Quattro religiosi vivono in una casa appartata a La Boca, una piccola
città di mare. Ciascuno di loro è stato inviato nell’abitazione per
espiare peccati commessi in passato. Improntata a uno stretto regime
sorvegliato dall’occhio vigile di una custode, la fragile stabilità
della loro quotidianità è scombussolata dall’arrivo di un quinto uomo,
un compagno recentemente caduto in disgrazia che porta con sé quel
passato che credevano essersi lasciati alle spalle.
Sono sempre stato disturbato dai destini di quei preti rimossi
dalle loro posizioni dalla Chiesa stessa in circostanze completamente
segrete, a insaputa dell’opinione pubblica. […]. Sacerdoti che,
nel silenzio completo, sono stati spediti in case di riposo. Dove sono
questi sacerdoti? Chi sono? Che cosa fanno? Questo è un film su quei
preti esiliati e perciò questo film è il club dei preti perduti. (Pablo Larraín)
Il cerchio
Il club
si apre con un’inquadratura piuttosto ampia in riva al mare: Padre
Vidal (Alfredo Castro) allena il suo levriero, facendolo correre in
cerchio. L’inquadratura, al di là del suo senso letterale, veicola
immediatamente un doppio significato metaforico: quello della chiusura
in un universo circolare e quello, complementare, dell’addomesticamento
dell’animalità (brutalmente, la libido). Segregati e sorvegliati
dall’occhio vigile di Madre Monica (Antonia Zegers), i quattro maturi
sacerdoti possono controllare e domare quella spinta libidica che, in
passato, li ha spinti a commettere abusi sessuali e atti di
prevaricazione su vittime innocenti. Questa condizione di equilibrio è
garantita dall’universo a tenuta stagna in cui i religiosi sono
segregati e, per così dire, tumulati: un universo ermeticamente chiuso,
scandito da regole ben precise e tenuto in ordine da Madre Monica. In
questo caso, la pulizia effettuata e assicurata con accanito zelo da
Madre Monica non è soltanto di ordine pratico, ma soprattutto morale:
non è senza motivo che la seconda inquadratura del film la mostri
intenta a lavare le scale esterne della casa (vera e propria zona di
passaggio tra il fuori e il dentro, tra le occasioni di contaminazione
provenienti dall’esterno e lo stato di purezza asettica dell’interno).
Nella casa, insomma, regna un’atmosfera di catatonica tranquillità
emblematicamente incarnata dall’istupidito e smemorato Padre Ramirez (il
drammaturgo, regista teatrale e attore Alejandro Sieveking). Dentro il
recinto domestico è tutto sotto stretto controllo, rigorosamente
equilibrato, regolato, coltivato (l’orticello curato da Padre
Silva/Jaime Vadell): “Conduciamo una vita santa”, proclamerà in seguito
Madre Monica.
Al mattino ci svegliamo e preghiamo. Poi facciamo colazione. E
dopo c’è un po’ di tempo libero per le faccende personali. Alle 12 si
celebra messa. I Padri la fanno a turno e così fanno per la confessione.
Se ha bisogno di confessarsi, me lo comunica e io parlo coi Padri
perché qualcuno la confessi. All’una pranziamo, poi cantiamo. Poi, siamo
liberi e alle 8 e mezza ceniamo. Alle 8 recitiamo il rosario e alle 8 e
mezza mangiamo. Non può andare in paese se non tra le 6:30 e le 8:30 AM
o tra le 19 e le 21. Se vuole uscire in quell’orario, bene, però da
solo. Non potete andare insieme per strada. È assolutamente proibito
comunicare con persone estranee alla Casa. È proibita qualsiasi azione
auto flagellante o di piacere autoindotto. Non può maneggiare né denaro
né cellulare. (Madre Monica)

L’esterno,
per il momento, si riduce a una linea d’orizzonte solcata dalla vela di
un windsurf, che Padre Vidal osserva con invaghita rassegnazione. Il
levriero Fulmine (nome che squarcia la narcotica placidità del
microcosmo) è la sola presenza vivace, che corre a perdifiato, eppure
anche il suo è un movimento rigidamente padroneggiato dalla compiaciuta
congrega di religiosi in ritiro. È un’immagine del Cile, quella
condensata nella casa, l’immagine cristallizzata di un passato che, come
una scoria radioattiva, è stata stoccata in questo centro di preghiera e
penitenza, una sorta di reparto per lo smaltimento di rifiuti tossici
o, detto più rozzamente, una lavanderia per cattive coscienze. Quanto
l’energia libidica della piccola confraternita sia stata efficacemente
convogliata sul levriero è mostrato dal successo riportato da Fulmine
nella prima corsa: sbaragliando la concorrenza dei Manzur, “i turchi del
supermercato”, la vittoria dell’animale fornisce ai religiosi un
surrogato erotico (si veda la scossa di piacere che appare sul volto di
Madre Monica) di quelle esperienze proibite che gli ex sacerdoti
consumavano nel chiuso delle loro stanze (la reazione collettiva dei
quattro religiosi per il successo di Fulmine va molto al di là della
semplice soddisfazione, lasciandoli letteralmente senza fiato). Il
denaro guadagnato dalla vittoria di Fulmine rappresenta economicamente
la circolazione di questa energia erotica sotto controllo: non è
fortuito che Madre Monica, colei che vigila sulle menti e sui cuori dei
quattro ex sacerdoti, si opponga alla proposta di spartizione del
denaro, facendosi titolare dell’importo erotico e impedendo che
l’energia libidica, sotto forma di avidità, torni a essere sparpagliata e
singolarmente disponibile.
