gyllenhaal con finissima sensibilità attoriale e nella figura materna
incarnata da Isabella Rossellini la rappresentazione delle tre istanze
psichiche di un solo individuo: Es, Io e Super-Io. Se l’identificazione
tra Anthony (attore infedele e lussurioso) ed Es è fin troppo pacifica,
quella tra il bonario e monotono insegnante di storia Adam e l’Io,
nonché quella tra la severa madre e il Super-Io, non sembra presentare
difficoltà sensibilmente maggiori (basti pensare all’eloquente e
perentorio dialogo nella casa-atelier della genitrice). Tuttavia il
Super-Io impregna di sé, per proprietà transitiva, la maternità in
quanto tale. Nel prologo, subito dopo la telefonata della madre, la
presenza apparentemente immotivata di Helen (Sarah Gadon) al sesto mese
di gravidanza, seduta sul letto e con lo sguardo rivolto verso la
camera, non lascia spazio a dubbi: le due donne condividono lo stesso
luogo psichico e le medesime funzioni mentali, vale a dire la
disposizione all’ordine e la propensione al controllo (Helen,
diffidente, fruga nei pantaloni del marito mentre lui dorme e, senza
dire niente al coniuge, non si fa scrupolo di andare sul posto di lavoro
del fantomatico sosia). Un’identificazione, quella tra le due donne,
che si rinsalda nel prefinale, quando Helen, esplicita portavoce della
madre, ricorda al marito che lei ha telefonato e che lui dovrebbe
richiamarla: preludio più che comprensibile alla sconcertante
trasfigurazione terminale in cui è Helen stessa a tramutarsi in
tarantola, chiudendo definitivamente il cerchio superegoico femminile.</div>
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<a href="http://www.spietati.it/public/Enemy_ab_10.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Enemy_ab_10.jpg" width="250" /></a>Dunque, alla luce di queste considerazioni, che cosa racconta <b>Enemy</b>?
Senza dubbio ciò che asserisce Villeneuve (la storia del subconscio di
un uomo che lascia l’amante e decide di tornare dalla moglie incinta),
ma con la decisiva precisazione che per portare a termine il suo
proposito uccide il proprio Es e si dà completamente in pasto al
Super-Io. Lo spaventoso epilogo, nel quale Helen assume improvvisamente
le fattezze della tarantola-madre ci mostra le conseguenze di questa
soppressione autolesionistica: la mutilazione psichica praticata dal
senso di colpa (l’uomo si scusa apertamente con la moglie,
abbandonandosi completamente a lei) lo priva letteralmente del suo Es
(alla richiesta di restare formulata da Helen, Adam visualizza, o meglio
genera mentalmente, l’incidente in cui periscono Anthony e Mary).
Sicché, quando si trova nuovamente in mano la possibilità della
trasgressione (la chiave del club erotico nel quale lo abbiamo visto
entrare all'inizio del film), non dispone più della complicità del suo
Es, non può più effettuare la metamorfosi in Anthony: ormai è solo col
suo Super-Io. L'ipotesi trasgressiva, al contrario e conseguentemente
alla mutilazione avvenuta, scatena inevitabilmente la metamorfosi
inversa: trasfigura Helen in tarantola, oggettivando plasticamente la
sola istanza mentale con la quale il suo Io è - e sarà - costretto a
confrontarsi. Lo sguardo conclusivo di Adam, intriso di rassegnazione
anziché di stupefatto terrore, sigilla ermeticamente il suo orizzonte
mentale e decreta la sua resa incondizionata. D’ora in poi l’insorgenza
del pensiero trasgressivo produrrà, per contraccolpo e in mancanza di
un’istanza che lo prenda in carico, la visione intimidita della
tarantola-madre-moglie (paradossalmente a essere spaventato è proprio il
gigantesco aracnide, segno che è perfettamente al corrente delle
intenzioni dell’uomo).<br />
Ricapitolando: sovrapposizione di necessità e
destino da una parte (vero e proprio nucleo creativo del cinema di
Villeneuve) e declinazione marcatamente intrapsichica delle dinamiche
narrative dall’altra (nel libro Helena non è incinta e il finale
differisce radicalmente, spostando l'intera narrazione più sul versante
surreale che su quello mentale). Sono questi gli aspetti che il cineasta
canadese sviluppa e interpreta personalmente nella trasposizione
filmica.</div>
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<a href="http://www.spietati.it/public/Enemy_ab_11.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Enemy_ab_11.jpg" width="250" /></a>Ispirandosi
alla scabra essenzialità dell'architettura brutalista, un'architettura
che privilegia volumi con cemento a vista e pone l’accento sulle
nervature strutturali (il college nel quale insegna Adam è in realtà
l'University of Toronto Scarborough Campus, uno dei numerosi esempi di
brutalismo presenti nella metropoli canadese), l'estetica di <b>Enemy</b>
possiede un'impronta tecnicamente granitica che consolida la continuità
visiva (fotografia ambrata, movimenti di macchina lenti e misurati,
illuminazione giallastra) e che, grazie alle frequenti riprese aeree,
ricava da Toronto una spazialità massiccia e stilizzata al tempo stesso.
