martedì 3 giugno 2014

WELCOME TO NEW YORK


Devereaux è un uomo molto potente. Un uomo che gestisce miliardi di dollari al giorno e che controlla il destino economico delle nazioni. Ma Deveraux è anche un uomo posseduto da un irrefrenabile e insaziabile appetito sessuale. Un uomo che sogna di salvare il mondo ma che non è in grado di salvare se stesso, un uomo terrorizzato, un uomo perso. Deveraux è un uomo al comando del mondo, che vedrete precipitare nel vuoto... (dal sito ufficiale)  








Questo film è ispirato a un caso giudiziario le cui fasi pubbliche sono state filmate, trasmesse e commentate dai media del mondo intero.

Ma i personaggi del film e le sequenze che li rappresentano nella loro vita privata rientrano nel dominio della finzione, dal momento che nessuno può pretendere di ricostituire la complessità e la verità della vita degli attori e testimoni di questo caso, sulla quale ciascuno conserva il proprio sguardo.

Nel caso giudiziario che ha ispirato questo film, le indagini sono state abbandonate dopo che il procuratore ha concluso che la mancanza di credibilità della querelante rendeva impossibile di sapere, al di là del ragionevole dubbio e quale che sia la verità, ciò che è avvenuto durante l'incontro nella suite dell'hotel.

Presentato al Marché del 67º Festival di cannes e distribuito in streaming su varie piattaforme internazionali (si parla di e-cinema, vale a dire una modalità di distribuzione che scavalca l’uscita in sala in favore del web), Welcome to New York ha suscitato le attese e immancabili diatribe/polemiche/querele connesse agli ovvi riferimenti all’affaire Dominique Strauss-Kahn (per informazioni rivolgersi alla rete). Indubbiamente l’ultimo film di Abel Ferrara non può non evocare le gesta dell’ex direttore generale del Fondo Monetario Internazionale per motivi fin troppo palesi (a partire dalle didascalie iniziali), eppure fermarsi alle somiglianze col caso giudiziario senza scorgere quanto le affinità tra DSK e Devereaux (Gérard Depardieu) siano soltanto un pretesto per realizzare una congiunzione tra singolare e universale (sfruttare la notorietà del personaggio per mettere in luce aspetti potenzialmente presenti in ogni essere umano) e, soprattutto, senza rilevare quanto la vicenda messa in scena si adatti alla poetica del cineasta newyorkese sarebbe imperdonabilmente miope. Da qualsiasi angolazione lo si voglia considerare (maniaco, depravato, irreferenabile o semplicemente folle), Devereaux appartiene alla galleria di personaggi dipendenti che attraversano la filmografia di Ferrara (basti pensare al Lieutenant di Il cattivo tenente o alla Kathleen di The Addiction), scongiurando risolutamente l’effetto cronaca (non sfugga la cancellazione pressoché totale dell’attività finanziaria del protagonista dall’intera durata della pellicola).

Abel e io abbiamo deciso che questo film interessa tutti i francesi. Non solo quelli che vivono vicino a un cinema. Non solo quelli che sono disposti ad aspettare parecchi mesi, mentre in altri paesi ognuno può avervi accesso. Vogliamo questo film disponibile per tutti e a casa, sul tuo televisore o computer. E soprattutto… contemporaneamente alla sua proiezione a Cannes. Non è mai stato fatto prima e questo è il motivo per cui ci piace! (Gérard Depardieu)

Considerare la satiriasi di Devereaux - se così è dato chiamarla - come una semplice allegoria del potere o come una perversione prodotta dal potere stesso sulla libido del soggetto sarebbe tanto comodo quanto fuorviante, ma è proprio da un’associazione simile che il film di Ferrara prende nettamente le distanze (in questo senso ogni accusa di diffamazione manca clamorosamente il bersaglio, ovvero il film stesso). In Welcome to New York - e ignorare questo dato significa travisare completamente la pellicola - la dipendenza di Devereaux non agisce in combutta ma contro il potere: è a causa dell’ossessione erotica che egli neutralizza il mandato simbolico della moglie Simone (Jacqueline Bisset), vale a dire la corsa alla carica presidenziale. Se è vero che il ruolo ufficiale di Devereaux ne facilita enormemente la dipendenza (esattamente come il ruolo di ufficiale di polizia favoriva le trasgressioni del Bad Lieutenant), è altrettanto vero che la sua ossessione, perseguita con tenacia suicidaria, aggredisce il potere stesso alle fondamenta, impedendo non soltanto l’ipotesi dell’imminente candidatura presidenziale, ma addirittura distruggendolo in quanto figura pubblica, in quanto personaggio prestigioso e rispettabile. Abbiamo qui a che fare con la rappresentazione di una dipendenza/ossessione (nel regolamento di conti con Simone, Devereaux si pronuncia prima “sex addicted”, quindi definisce “sickness” la propria erotomania) che va al di là dei principi di realtà e piacere, un’esigenza incontrollabile che lo guida all’atto senza curarsi delle conseguenze, una spinta irrefrenabile in cui egli si identifica apertamente (“You know who I am, you know everything”, dichiara candidamente alla moglie).

L’uomo come tale è una «natura malata», deragliata, fatta uscire dai binari dall’attrazione per una Cosa letale (Slavoj Žižek, L’oggetto sublime dell’ideologia).