La società cilena ha fondato se stessa su una storia di potere e
sottomissione, proprio come ogni altra società. Poteri economici,
sociali, politici e religiosi, ma, in particolare, poteri che hanno
inflitto grandi violenze sotto la copertura del silenzio. Piccoli gruppi
di persone, famiglie e congregazioni hanno goduto dell’impunità per i
loro atti, molto spesso criminali, coperti dalle loro reti di
protezione. Ciò diviene oscenamente radicale durante la dittatura degli
anni ’70 e ’80, quando questa impunità è consacrata tanto nello
smantellamento dello Stato Repubblicano, tramite l’usurpazione e la
privatizzazione delle sue imprese, del sistema sanitario ed educativo,
quanto nel trattamento crudele e criminale delle sue vittime e in tutti
gli abusi contro i diritti umani e la dignità. (Alfredo Castro)

Ma
questo passato non è del tutto passato, è soltanto rimosso e posto
sotto la sorveglianza di un Super-Io efficiente e insostituibile:
l’ipotesi di portare Fulmine al campionato nazionale manifesta questa
doppia funzione di Madre Monica (se lei andasse a Santiago col cane, li
lascerebbe in balia di se stessi e l’alternativa di una sostituta è
definita letteralmente impossibile; la questione viene dunque
sbrigativamente rimandata). È sufficiente l’irruzione di un fattore
esterno a slatentizzare lo squilibrio meticolosamente tenuto a bada:
l’arrivo di Padre Lazcano (José Soza) scompagina irrimediabilmente
l’ordine del microcosmo domestico, portando con sé il ritorno del
rimosso, la recrudescenza della colpa, il rimorso in una parola. Non
sfugga il carattere totalmente arbitrario dell’apparizione di Sandokan
(Roberto Farías), che si materializza proprio quando il nuovo arrivato
si ribella a Madre Monica e al rigido protocollo delle regole di
condotta che gli ha appena snocciolato: “Mi scusi, Madre, però non so
perché dovrei sottomettermi alle stesse regole “loro”. Non so se lei sa
perché sono qui. Non ho commesso nessun delitto, nessun peccato. Non
sono un invertito. Ho avuto un piccolo problema”. È proprio sulle sue
parole che s’innesta, provenendo dall’esterno, la filastrocca di
Sandokan, ideale prosecuzione della sua riluttanza a farsi disciplinare
da questa Legge inflessibile. Detto più semplicemente, Padre Lazcano non
è che l’ambasciatore di Sandokan, il suo annunciatore, il suo messo:
colui che prepara l’arrivo del personaggio deputato a lacerare
irreparabilmente l’ordine stabilito. Il suicidio di Lazcano, tanto
inopinato quanto il manifestarsi di Sandokan, testimonia la natura
provvisoria e funzionale della sua figura: egli è lì per portare
all’interno quel passato rimosso che continua ad aggirarsi nel presente
come un fantasma inconsolabile.