“Toronto è una città molto cerebrale, è come un'idea”, <a href="http://www.tribute.ca/interviews/denis-villeneuve-enemy/director/36738/" target="“_blank”"> ha affermato Villeneuve</a> chiamando in causa <a href="http://www.spietati.it/speciali/proibiti/crash.htm" target="“_blank”"><b>Crash</b></a> di David Cronenberg e <a href="http://www.imdb.com/title/tt0156729/" target="“_blank”"><b>Last Night</b></a> di Don McKellar, i due soli titoli che a suo avviso hanno reso giustizia alla città. In <b>Enemy</b>
questa affermazione si fa vigorosamente cinema, traendo il massimo
partito dalla singolarità architettonica e urbanistica della metropoli
canadese (troppo spesso usata per simulare scenari statunitensi),
qualificandola integralmente come luogo mentale (non un solo spazio è
scevro da risonanze psichiche) e, infine, facendo dell'intera vicenda il
confronto implacabile tra un uomo e una città di vetro e cemento
(l’inquadratura iniziale è una panoramica orizzontale sullo skyline di
Toronto e i bellissimi titoli di coda passano in rassegna le prospettive
e i giochi volumetrici disegnati dai grattacieli che torreggiano nella
metropoli). Insieme a <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=2847" target="“_blank”"><b>Polytechnique</b></a>, altra pellicola incentrata sul confronto tra uomo e spazio, il miglior film del cineasta canadese.</div>
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Pubblicata su www.spietati.it. </div>
ABhttp://www.blogger.com/profile/05384764352572794697noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9104073176553617908.post-43186967468020871482015-09-02T13:45:00.001-07:002015-09-02T13:50:10.370-07:00DEALER <div style="text-align: justify;">
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<a href="http://www.spietati.it/public/Dealer_1_ab.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Dealer_1_ab.jpg" width="200" /></a></div>
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In una metropoli imprecisata, uno spacciatore trascorre una sfibrante
giornata di incontri e consegne, pedalando da una parte all’altra della
città con la sua bicicletta e il marsupio pieno di stupefacenti.<br />
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<a href="http://www.spietati.it/public/Dealer_2_ab.JPG" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Dealer_2_ab.JPG" width="250" /></a>Non
vi è niente di più distante dall’idea di nichilismo nel cinema di
Benedek Fliegauf. Tutti i suoi film sembrano dirci questo: l’essere
umano non è autosufficiente, occorre che ci sia qualcuno che se ne
prenda cura. Altrimenti la sua natura degrada a quella di automa,
oggetto inanimato, elemento minerale: è ciò che esemplifica <a href="https://www.youtube.com/watch?v=E6Q66jKYlaA" target="“_blank”"><b>A sor</b></a>
(2004), cortometraggio che rappresenta esplicitamente la sorte dei
bambini trascurati (dimenticati a scuola dai genitori, si trasformano in
manichini allineati in uno stanzone sotterraneo). Il concetto chiave è
quello di sollecitudine: prendersi cura dell’altro diviene non soltanto
il modo di scongiurare questa degradazione, ma anche la maniera di
suggerire indirettamente una visione olistica delle cose, l’intimo
legame tra il singolo e il tutto («The most important phrase in my
current philosophy is “Everything is one”», affermava Fliegauf nel
2004).<br />
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<a href="http://www.spietati.it/public/Dealer_3_ab.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Dealer_3_ab.jpg" width="250" /></a>Del
resto la centralità del prendersi cura appare chiaramente, seppur
espressa in termini non didascalici, anche nel primo lungometraggio del
cineasta ungherese, quel <a href="http://www.imdb.com/title/tt0358670/?ref_=nm_flmg_dr_12" target="“_blank”"><b>Forest</b></a>
(2003) girato con attori non professionisti/amici (altro dettaglio che
rimanda all’idea di legame) in cui i vari episodi apparentemente
irrelati si rivelano meno disorganici di quanto sembri (si vedano
soprattutto il prologo e l’epilogo nella stazione). Non solo: quasi
tutti i segmenti del film si sviluppano sui concetti di premura e
tenacia degli affetti - nei confronti di un cane, di un essere
indeterminato, di una figlia, di una nonna scomparsa non fa differenza,
la sola cosa che conta è tenere in vita il legame affettivo in tutta la
sua intensità, al di là del convenzionale e immancabile sospetto di
morbosità.</div>
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<a href="http://www.spietati.it/public/Dealer_4_ab.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Dealer_4_ab.jpg" width="250" /></a>Ma, diversamente da <a href="http://www.imdb.com/title/tt0358670/?ref_=nm_flmg_dr_12" target="“_blank”"><b>Forest</b></a>, <b>Dealer</b>
elabora questa premurosa ossessione in termini ancora più impliciti e,
proprio in virtù di questa reticenza, ancora più incisivi. Lo
spacciatore (Felícián Keresztes) messo in scena da Fliegauf è un
soggetto costretto dalla sua attività ad avere continue relazioni con
altri individui: un obbligo che non si limita alla semplice consegna di
sostanze (cocaina, eroina, funghi allucinogeni), ma che, per tutto il
film, lo coinvolge in una serie di operazioni ben più impegnative
(ascolto, ponderazione dei casi, somministrazione e confidenza). Detto
più chiaramente, lo spacciatore tratteggiato da Fliegauf è una figura
che riassume in sé le caratteristiche del medico, dell’infermiere e
dell’amico: un curatore, in una parola (non sfugga il particolare della
sua necessità di trattare personalmente con gli acquirenti: “Faccio
affari solo di persona”, dice al braccio destro del capo spirituale
costipato). Non sfugga, inoltre, che i suoi interventi si configurano,
sin dalle prime battute, come vere e proprie prestazioni di soccorso che
implicano forti responsabilità personali: prima Padre Ujvari (György
Szép) che, in pieno blocco intestinale, è atteso da migliaia di fedeli,
poi l’amico gravemente ustionato che implora la somministrazione di una
dose letale per essere sollevato da sofferenze intollerabili, quindi la
donna (Anikó Szigeti) che dice di aver bisogno di una dose di eroina per
non presentarsi in crisi d’astinenza, il giorno dopo, a un colloquio
con gli assistenti sociali che minacciano di portarle via la figlia.
Questi non sono maneggi da spacciatore, sono prestazioni cliniche tanto
clandestine quanto confidenziali.</div>
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<a href="http://www.spietati.it/public/Dealer_5_ab.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Dealer_5_ab.jpg" width="250" /></a>E se la struttura a mosaico di <a href="http://www.imdb.com/title/tt0358670/?ref_=nm_flmg_dr_12" target="“_blank”"><b>Forest</b></a> risulta ancora visibile in filigrana nell’andatura per microdrammi di <b>Dealer</b>
(B.F.: «It had a similar mosaic-like structure to “Forest”»), nel suo
secondo lungometraggio Fliegauf innesta con maggior forza il fenomeno
della traccia sull’ossessione della sollecitudine. Intesa come impronta,
come impressione lasciata nella mente - e non solo - dalle persone
scomparse, la traccia diventa adesso il segno tangibile che può
mantenere in vita l’affetto nei confronti di qualcuno fisicamente
assente. La traccia - stare attenti - è al tempo stesso mentale e
concreta: un’impronta che impedisce la cristallizzazione affettiva, che
blocca il processo di mineralizzazione dell’essere attualmente assente. È
l’incontro col padre (Lajos Szakács) a chiarire la dinamica che già
s’indovinava in <a href="http://www.imdb.com/title/tt0358670/?ref_=nm_flmg_dr_12" target="“_blank”"><b>Forest</b></a>:
l’anziano genitore vede nella fossa prodotta dalla caduta mortale della
moglie sul marciapiede non tanto una semplice buca fatta dal suo corpo
precipitato dalla finestra di casa, quanto l’impronta reale in cui lei è
ancora presente - “Lei è qui, capito? È solo qui e non nel cimitero, è
solo qui!”, replica perentoriamente al figlio che gli ha appena
ricordato, con risentita banalità, che la vera tomba della madre non è
quella.</div>
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<a href="http://www.spietati.it/public/Dealer_6_ab.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Dealer_6_ab.jpg" width="250" /></a>Indispettito
dallo scetticismo del figlio, il padre gli impone di scendere insieme a
lui: è qui, davanti all’impronta lasciata sul cemento dal corpo madre,
che avviene il passaggio dalla dimensione esclusivamente verbale a
quella visiva e dal piano meramente oggettuale a quello della traccia.
