Lione, 1943. Accusato di spionaggio e preparazione di un attentato,
il tenente Fontaine è imprigionato in un carcere controllato dalle forze
di occupazione tedesca dopo un disperato tentativo di fuga. Condannato
alla fucilazione, Fontaine escogita un piano di evasione servendosi dei
pochi mezzi che la situazione gli mette a disposizione: un cucchiaio,
del fil di ferro, coperte, ganci fabbricati con la cornice della
lanterna. E, soprattutto, facendo affidamento sulla sua inflessibile
volontà.
Un uomo e una porta
Il reale di cui i film di Bresson recano testimonianza non è
deducibile che dalla messa in scena. Che questa percezione sia stata
l'oggetto di una ricerca, di un brancolamento che ha condotto a
stabilire un sistema singolare, questo è noto e Un condannato a morte è fuggito ne segna senza dubbio la rottura. […] Il Condannato,
precisamente, è la prima pellicola di Bresson che utilizza
sistematicamente gli elementi - firma se vogliamo - che sono il marchio
dei suoi film: frammentazione dello spazio, non-attori, meccanizzazione
della recitazione e della dizione…
Philippe Arnaud,"Robert Bresson".

Un film su un uomo e una porta: ecco che cos'è
Un condannato a morte e fuggito.
In questa porta che separa Fontaine dal primo spiraglio di libertà si
materializza il caso inteso come coincidenza e destino: l'accidente e il
senso. Per raggiungere la libertà ventilata dall'aria che s'intrufola
nella finestra della sua cella ("Il vento soffia dove vuole"), Fontaine
deve innanzitutto misurarsi con questa barriera di legno che lo porterà
ancora di più all'interno del carcere, nelle sue ignote anfrattuosità
("Il fallait que cette porte s'ouvre, je n'avais rien prévu pour après";
"Occorreva che questa porta si aprisse, non avevo previsto niente per
dopo"). Per conquistare l'aria, deve sprofondare nell’orizzonte interno
delle cose, spingersi nell'ignoto. Disperato e disilluso ("Non mi facevo
alcuna illusione sulla sentenza"), Fontaine deve al caso e
all'inoperosità la sua prima intuizione evasiva ("Fu per un caso che
riuscii a fare il primo passo verso la libertà"): seduto davanti alla
porta, non avendo nient'altro da fare che posarvi lo sguardo, si accorge
che l'interstizio tra le tavole di quercia è di un legno diverso, più
tenero e intaccabile ("Sicuramente esisteva il modo di smontare la
porta"). Inizia così la sua lotta implacabile contro gli ostacoli che lo
separano dalla libertà.

Ma
ciò che Fontaine opera sulla porta non è troppo dissimile dal gesto
cinematografico che Bresson compie sulla compattezza della realtà:
inciderla, frammentarla e ricomporla per raggiungere una dimensione
ulteriore. Manomettere la realtà per scassinarla e raggiungere l'ignoto,
il mistero. Pazientemente: con un lavoro di scomposizione e
ricomposizione che non mostri i segni della manomissione se non in
quanto indizi impercettibili, tracce appena visibili. Impalpabili. È un
lavoro nel quale la ricomposizione della superficie scheggiata (non è
forse, quella di Fontaine, una montatura che rievoca il montaggio?)
comporta una cura tanto attenta e premurosa quanto la scomposizione
preliminare: "Ce qui me prenait beaucoup de temps c'était la remise en
place et le camouflage" ("Ciò che mi prendeva molto tempo era la
ricomposizione e la mimetizzazione"). In questa volontà inflessibile si
fondono intenzioni e gesti del prigioniero Fontaine e del cineasta
Bresson: uomini che, per raggiungere una dimensione negata dalla realtà,
smontano e rimontano la materia prima, ognuno con i mezzi ridotti che
questa stessa realtà, accidentalmente, mette a loro disposizione.

Ecco
precisarsi con argenteo rigore l'«anti-sistema» di Bresson: suggerire,
per via d'immagini allusive, l'orizzonte interiore del mondo, ciò che
avviene tra le cose. Si tratta di una strategia quasi militare
("Cinématographe, art militaire. Préparer un film comme une bataille",
Note sul cinematografo):
accerchiare ciò che non è immediatamente o direttamente figurabile
attraverso un'attitudine privativa che sottragga la visione integrale
dello spazio e degli eventi. Una forma ablativa di rappresentazione che
fa dell'assenza il suo centro gravitazionale: ciò che non vedi è quello
che conta, è lì che risiede il mistero. Il cuore dell'azione scompare
(la
prima sequenza
del film lo annuncia a chiare lettere), inghiottito dall'enigma che
cela e rivela al contempo: il procedimento metonimico (la parte per il
tutto o la sostituzione della causa con l'effetto) ne è il precipitato
estetico. Nel vuoto, la verità infigurabile.