Abbiamo anche scoperto che esiste una congregazione
internazionale, fondata negli Stati Uniti, chiamata “Servants of the
Paraclete”, che negli ultimi 60 anni si è dedicata esclusivamente alla
cura dei preti che non possono più continuare a svolgere le funzioni
sacerdotali per diversi motivi, a dispetto del fatto che la maggioranza
di questi preti hanno commesso crimini. (Pablo Larraín)
Bella addormentata nel bosco: Paranoia Todo modo

L’arrivo
di Sandokan tramite Lazcano ci pone di fronte a una versione
tragicamente distorta di quello che André Gardies ha definito “Effetto
Bella addormentata nel bosco”:
“Dal momento che fa vacillare l’ordine stabilito fino a questo punto e
dal momento che trasforma ciò che non era che scenografia in un universo
dalle corrispondenze segrete, l’arrivo del personaggio - autenticamente
trasgressore - produce un singolare effetto finzionale che non resisto
al piacere di chiamare «Bella addormentata nel bosco».” (
L'espace au cinéma,
Méridiens-Klincksieck, 1993, p.136). La casa, fino a questo istante
luogo di ordine ed equilibrio, diviene un carcere, un edificio assediato
e insidiato, uno spazio infernale: “Che ci faccio in questa Casa? In
questa merda di Casa?”, sbotta Padre Ortega (Alejandro Goic). L’esterno è
ormai strisciato all’interno, il passato rimosso risuona nel presente,
qui e ora. Già, perché quella incarnata da Sandokan è una seconda
immagine del Cile: quella di un presente che, avvezzo agli abusi
dell’istituzione religiosa e allevato in questo clima di piacere
morboso, è attualmente incapace di spezzare la relazione di ambivalenza
che lo lega al vissuto di umiliazione e protezione. Per Sandokan è
materialmente impossibile scindere i due volti della Chiesa che ha
conosciuto sulla propria pelle: violenza e fede, abuso e fiducia,
sottomissione e protezione (“E mi metteva il pene nella bocca. Ed era un
pene così grande che, siccome ero bambino, a me, a volte, faceva male
l’apertura della boccuccia. Perché l’apertura, dato che ero piccolo, non
mi bastava per ingoiare il pene del prete, ma lui veniva lo stesso. E
mi obbligava e, a volte, mi veniva da vomitare con la cosa del seme. Mi
faceva vomitare la cosa del seme. Perché poi il prete mi dava una
mentina, così il seme non si sente, così squallido, così strano, così
salato”, declama Sandokan, con sconcertante tono oratorio, davanti alla
casa).
Dalla precaria condizione di chi non ha molte alternative per
credere, Sandokan crede in qualcosa di concreto che lo ha protetto,
aiutato e allevato; qualcosa che gli ha permesso di sopravvivere. Più
che come qualcosa di filosofico o spirituale, egli vede la fede come una
cosa concreta e funzionale, nella quale è stato forzato ad assecondare
ciecamente tutte le umiliazioni e i piaceri dei preti che lo hanno
protetto - in questo caso Matias Lazcano. Qui amore e fede sono confusi e
disintegrati al tempo stesso. Ogni abuso, palpeggiamento o penetrazione
è visto come un’offerta a un Dio che protegge, nasconde e sorveglia
soltanto i milionari. Senza dubbio questa riflessione corrisponde a un
intelletto molto più grande di quello di Sandokan. Egli è più basico,
viscerale e carente di meccanismi o elementi che gli permettano di avere
un’intelligenza emotiva con la quale possa cambiare il proprio destino. (Roberto Farías)

Il
suicidio di Padre Lazcano produce inoltre una forte perturbazione nel
microcosmo a causa dell’arrivo di Padre García (Marcelo Alonso), inviato
dall’autorità religiosa per fare chiarezza sull’accaduto, definito un
padre spirituale con molta esperienza di situazioni critiche, psicologo
che ha studiato a Ginevra, uomo molto preparato e, infine, molto bello.
Il suo ingresso nella casa, immediatamente successivo al funerale di
Padre Lazcano, scatena la diffidenza dei quattro sacerdoti, convertendo
l’energia libidica liberata dalla materializzazione di Sandokan e dal
suicidio di Lazcano in paranoia. I quattro confabulano animatamente,
gettando fango sull’aspetto da “ricco colpevole” del nuovo arrivato,
sospettando apertamente di lui e giungendo rapidamente a questa
conclusione: “Questo García è venuto per venderci. Così la Chiesa se ne
lava le manie noi facciamo da capri espiatori. Ci elimineranno. Ci
elimineranno” (Padre Silva a Padre Ortega). Padre García si presenta
esplicitamente come investigatore delle coscienze (“Sorella, lei e io
sappiamo perché i fratelli si trovano qui. Ciò che devo sapere è se loro
stessi siano coscienti del perché sono qui”, dice a Madre Monica) e
come agente di rinnovamento (“Quello che voglio è una Chiesa nuova”,
aggiunge chiedendole aiuto in questa difficile opera di rigenerazione
morale). Istigata dalla scoperta dei dossier di alcuni dei sacerdoti
della casa (scoperta fatta furtivamente da Padre Ortega), la paranoia
s’intensifica in seguito ai colloqui individuali, durante i quali Padre
García cerca di inchiodare i quattro sacerdoti alle loro responsabilità,
ricevendo in cambio refrattarietà, arroganza e aperta derisione.