La traccia non è un semplice ricordo, ma un segno tangibile depositatosi
nella materia: un segno suscettibile di evocare chi lo ha lasciato fino
a renderlo di nuovo presente (la stessa dinamica sarà promossa a nucleo
tematico nel fin troppo programmatico <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=4476" target="“_blank”"><b>Womb</b></a>,
film in cui chi ha lasciato il segno viene letteralmente riportato in
vita). Rispetto alla città-necropoli lungo la quale lo spacciatore
pedala ininterrottamente, la piccola fossa ricoperta di acqua stagnante
rivela una potenza evocativa inusitata, trasformandosi sotto i nostri
occhi in materia viva pur restando una pozzanghera chiazzata da macchie
d’olio - “È lì, la vedi? Vedi il suo viso?”, dice il padre; “Quella è
una macchia d’olio”, risponde bruscamente il figlio. La buca sul
marciapiede è al tempo stesso una pozzanghera di acqua oleosa e
un’entità affettivamente vibrante: lo sguardo di Fliegauf ne asseconda
la doppia natura (l’oscillazione tra pozza d’acqua e segno spettrale)
con un movimento di macchina lento e sinuoso che inquadra la superficie
liquida dai contorni cangianti, i riflessi increspati degli alberi e le
crepe sul cemento. Per lo spettatore diventa impossibile non scorgere in
questa pozzanghera grigia e apparentemente insignificante qualcosa di
enigmatico e magnetico: non soltanto uno squallido ristagno d’acqua in
un’infossatura del marciapiede, ma anche un’impronta intimamente animata
e misteriosamente attraente.</div>
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<br /></div>
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</div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Dealer_7_ab.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Dealer_7_ab.jpg" width="250" /></a>In
termini più ampi, questa sequenza risulta cruciale per i risvolti
metacinematografici che racchiude: qui Fliegauf sembra enunciare la sua
concezione di cinema come dispositivo che trattiene l’impronta di ciò
che è stato davanti alla lente della camera e che, adesso, continua a
vivere nelle immagini. E che, soprattutto, è in grado di evocare la
partecipazione emotiva dello spettatore. Alimentata dalla vitalità della
traccia, l’ossessione della sollecitudine travalica dunque il piano del
contenuto per investire pienamente quello dell’elaborazione estetica. È
lo sguardo stesso di Fliegauf a prendersi cura degli esseri ripresi:
esseri che, in virtù della premura audiovisiva con la quale sono
rappresentati (inquadrature lunghe e avvolgenti, sound design ovattato e
immersivo), continuano a evocare affetti e, seppur fisicamente assenti,
a ripresentarsi sotto forma di impronta cinematografica - <a href="http://www.imdb.com/title/tt2180335/" target="“_blank”"><b>Just the Wind</b></a>
(2012), basato su una serie di aggressioni a una comunità rom avvenute
realmente in Ungheria tra il 2008 e il 2009, porterà questa concezione
di cinema empatico in ambito apertamente sociale, rasentando tuttavia il
patetismo e il vittimismo («My aim was to be with the victims. I wanted
to feel what they felt, and even more I wanted to express what they
felt: to be haunted by these murderers and live this danger all day long
just for being a Roma»).</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Pubblicata su www.spietati.it. </div>
ABhttp://www.blogger.com/profile/05384764352572794697noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9104073176553617908.post-36775831331950635022015-06-09T03:30:00.004-07:002015-06-09T03:30:56.336-07:00IL RACCONTO DEI RACCONTI - TALE OF TALES<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Il%20racconto%20dei%20racconti_ab_1.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Il%20racconto%20dei%20racconti_ab_1.jpg" width="200" /></a>"C’era una volta un regno… anzi tre regni vicini e senza tempo, dove
vivevano, nei loro castelli, re e regine, principi e principesse. Un re
libertino e dissoluto. Una principessa data in sposa a un orribile orco.
Una regina ossessionata dal desiderio di un figlio. Accanto a loro
maghi, streghe e terribili mostri,
saltimbanchi, cortigiani e vecchie lavandaie sono gli eroi di questa
libera interpretazione delle celebri fiabe di Giambattista Basile.<br /><br />
La Regina di Selvascura è disperata perché non riesce ad avere un
figlio, e a nulla valgono i tentativi del Re di distrarla, invitando a
corte artisti di strada e circensi. Una notte, un negromante suggerisce
loro una soluzione assai rischiosa: mangiando il cuore di un drago
marino, cucinato da una vergine, finalmente la Regina resterà incinta.
Il Re riesce nell’impresa di uccidere il drago, ma a costo della vita:
la Regina, però, può mettere in pratica quanto consigliato dal mago, e
dà così alla luce il figlio tanto desiderato, Elias. Negli stessi
istanti, anche un altro bambino viene al mondo: è Jonah, il figlio della
sguattera che ha cucinato per la regina il cuore del drago, rimasta
incinta aspirando i vapori dalla pentola… Elias e Jonah crescono,
identici come gemelli, uniti da un affetto profondissimo: un legame che
la regina cerca in ogni modo di spezzare, gelosa dell’amicizia che il
proprio figlio nutre per quel “bastardo”…<br /><br />
Sempre alla ricerca di nuovi piaceri, il Re di Roccaforte ode una voce
deliziosa provenire da una misera casetta sotto le mura del castello e,
immaginando non possa appartenere che a una bellissima giovane, subito
si invaghisce: invoca la fanciulla, le chiede invano di mostrarsi, le
invia un regalo prezioso, convinto di ottenere presto i suoi favori. Non
sa, il Re, che in quella casa non vive una giovane donna, ma due
vecchie sorelle, due lavandaie: Imma, ingenua e dalla voce virginale, e
la scaltra Dora, che vorrebbe approfittare dell’infatuazione del
sovrano. Ma in che modo?<br /><br />
Un giorno il Re di Altomonte cattura una pulce e ne fa in segreto il
proprio animale domestico: ci gioca, le parla, la vede crescere a
dismisura, nutrita a sangue e bistecche fino a raggiungere le dimensioni
di un maiale. Alla morte dell’enorme insetto, il Re, addolorato, lo fa
scuoiare. Ha un’idea: concederà la mano di sua figlia Viola, che
scalpita per lasciare il castello, a chi saprà riconoscere a quale
animale appartenga quella pelle. Pensa, il sovrano, che nessuno riuscirà
nell’impresa, e che in questo modo la figlia resterà per sempre al suo
fianco: i pretendenti, infatti, falliscono tutti, uno dopo l’altro.