Sarebbe
inutile e scriteriato tentare di dire qualcosa di nuovo su un film di
cui è stato già detto tutto (per le informazioni di prammatica
rivolgersi altrove, grazie). Ciononostante, mi preme mettere in luce un
aspetto paradossale che mi ha profondamente colpito durante l'ennesima
revisione di questo capolavoro (per una volta l'abusato termine ritrova
la sua luminosità): il quarto lungometraggio di Bresson, di cui onoriamo
qui i sessanta anni dalla sua uscita nelle sale francesi, dimostra con
adamantina chiarezza che per raggiungere la verità (l'evocazione del
segreto dell'essere attraverso la menzogna di ciò che appare ma non è)
occorre un costante e inesorabile sforzo di falsificazione. In
Un condannato a morte è fuggito
tutto è all'insegna dell'impostura: si pensi alla falsa innocenza dei
prigionieri di fronte allo sguardo dei sorveglianti (l'apparente
docilità dei detenuti nasconde una febbrile attività clandestina), alla
falsa staticità (una miriade di microeventi brulica nel film, mettendo
lo spettatore in un ininterrotto stato di allarme), alla falsa
appartenenza del film al genere carcerario (la prigionia di Fontaine non
è che un pretesto per parlare della reclusione esistenziale di ogni
essere umano), alla falsa impronta fenomenologica (la forte
frammentazione della continuità smentisce di fatto il postulato
dell'oggettività) e, infine, alla falsa letterarietà (il sapore
distintamente letterario della voce narrante di Fontaine non intacca la
disadorna austerità dell'arrangiamento visivo). Ciò che appare attiene
alla menzogna, insomma, e il suo solo compito è quello di evocare la
dimensione del segreto: l'essere implica il non apparire. E il cinema di
Bresson perseguirà sempre più radicalmente, da
Pickpocket
(1959) in poi, titolo sottrattivo se mai ve n'è stato uno, questa
rapina del visibile a esclusivo vantaggio dell'essere. Perché vedere
tutto significa mancare la pungente intensità delle cose.
Qualche giorno fa, traversando i giardini di Notre-Dame, incrocio
un uomo i cui occhi colgono dietro di me qualcosa che io non posso
vedere e s'illuminano d'improvviso. Se, contemporaneamente all'uomo,
avessi visto la giovane donna e il bambino verso i quali si mise a
correre, quella faccia felice non mi avrebbe tanto colpito; forse non ci
avrei nemmeno fatto caso.
Robert Bresson, "Note sul cinematografo".
Nota sul doppiaggio

Non
saprei dire con esattezza quante versioni di questo film abbia visto
(probabilmente intorno alla dozzina), ma di una cosa sono certo: vedere
Un condamné à mort s'est échappé
in originale costituisce un'esperienza totalmente diversa rispetto alla
versione doppiata. Oltre alle consuete alterazioni linguistiche che
ogni traduzione comporta e oltre all'inevitabile perdita del carattere
macchinico della dizione così cruciale in Bresson, in questo caso
assistiamo ad altri due fenomeni letteralmente aberranti. In primo luogo
è anche la sintassi del testo originale a subire plateali distorsioni e
omissioni: giusto a titolo di esempio, "Durant l'attente, dans la cour,
je m’étais habitué à l'idée de la mort. J'aurais préféré une exécution
immediate" diventa "Abituarsi alla morte… Ero così vicino alla fine da
desiderarlo". In secondo luogo, soprattutto, è l'assedio costante dei
rumori del carcere, un vero e proprio traffichio persecutorio, a ridursi
ad amorfo e smorzato rumore di fondo. E così questo concerto per
cucchiaio, chiavi e fil di ferro in do minore si tramuta in un film in
sordina.
Un film davvero eccezionale! L'ho visto una volta sola, oltre dieci anni fa, ma ce l'ho stampato nella memoria quasi in ogni inquadratura...
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