Benché manchi un momento politico evidente e specifico - come accade nel caso di Tony Manero, Post Mortem o No, nei quali il panorama e il contesto della dittatura erano tremendamente presenti - con Il club
Pablo Larraín continua a rivolgersi a un soggetto che, ai miei occhi,
attraversa tutti i suoi film e tutti i ruoli che ho dovuto interpretare:
l’impunità (Alfredo Castro)

Esercizi
spirituali di espiazione praticati secondo regole ferree e condotti in
un eremo-prigione, spettri di morbosità che assediano il luogo e morti
violente, tentativi di rinnovamento dell’istituzione e paranoia
dilagante: impossibile non pensare a
Todo modo (1976),
al quale rimandano, non importa se deliberatamente o meno, anche il
carattere quasi esclusivamente maschile del malsano microcosmo religioso
e la presenza dei dossier custoditi segretamente dal direttore
spirituale. Il disegno narrativo di
Todo modo e
Il club
possiede la medesima matrice: eliminare le tracce dello sfruttamento
passato per preservare nel presente l’autorità dell’istituzione (“La
società cilena ha fondato se stessa su una storia di potere e
sottomissione, proprio come ogni altra società”), nella figura di Padre
García condensandosi i personaggi interpretati da Marcello Mastroianni e
Gian Maria Volonté nella pellicola di Petri. Ma questa affinità di
fondo non intacca minimamente la singolarità del film di Larraín, che si
sviluppa in totale autonomia secondo un arrangiamento al contempo
psicoanalitico e politico: non sorprende affatto che Padre García
individui subito in Fulmine un animale di cui sbarazzarsi poiché
ricettacolo di avidità e incontinenza, così come non meravigliano le sue
parole di rimprovero indirizzate all’ex cappellano dell’esercito Padre
Silva - “Se è rinchiuso in questa Casa, è perché resti in silenzio”.
Da questo punto di vista, Il club appare ai miei occhi come
un’osservazione realistica della contingenza politica, sociale e
religiosa, e soprattutto della giustizia (o piuttosto della sua
mancanza). Le reti del potere continuano ad andare avanti, nascoste
nell’ombra e protette dall’impunità che certi gruppi continuano ad
avere. (Alfredo Castro)
Agnello di dio: reality show para buscar la voluntad divina

Sganciata
dal levriero (Fulmine perde tutt’a un tratto la sua straordinaria
velocità, venendo battuto nella corsa domenicale), l’energia libidica si
trasferisce esplicitamente su Sandokan nel dialogo destabilizzante con
Padre García, il quale finisce per identificare in lui il Male da
esorcizzare. Così, smarrito lo statuto di surrogato erotico, il cane
viene sacrificato come semplice strumento per accalappiare e domare il
Male a piede libero. Madre Monica, Padre Ortega e Padre Silva - sotto la
muta direzione di Padre Garcia e a insaputa di Padre Vidal - non
esitano a fare di Sandokan l’oggetto di una spedizione punitiva
collettiva: l’uccisione dei levrieri del quartiere, avvalorata dalla
soppressione dello stesso Fulmine, è imputata all’innocente e ignaro
vagabondo. Sandokan (non sfugga che si tratta del solo personaggio,
oltre a Fulmine, ad avere un nome aggressivo) viene letteralmente
trasformato in vittima sacrificale, in “agnello di Dio”, come egli
stesso si definisce in una delle sue invettive davanti alla casa (“Voi a
un agnello di Dio sapete solo chiudere la porta in faccia!”) e come
sarà ribadito nel delirante canto corale dell’epilogo (“Cordero de Dios
que quitas el pecado del mundo, ten piedad de nosotros”). È in questo
tumultuoso frangente che si precisa la funzione dei tre windsurfer che
in precedenza abbiamo visto snobbare i tentativi di socializzazione di
Padre Vidal: essi rappresentano la terza immagine del Cile, quella di un
futuro totalmente indifferente alle sofferenze del passato e
irritabilmente riluttante a scendere a patti con ciò che questo passato
ha da offrire (alla proposta di dare una lezione a Sandokan dietro lauto
compenso formulata da Padre Vidal, i giovani reagiscono picchiandolo e
rifiutando il suo denaro, in un montaggio alternato che intreccia le
percosse inferte all’ex sacerdote al feroce pestaggio di Sandokan).