Finché non si fa avanti un Orco che, con il suo fiuto infallibile,
indovina che si tratta di una pelle di pulce. Terrorizzata, la giovane
chiede al padre di salvarla, ma l’editto del Re non ammette deroghe:
Viola sarà costretta a partire con il mostro…" (dal pressbook). </div>
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<br /></div>
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<br /></div>
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<a href="http://www.spietati.it/public/Il%20racconto%20dei%20racconti_ab_3.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Il%20racconto%20dei%20racconti_ab_3.jpg" width="250" /></a>Con <strong>Il racconto dei racconti</strong>, libera trasposizione di tre fiabe basiliane (<a href="http://www.alaaddin.it/_TESORO_FIABE/FD_Campania_La_cerva_fatata.html" target="“_blank”"><i>La cerva fatata</i></a>, <a href="http://www.alaaddin.it/_TESORO_FIABE/FD_Campania_Lo_polece.html" target="“_blank”"><i>La pulce</i></a> e <a href="http://www.paroledautore.net/fiabe/classiche/basile/vecchia-scorticata.htm" target="“_blank”"><i>La vecchia scorticata</i></a>),
Matteo Garrone riesce nella difficile impresa di coniugare l’impronta
spettacolare e sfarzosa del genere fantasy con la poetica che ha da
sempre contraddistinto il suo cinema. Non si tratta soltanto di
giustapposizione e coesistenza, ma di vera e propria compenetrazione
estetica: sull’impianto figurativamente lussureggiante del fantasy,
Garrone, spalleggiato da un gruppo di collaboratori di fulgido talento
come Dimitri Capuani alle scenografie, Massimo Cantini Parrini ai
costumi e Leonardo Cruciano al coordinamento degli effetti speciali,
innesta in profondità il proprio repertorio di fantasmi e ossessioni,
generando un peculiare ibrido che da una parte non tradisce alcuna
soggezione nei confronti della materia letteraria di partenza e,
dall’altra, non si lascia irretire dalla fascinazione per l’armamentario
del genere. Detto altrimenti, dalle fiabe di Basile il film di Garrone
trae il gusto per la descrizione immaginifica ma sempre ancorata al dato
concreto e al dettaglio icastico; e dall’apparato visivo del fantasy
ricava la vocazione creativa e ricreativa ma senza soccombere al
decorativismo fine a se stesso.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Il%20racconto%20dei%20racconti_ab_4.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Il%20racconto%20dei%20racconti_ab_4.jpg" width="250" /></a>A
rigore, tuttavia, non ha molto senso parlare di trapianto integrale del
fantasy in territorio italiano, poiché la raccolta di fiabe <a href="http://it.wikipedia.org/wiki/Lo_cunto_de_li_cunti" target="“_blank”"><i>Lo cunto de li cunti</i></a>,
scritta in dialetto napoletano da Giambattista Basile e pubblicata
postuma tra il 1634 e il 1636, si presta perfettamente e naturalmente al
dialogo con la grammatica visuale del genere e, soprattutto, perché il
lavoro di riduzione compiuto da Garrone e dagli altri tre sceneggiatori
(Edoardo Albinati, Ugo Chiti e Massimo Gaudioso) non smarrisce affatto i
legami con la vena materica e sensoriale dell’affabulazione basiliana,
esaltandone al contrario gli aspetti fisici e sanguigni (basti pensare
al pasto cardiaco di Salma Hayek, al nutrimento della pulce di Toby
Jones o al cruento scorticamento di Shirley Henderson). Ad affermarsi
progressivamente è insomma la dimensione fiabesca, una dimensione che,
seppur depositandosi in forme di matrice fantasy (la trasformazione di
Dora in creatura celestiale, la sorgente che sgorga dalla fenditura
dell’albero, la vertiginosa caduta dell’orco nel burrone), non vanifica
gli umori materiali e tangibili scaturiti dalla fonte letteraria a
esclusivo vantaggio della fantasmagoria mirabolante. La meraviglia, fine
per eccellenza della poetica barocca, mantiene in definitiva, nella
pellicola di Garrone, un rapporto vitale e viscerale con una credibilità
non smaterializzata dalla componente fantasy.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Il%20racconto%20dei%20racconti_ab_5.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Il%20racconto%20dei%20racconti_ab_5.jpg" width="250" /></a>Sollecitato
da motivi prevalentemente accidentali, chi scrive ravvisa una simile
commistione di fantastico e realistico in alcune pagine di un libro
totalmente estraneo alla tradizione italiana d’intrattenimento: <a href="http://www.minimumfax.com/libri/scheda_libro/702" target="“_blank”"><i>L’uccello dipinto</i></a> (<i>The Painted Bird</i>,
1965) di Jerzy Kosinski. Pur differendo enormemente dalle fiabe
barocche di Basile tanto sotto il profilo cronologico quanto sotto
quello narrativo, il calvario infantile vissuto dal protagonista del
romanzo di Kosinski si sviluppa in pregevole equilibrio tra iperbole
fantastica, magia popolare e verosimiglianza del cruore: una
triangolazione espressiva chiaramente apprezzabile, ancorché declinata
in modi nettamente distinti, nell’ottavo lungometraggio di Matteo
Garrone (basti menzionare l’altezza spropositata del negromante, la