Superando il realismo più estremo nel trattamento estetico e nella
struttura narrativa, credo che questo film sia una testimonianza
radicalmente politica e rilevante poiché materializza un sogno comune:
che questi promotori della fede, questi guardiani di una classe, siano
esposti al processo dei cittadini, un processo storico, poiché i lori
atti sono stati a lungo diretti, hanno tratto profitto e sono stati
nutriti dalla società civile; poiché essi hanno dimenticato e non hanno
mai avuto la minima idea di reciprocità; poiché non hanno rispettato il
contratto sociale. (Alfredo Castro)

Soppresso
il cane e pestato a sangue Sandokan, l’equilibrio è ripristinato: un
equilibrio senza dubbio diverso da quello iniziale ma sostanzialmente
compatibile con l’esigenza di omertà e occultamento tuttora vigente.
Nessun autentico rinnovamento della Chiesa, soltanto l’ennesima
riverniciatura della facciata: la scheggia impazzita prodotta dagli
abusi del passato viene riassorbita nella Casa di Dio (“Qui c’è Dio,
Padre!”, ha precedentemente ricordato Padre García all’insolente Padre
Ortega), viene letteralmente addomesticata. Neutralizzata e
disinnescata, la mina vagante rappresentata da Sandokan può essere
finalmente accolta nella casa (“Se date un letto a quest’uomo, mi
dimentico di voi”, assicura Padre García), ribattezzata (Sandokan
diviene Tommaso, l’apostolo che dubitò della resurrezione di Cristo) e
accuratamente disinfettata (“La prima cosa da fare è finire di
disinfettarlo”, sentenzia Padre Silva). L’impunità, ancora una volta, è
garantita: “Amo la Chiesa e non voglio danneggiarla”, afferma Padre
García per giustificare il suo silenzio; “Come non approfittare di
questa magnifica opportunità che ci dà la nuova Chiesa per salvare le
nostre anime?”, conclude sarcasticamente Padre Ortega. La sconcertante
batteria di psicofarmaci richiesta infine da Sandokan/Tommaso per
scongiurare eventuali episodi psicotici suggella definitivamente il
carattere sedativo del suo recupero: l’ordine può essere mantenuto solo
con l’aiuto dei farmaci, la tranquillità s’identifica ancora una volta
con la catatonia.
Non abbiamo dato la sceneggiatura agli attori, soltanto poco prima
che la scena venisse girata, sicché non sapevano che cosa fossero gli
altri personaggi - era come un esercizio per vedere se funzionasse. (Pablo Larraín)

Portato
dall’esterno e attento a non carbonizzare simbolicamente una materia
già intrinsecamente incendiaria, lo sguardo di Larraín configura un
microcosmo spaziale che riformula grottescamente e causticamente la
retorica visiva dei reality show (non sembri fortuita la concomitanza
della prima materializzazione di Sandokan con la visione del reality
trasmesso dalla Televisión Nacional, così come la minaccia di Madre
Monica a Padre García di chiamare la televisione nell’eventualità della
chiusura della casa). Ma questa volta il Grande Fratello è nientemeno
che Dio, l’onnisciente e onnipotente regista dello spettacolo che si
svolge all’interno casa, spettacolo in cui i religiosi non sono altro
che marionette, pupazzi eterodiretti, infantili e inconsapevoli agenti
della sua volontà (“Dio è l’unico che sa. Lui sa. Noi siamo bambini, per
questo non capiamo. Ma Lui è il Padre. Ed è il solo a sapere”, sussurra
Madre Monica al singhiozzante Padre Vidal, disperato per la
soppressione di Fulmine). Confessionali, dinamiche di alleanza e
cospirazione, ostilità strisciante, sessualità vigilata ed esacerbata,
sorveglianza permanente, ferree regole di condotta, infrazioni segrete,
pasti collettivi nei quali si consumano chiassosi litigi: il repertorio
narrativo e spettacolare del reality tintinna crudele in tutta la sua
vitrea e narcotica trasparenza: “Todo modo para buscar la voluntad
divina”.