subitanea gravidanza della vergine e della regina e, infine, lo
sgozzamento dell’orco). Oltre a oggettivarsi nelle fattezze artigianali
delle creature fantastiche - la plasticità del drago marino e della
pulce rievocano il ventre gelatinoso del pescecane del <a href="https://www.youtube.com/watch?v=eO359zTyKLM" target="“_blank”">Pinocchio</a> (1972) di Comencini e le carcasse rambaldiane di <a href="https://www.youtube.com/watch?v=dnRsvOHawdk" target="“_blank”">Terrore nello spazio</a> (1965) di Mario Bava -, la concretezza dell’<i>imagerie</i> che caratterizza <strong>Il racconto dei racconti</strong>
si manifesta puntualmente nella grande quantità di dettagli dal sapore
domestico come la giacca indossata da Jonah (Jonah Lees), gemello di
Elias (Christian Lees), per recarsi nella camera della regina, i
trastulli privati del re di Altomonte (Toby Jones) e il sistema di
carrucole che permette alle due vecchie sorelle (Hayley Carmichael e
Shirley Henderson) di ricevere il regalo del re di Roccaforte (Vincent
Cassel) senza essere viste.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Il%20racconto%20dei%20racconti_ab_6.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Il%20racconto%20dei%20racconti_ab_6.jpg" width="250" /></a>Se
il registro estetico del film, sostenuto dalla fotografia cangiante di
Peter Suschitzky e dal montaggio intrecciato di Marco Spoletini, si
tiene in equilibrio tra dimensione fantastica e realismo, le alterazioni
del <i>Pentamerone</i> rispondono a una doppia esigenza: potenziare la
drammaticità delle narrazioni basiliane e, al contempo, accentuare le
ossessioni squisitamente garroniane (il desiderio di possesso, il
connubio tra amore e violenza, la ricerca esasperata della bellezza, la
metamorfosi e la caducità dei corpi). Un esempio per ciascuna fiaba. Nel
racconto <a href="http://www.alaaddin.it/_TESORO_FIABE/FD_Campania_La_cerva_fatata.html" target="“_blank”"><i>La cerva fatata</i></a>, divenuto <i>La regina</i>
nel film, è il sovrano a desiderare ardentemente la gravidanza della
moglie e, soprattutto, non è lui a uccidere il drago marino, ma sono
cento pescatori mandati in mare a procacciarsi l’ambito cuore e
portarglielo. La pellicola sposta invece il baricentro drammatico sulla
sola regina (l’immersione del re e la successiva agonia sulla riva del
fiume servono soltanto a mostrare la sua devozione nei confronti della
sposa e, di contro, la sostanziale indifferenza per la morte del coniuge
da parte della donna, interessata esclusivamente a impadronirsi del
pulsante talismano), facendo di Salma Hayek una figura interamente
dominata dal desiderio di maternità esclusiva.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Il%20racconto%20dei%20racconti_ab_7.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Il%20racconto%20dei%20racconti_ab_7.jpg" width="250" /></a>Nella fiaba basiliana <a href="http://www.alaaddin.it/_TESORO_FIABE/FD_Campania_Lo_polece.html" target="“_blank”"><i>La pulce</i></a>,
a ferire a morte e decapitare l’orco non è Porziella, la figlia del re
di Altomonte, (Viola/Bebe Cave nel film), ma uno dei sette figli della
vecchia che si è offerta di soccorrerla (la circense Alba Rohrwacher
nella pellicola di Garrone). A emergere dal diverso finale configurato
dal film non sono soltanto l’intraprendenza e la determinazione di
Viola, ma anche la necessità di un atto violento per liberarsi dal giogo
amoroso: impossibile non ravvisare nella figura dell’orco un gigantesco
e altrettanto possessivo doppio paterno. In altri termini, l’orco
(Guillame Delaunay) tratta Viola con la stessa asfissiante sollecitudine
con la quale il re di Altomonte trattava la pulce: un legame ossessivo,
premurosamente autoritario e di soffocante cattività che, se non
spezzato dalla violenza, non può che condurre alla morte dell’oggetto
amato (è in questo senso che la decapitazione dell’orco coincide con
l’affrancamento dall’autorità paterna e, soprattutto, con la conquista
della sovranità soggettiva).</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Il%20racconto%20dei%20racconti_ab_8.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Il%20racconto%20dei%20racconti_ab_8.jpg" width="250" /></a>Nel <i>cunto</i> basiliano <a href="http://www.paroledautore.net/fiabe/classiche/basile/vecchia-scorticata.htm" target="“_blank”"><i>La vecchia scorticata</i></a>, diventato <i>Le due vecchie</i>
nell’adattamento cinematografico, il re di Roccaforte è sedotto non
soltanto dalla misteriosa voce proveniente dal giardino sottostante, ma
anche dalle continue lamentele espresse dalla voce stessa per qualsiasi
inezia, lamentele così insistenti e leziose da indurre il sovrano a
ipotizzare che sotto la sua reggia abiti “la quintessenza delle
morbidezze”. Questa sfumatura psicologica, evidentemente tesa a
suggerire la facilità all’infatuazione e la suggestionabilità del re,
scompare del tutto nella sceneggiatura del film, venendo rimpiazzata
dalla spiccata inclinazione alla voluttà, se non da una vera e propria
erotomania, posseduta dal personaggio interpretato da Vincent Cassel.
Meglio: nella pellicola non è tanto il personaggio del sovrano a
possedere l’erotomania, quanto, al contrario, è l’erotomania a possedere
- e scrivere - il personaggio. Se l’ipererotismo costituisce
l’ossessione che attanaglia e guida il re, il desiderio chimerico della
bellezza rappresenta invece l’aspirazione irrealistica che, fomentata
dall’avidità, contagia e dirige le azioni delle due vecchie sorelle,
conducendo Dora alla defenestrazione (e, nell’epilogo, all’irreversibile
deterioramento) e Imma allo scorticamento volontario (eloquente
allusione alla pratica dissennata della chirurgia estetica).</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Il%20racconto%20dei%20racconti_ab_9.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Il%20racconto%20dei%20racconti_ab_9.jpg" width="250" /></a>Siamo
insomma in presenza di personaggi che, indipendentemente dal sesso,
dall’età o dai titoli di nobiltà, risultano totalmente determinati da
desideri ossessivi che causano conflitti e violenza (non sfugga, infine,
che persino Viola, in apparenza vittima innocente della possessività
paterna e della forza fisica dell’orco, è pesantemente influenzata e
intimamente solleticata dalla letteratura romantico-avventurosa di
tradizione cavalleresca). Personaggi eterodiretti, in una parola. E
siamo, in definitiva, in pieno territorio garroniano, <strong>L’imbalsamatore</strong>
attestandosi come termine di paragone più stringente e incisivo
(desiderio che degenera in ossessione, gusto per il deforme, tendenza
alla reificazione dell’oggetto amato, inscindibilità di amore e
violenza, doppiezza dei personaggi). Garrone: “Definirei <i>Il Racconto dei Racconti</i>
come un fantasy con incursioni nell’horror. In modo obliquo ma
palpabile, questi due generi - il fantasy e l’horror - si intravedono,
si respirano già nel mio percorso artistico precedente: ne <strong>L’imbalsamatore</strong> e in
<a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=1824" target="“_blank”"><strong>Primo amore</strong></a> gli accenti horror sono molto evidenti, in <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=4503" target="“_blank”"><strong>Reality</strong></a> il piglio fiabesco ispira sia la storia che lo stile; e persino in <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=782" target="“_blank”"><strong>Gomorra</strong></a>, oltre il realismo delle situazioni, lo spirito di alcuni episodi è quello di vere e proprie favole nere. Se ci pensate, <strong>L’imbalsamatore</strong>
- anche con i suoi accenti grotteschi e patetici - sembra proprio una
favola di Basile: «C’era una volta un nano che imbalsamava dei grandi
animali e si innamorò di un bellissimo giovane…»”.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/Il%20racconto%20dei%20racconti_ab_10.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/Il%20racconto%20dei%20racconti_ab_10.jpg" width="250" /></a><strong>Il racconto dei racconti</strong>
pullula di doppi (i gemelli albini partoriti da due madri differenti,
il re geloso e l’orco possessivo, le due vecchie sorelle) ed è proprio
questa insistenza sullo sdoppiamento e sulla doppiezza, ovviamente già
presente nelle fiabe basiliane, a neutralizzare la rassicurante
convenzionalità di una lettura moraleggiante o normalizzante
dell’adattamento cinematografico, rendendo l’ottavo lungometraggio di
Matteo Garrone l’ennesima incursione nell’immaginario grottesco di
personaggi che, riflettendosi e proiettandosi gli uni negli altri,
vedono concretarsi ciò che vorrebbero essere e quello che sono - Jonah
che indossa la giacca di Elias, trasformandosi provvisoriamente in
principe; il re di Altomonte che, vedendosi “medusizzato” dalla testa
insanguinata dell’orco, implora il perdono della figlia; Imma che,
rispecchiandosi in Dora rigenerata, in un’inquadratura che le riprende
di profilo a sottolinearne la beffarda specularità, non sta più nella
pelle, alla lettera. L’intero discorso porterebbe alla questione
dell’assimilazione inconsapevole di modelli estetici strettamente legati
al potere (bellezza e sovranità, autoritarismo dello sguardo
estetizzante), ma, per evitare sbrigative semplificazioni, conviene
porre l’accento sull’elemento stilistico più tangibile della pellicola
di Garrone: la durata delle inquadrature. Se, come ha più volte ripetuto
il cineasta, questo film segue un percorso inverso rispetto alle
pellicole precedenti (non più la trasfigurazione fantastica della
realtà, ma l’opposto), la risorsa cinematografica che esemplifica con
maggiore evidenza l’ancoraggio realista delle immagini risiede
principalmente nella lunghezza delle inquadrature. Fin dalla prima
sequenza, l’arrivo al castello di Selvascura (il castello di Donnafugata
in Sicilia), <strong>Il racconto dei racconti</strong> mostra una
spiccata predilezione per le inquadrature di lunga durata,
cinematograficamente consistenti e temporalmente pesanti (donde la
sensazione di una maggiore staticità rispetto alla frammentazione visiva
convenzionalmente associata al genere). Una propensione al <i>long take</i>
che, sebbene non rigida e totalizzante, ostacola la smaterializzazione
digitale delle immagini (il lavoro sugli effetti speciali va nella
stessa direzione) e promuove progressivamente il consolidarsi di una
visione concreta, sanguigna e terragna. Presentato in Concorso al 68º
Festival di Cannes.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Pubblicata su <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=5527" target="_blank">Gli Spietati</a>.</div>
ABhttp://www.blogger.com/profile/05384764352572794697noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-9104073176553617908.post-28435966627784946542015-05-20T02:10:00.001-07:002015-05-20T02:10:44.125-07:00THE FIGHTERS - ADDESTRAMENTO DI VITA<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/The%20Fighters_ab_1.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/The%20Fighters_ab_1.jpg" width="200" /></a>“L’estate del giovane Arnaud si preannuncia tranquilla fino al momento
in cui incontra Madeleine, bella, fragile e appassionata di allenamenti
estremi e profezie catastrofiche. Arnaud non si aspetta nulla mentre
Madeleine si prepara alla fine del mondo... Tra i due, nasce una storia
d’amore e di sopravvivenza (o entrambe), fuori da ogni canone
prestabilito” (dal pressbook). </div>
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<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/The%20Fighters_ab_3.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/The%20Fighters_ab_3.jpg" width="250" /></a>Prologo, tre atti, epilogo: questa la struttura drammaturgica di <b>Les Combattants</b>, discutibilmente tradotto in anglo-italiano con <b>The Fighters - Addestramento di vita</b>,
pellicola d’esordio di Thomas Cailley. Classe 1980, il regista e
sceneggiatore nato a Clermont-Ferrand arriva al lungometraggio dopo il
pluripremiato corto <b>Paris Shanghai</b> (2010), <i>road movie</i>
che racconta le peripezie di un viaggio meticolosamente programmato
dalla Francia alla Cina in bicicletta (19210 km su due ruote, come si
legge sul retro della maglietta di Manu, il protagonista). Scombussolata
dall’apparizione traumatica di un altro personaggio, Victor, che
travolge la bicicletta di Manu su una strada di campagna, la traiettoria
narrativa di <b>Paris Shanghai</b> si flette verso un <i>buddy movie</i>
che sposta le coordinate dell'itinerario dalla semplice dislocazione
geografica all’occasione di un autentico incontro con l’altro.
Analogamente a <b>Les Combattants</b>, infine, <b>Paris Shanghai</b>
combina l’immersione ambientale e l’interazione di due personaggi
conflittuali con la scoperta di una verità che nasce dalla rottura di un
percorso rigidamente prestabilito.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<i>Questo è stato il mio punto di partenza: l’idea di una campagna
tranquilla con un lago calmo improvvisamente colpito da un tifone.
Questo tipo di collisione, lo scontrarsi di due elementi contrapposti, è
la visione che ho del rapporto tra Arnaud e Madeleine. Da quello ho
immaginato il percorso di crescita di questi due personaggi così diversi
e dalle personalità opposte, che alla fine si uniscono.</i></div>
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<a href="http://www.spietati.it/public/The%20Fighters_ab_4.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/The%20Fighters_ab_4.jpg" width="250" /></a>Girato in ordine cronologico per facilitare l’immedesimazione durante le sette settimane di riprese, <b>Les Combattants</b>
propone nuovamente l’idea del contrasto tra i due personaggi principali
come opportunità di apertura verso l’altro e la concezione del racconto
come un viaggio avventuroso - all’inizio la placida stazione balneare,
poi la precipitosa partenza per il corso militare e, infine, la fuga
ribelle nella foresta. Un viaggio articolato in tre tappe in cui lo
spostamento spaziale si accompagna a un progressivo allontanamento dalla
quotidianità e dal realismo in favore di una dimensione sempre più
connotata in chiave finzionale e utopica: se inizialmente la routine di
Arnaud (Kévin Azaïs) viene scompaginata dalla tumultuosa irruzione di
Madeleine (Adèle Haenel) che, come Victor in <b>Paris Shanghai</b>,
travolge e sconvolge le sue sicurezze e i suoi programmi, lo stage di
sopravvivenza dell’Armée de terre si rivela inadeguato alle radicali
aspettative di Madeleine, rendendo l’esperienza dell’addestramento una
delusione tanto cocente quanto insopportabile. Ai due personaggi, ormai
legati dal comune disorientamento, non resta che abbandonare questo
microcosmo già sensibilmente anomalo rispetto alla realtà di partenza e,
scavalcata la rete di recinzione, spingersi in un territorio nel quale
le strategie di adattamento non saranno imposte dall’alto ma verranno
decise soltanto da loro. È in quest’ultimo spazio che Arnaud e Madeleine
potranno finalmente agire e interagire senza ostacoli normativi (gli
obblighi professionali e familiari per lui, le dogmatiche e
inammissibili regole del campus per lei), stabilendo un autentico
contatto - anche fisico - e creare un nuovo mondo, autonomo, isolato e
fabbricato congiuntamente. </div>
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<i>Quando io e Claude Le Pape abbiamo scritto la sceneggiatura,
volevamo evitare a ogni costo di presentare dei personaggi «malati» che
il film avrebbe tentato di guarire. Il movimento del film non ha niente
di psicologico. Arnaud e Madeleine non smettono mai di agire, avanzare,
inventare. Sono sempre in movimento. Da qui il titolo “Les Combattants”.</i></div>
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<a href="http://www.spietati.it/public/The%20Fighters_ab_5.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/The%20Fighters_ab_5.jpg" width="250" /></a>Conformemente
a questo percorso tripartito verso la finzione, il film rappresenta lo
spazio come un vero e proprio prolungamento dei personaggi: nel primo
atto a dominare è il paesaggio associato alla figura di Arnaud, un
paesaggio stagnante e caratterizzato da una sostanziale piattezza (il
lago costituisce a tutti gli effetti lo specchio naturale del
personaggio), nel secondo è invece il dinamismo di Madeleine a
riverberarsi nell’ambiente del campus militare, riflettendosi in un
territorio più movimentato e accidentato (la regione del Béarn, nel sud
della Francia a ridosso dei Pirenei, con la sua alternanza di zone
pianeggianti, boschi e rilievi), mentre nel terzo, infine, è l’universo
inventato dai due a imporsi, una dimensione quasi fiabesca che si
traduce concretamente in una foresta delle Landes, regione in cui
Cailley è cresciuto, caratterizzata da un terreno sabbioso in cui gli
alberi non sono stabili e tendono a chiudersi sopra il fiume, creando
uno scudo protettivo che isola Arnaud e Madeleine dal resto del mondo.
Questa foresta-galleria diventa una sorta di spazio edenico: la fine del
mondo ipotizzata e attesa da Madeleine si tramuta inaspettatamente in
qualcosa di simile all’inizio del mondo, a una condizione primordiale e
originaria. Persino la tavolozza cromatica della pellicola varia di atto
in atto: curata da David Calley, fratello del regista, la fotografia
asseconda l’idea del viaggio finzionale, passando dalle tonalità fredde e
bluastre dell’inizio ai verdi punteggiati di nero e marrone della
seconda parte per accendersi, nell’ultimo atto, con verdi brillanti,
gialli dorati e chiarori diffusi.</div>
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<i>Ho lavorato molto nelle fasi di preparazione col direttore della
fotografia, mio fratello David Cailley. Il film raccontava il tragitto
di due personaggi e anche la luce doveva raccontare questo tragitto. Non
volevamo fare un film monocromo. La pellicola inizia con tonalità blu
piuttosto fredde (il cielo estivo, la piscina, l’interno della
discoteca). Nella seconda parte tocchi di giallo si mischiano al blu per
dare il verde dell’esercito, al quale si mescolano toni neri e marroni.
Dolcemente la luce si riscalda. Poi, nella terza parte, la dominante
gialla si accentua nella foresta. I verdi si rischiarano, il fiume
assume un colore dorato, esattamente come i corpi, e le notti sono
illuminate da falò arancioni. Parallelamente, il quadro si fa sempre più
mobile intorno ai personaggi e si apre su orizzonti più larghi,
prospettive più ampie.</i></div>
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<a href="http://www.spietati.it/public/The%20Fighters_ab_6.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/The%20Fighters_ab_6.jpg" width="250" /></a>Ma il dato più significativo di <b>Les Combattants</b>,
vincitore di svariati premi alla Quinzaine des réalisateurs di Cannes
2014 e ai César del 2015 (tra i quali migliore opera prima, migliore
attrice per Adèle Haenel e migliore promessa maschile per Kévin Azaïs),
risiede nella sua personalità stilistica. Nonostante sia un film
accuratamente pensato (le dichiarazioni di Cailley ricavate dal dossier
de presse lo testimoniano a sufficienza) e scrupolosamente pesato in
ogni sua componente (basti pensare alla sequenza del soccorso finale,
vera e propria deriva in territori fantascientifici, o all’uso delle
sonorità elettroniche degli Hit’n’Run per dare una spinta supplementare
alle immagini), <b>Les Combattants</b> non indulge in
citazionismi o ammiccamenti cinefili, superando agilmente il complesso
d’inferiorità che affligge spesso i film d’esordio e schivando con
altrettanta disinvoltura il pericolo opposto, ovvero l’esibizione di
stucchevoli e funambolici virtuosismi estetizzanti. Una singolarità
cinematografica, quella messa in scena dal primo lungometraggio di
Cailley, che, proprio in virtù della sua irriducibilità a modelli
facilmente riconoscibili, può dialogare alla pari col cinema francese
più maturo e celebrato senza essere schiacciato da paragoni altisonanti o
raffronti umilianti. Al contrario e secondo chi scrive, l’equilibrio
del registro stralunato, bizzarro e surreale che <b>Les Combattants</b>
mantiene con immutata scioltezza per i suoi 98’ entra in risonanza
involontaria - ma per questo ancora più avvertibile - con le pellicole
del cinema greco contemporaneo (dalle pellicole di Yorgos Lanthimos,
soprattutto <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=2775"><b>Kynodontas</b></a>, ad <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=3058"><b>Attenberg</b></a>
di Athina Rachel Tsangari). E non solo per la capacità di generare un
universo filmico tanto irrealistico quanto credibile in bilico tra
grottesco e sentimento di catastrofe, ma anche per la propensione a
trasformare gradualmente i personaggi da oggetti di puro consumo visivo
in soggetti a pieno e agguerrito titolo.</div>
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Pubblicata su www.spietati.it. </div>
ABhttp://www.blogger.com/profile/05384764352572794697noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9104073176553617908.post-24107488649832991352015-04-27T01:34:00.002-07:002015-04-27T01:37:01.575-07:00FRENCH CONNECTION<div style="text-align: justify;">
<a href="http://www.spietati.it/public/French_Connection_ab_1.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/French_Connection_ab_1.jpg" width="200" /></a>Marsiglia, 1975. Pierre Michel, giovane magistrato appena arrivato da
Metz con moglie e figli, viene incaricato di un’inchiesta sul crimine
organizzato. Appena insediatosi decide di attaccare la cosiddetta French
Connection, un’organizzazione mafiosa che esporta eroina in tutto il
mondo. Rifiutandosi di dare ascolto a chi lo invita alla cautela, Pierre
s’imbarca in una crociata personale contro il leggendario e intoccabile
padrino Gaetan Zampa, ma deve rendersi conto che se vuole ottenere dei
risultati deve cambiare tattica… (dal pressbook) </div>
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<a href="http://www.spietati.it/public/French_Connection_ab_3.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/French_Connection_ab_3.jpg" width="250" /></a>Non inganni il logo Gaumont anni ’80 che precede <b>French Connection</b>,
secondo lungometraggio del trentottenne cineasta marsigliese Cédric
Jimenez: si tratta di un ammiccamento nostalgico che non avrà alcuna
ripercussione sull’impianto estetico del film. O forse sì, ma nel senso
del vintage più deteriore, del cimelio esibito come ornamento tutto
esteriore: inutile orpello di un film che si gloria della ricostruzione
d’epoca, spacciando l’autenticità urbana per credibilità cinematografica
e gabellando la filologia criminale per esattezza drammaturgica. Il
guaio è che, dopo un decennio di crescita culminata nella serie
televisiva prodotta da Canal+ <b>Braquo</b> (2009), il polar francese molto probabilmente sta perdendo colpi: basti pensare a <b>96 Heures</b> (2014) di Frédéric Schoendoerffer, <b>Mea Culpa</b> (2014) di Fred Cavayé o al pericolante <b>Colt 45</b>
(2014) di Fabrice Du Welz, giusto per citare titoli recenti e
ovviamente non distribuiti in Italia. Registi come Schoendoerffer o
Cavayé, già autori di polar rimarchevoli quali <b>Scènes de crimes</b> (2000) e <b>Truands</b> (2007) o <b>Pour elle</b> (2008) e <b>À bout portant</b>
(2010), segnano visibilmente il passo con pellicole artificiose,
compiaciute e virtuosistiche - per quanto di gran lunga più personali di
questo <b>La French</b>. Discorso simile, infine, per il gran visir del genere Olivier Marchal, che, chiusa la trilogia della solitudine con <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=1693"><b>L'ultima missione</b></a> (2008) e codiretta la serie <b>Braquo</b> con Schoendoerffer, ha realizzato il meno incisivo <b>Les Lyonnais</b> (2011).</div>
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<a href="http://www.spietati.it/public/French_Connection_ab_4.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://www.spietati.it/public/French_Connection_ab_4.jpg" width="250" /></a>Pomposo, carnascialesco e caricaturale, <b>French Connection</b>
conferma la fase calante del polar, gonfiando la carenza di originalità
con iniezioni di budget (più di 20 milioni di euro), cast a tre stelle
(Dujardin/Lellouche/Magimel) e magniloquenza da affresco storico (lo
scontro tra giustizia e criminalità nella Marsiglia di metà anni ’70).
Se il thriller cibernetico <b>Aux yeux de tous</b> (2012),
esordio al lungometraggio di Jimenez, cercava affannosamente una sua
formula cinematografica accatastando immagini da telecamere di
sorveglianza, webcam e soggettive di un hacker sedicenne, <b>La French</b> si accontenta di servire stracotto di Scorsese (sequenze musicali a episodi in stile <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=3090"><b>Quei bravi ragazzi</b></a>)
aromatizzato con spolverate di Friedkin (il traffico di eroina negli
Stati Uniti, le intercettazioni) e guarnizione manniana (il faccia a
faccia tra Dujardin e Lellouche in territorio neutro). La mancanza di
uno stile personale, compensata da grossolane rimasticature
americanizzanti, è manifesta. Tra smaccati espedienti di montaggio
(l’alternato ingannevole tra l’irruzione della polizia in casa di
Charles Peretti e le operazioni di raffinazione dell’eroina nel
laboratorio situato altrove), un’accattivante playlist di brani pop anni
’70 (<i>C’est comme ça que je t’aime</i> di Mike Brant, <i>Comic Strip</i> di Serge Gainsbourg, <i>The Snake</i>
di Al Wilson e via di seguito) e figure femminili impeccabilmente
convenzionali (devota e premurosa la moglie del bandito, esigente e
lamentosa quella del giudice), <b>French Connection</b>
sacrifica la specificità francese del polar sull’altare dello spettacolo
anodino e tonitruante. E la tanto sbandierata verosimiglianza
marsigliese si riduce a solare oleografia da cartolina mediterranea:
perché a Marsiglia piove solo piombo.</div>
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Pubblicata su <a href="http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=5511" target="_blank">Gli Spietati</a>.</div>
ABhttp://www.blogger.com/profile/05384764352572794697noreply@blogger.com0