Situato oltre il mero piacere, il godimento di Devereaux si manifesta come coazione a ripetere intimamente connessa alla dissipazione, alla soddisfazione autodistruttiva, alla pulsione di morte (morte simbolica in questo caso: la distruzione del legame sociale assicurato dalla reputazione e dall’affidabilità). Jouissance, in una parola. Incontrollato e indifferenziato (l’appetito sessuale di Devereaux non va tanto per il sottile, indirizzandosi verso qualsiasi corpo femminile più o meno disponibile), questo godimento si presenta come il tratto unario che condensa e individua la verità del personaggio: succintamente coperto da un asciugamano avvolto attorno all’enorme ventre, egli domanda alla cameriera intimidita, poco prima di afferrarle violentemente le braccia, “Do you know who I am?”. Una domanda che, al di là del risvolto implicito pressoché immediato (“io sono un personaggio potente e influente, non ti è concesso negarti”), significa forse qualcosa di meno subdolo e ricattatorio: “io sono questo essere nudo, deforme e famelico, non posso fare a meno del mio godimento qui e ora”. Nell’essere tutt’uno con la propria jouissance, Devereaux si colloca insomma in una dimensione distante tanto dalla sanzione giudicante quanto dalla correzione ortopedica: immune all’esperienza della detenzione e refrattario alle sedute di psicoterapia, egli, per dirla in termini spericolatamente lacaniani, “non cede sul proprio desiderio”. In ultima analisi, quello di Devereaux è un personaggio intimamente patetico: soffre nel/per mantenere intatto e inalterato il proprio godimento, rifiutando ogni ipotesi di adattamento alla realtà (“No one can save anyone. And you know why, doctor? Because no one wants to be saved”, sentenzia con disarmante sicurezza allo psicoterapeuta interpretato da Christ “Chris” Zois, peraltro autore dello script insieme a Ferrara).

The appetite is insatiable (Kathleen Conklin/Lili Taylor in The Addiction).

La raffigurazione della dipendenza come condizione inarginabile e indisciplinabile non è certo una novità per Abel Ferrara, anzi probabilmente costituisce l’ossessione più riconoscibile del suo cinema: se in The Bad Lieutenant essa s’intrecciava con l’ansia della redenzione e del sacrificio tossico, in The Addiction si rifletteva nell’origine della malvagità sospendendo ogni soluzione in un epilogo misteriosamente tombale, mentre in R-Xmas si polverizzava in assuefazione alla quotidianità narcotica dello spaccio. Superfluo sottolineare quanto Ferrara abbia trasferito (e seguiti a trasferire) in queste vicende di addiction la propria esperienza di dipendenza da sostanze stupefacenti e alcol. Alla domanda diretta di un intervistatore che gli chiede, riferendosi a Dominique Strauss-Kahn, “Can you relate to this guy?”, la risposta è altrettanto diretta: “Yeah, thousand percent, on every level, man”. Ancora l'intervistatore: “His story, can you relate to that?”. AF: “His story? Absolutely, one thousand percent. You know, guy out of control. You know, his addiction is sexual. You know, an addiction is an addiction. Especially now, you know, I’m going through sobriety and really understanding what that is and how you confront that. You know, it’s a virus that you do with it, you don’t cure it”.

- Have you looked at your life, are you satisfied with what and where you are in your life? What do you want to be different? (lo psicoterapeuta a Matty/Matthew Modine in Blackout).

Ma il titolo ferrariano che intrattiene il dialogo più profondo con Welcome to New York è con ogni evidenza - un’evidenza che Ferrara smentirebbe senz’altro perentoriamente - l’altro film sulla connivenza tra celebrità e dipendenza che il cineasta newyorkese ha scritto insieme a Chris Zois: Blackout. Alla stregua di un Blackout vent’anni dopo, Welcome to New York mette ancora una volta in scena un personaggio la cui notorietà agevola e garantisce la floridezza della dipendenza, fornendogli continue e illimitate occasioni di soddisfacimento fino a renderlo incapace di distinguere il lecito dall’illecito (lo strangolamento in Blackout, l’abuso sessuale in WTNY). Questo dittico sulla celebrità intossicata (Matty un divo del cinema, Devereaux della finanza) presenta del resto un’identica scansione drammaturgica in tre atti (eccesso trasgressivo che sfocia in aggressività, intervento correttivo, epilogo solitario) e personaggi femminili praticamente equivalenti (le caratteristiche delle due compagne di Matty in Blackout, Anne/Béatrice Dalle e Susan/Claudia Schiffer, in WTNY si trovano sintetizzate nella figura di Simone). Quello che cambia sensibilmente, al contrario, è il trattamento della dipendenza, facendo di WTNY il controtipo negativo di Blackout: se in quest’ultimo l’atto favorito dall’eccesso produceva senso di colpa e conduceva a una riconciliazione finale (nella nuotata suicida Matty si ricongiungeva idealmente e in sovrimpressione alla ragazza strangolata), in WTNY l’abuso non solo non genera alcun senso di colpa (l’affermazione “je pense que c’est un peu de ma faute”, pronunciata in francese all’analista, suona decisamente come una concessione poco convinta, lettera morta), ma soprattutto non porta ad alcuna redenzione. Tra tutti i personaggi addicted raffigurati da Ferrara, Devereaux è senza ombra di dubbio il più irredento: “Qu’ils aillent tous se faire inculer!”, tuona rabbiosamente guardando dritto in macchina.

- Why did you accept to play this part?
- Because I don’t like him.

Superate le esitazioni formali tra cinema e video che tempestavano Blackout (precipitato visivo della rimozione omicida operata da Matty e del ritorno del rimosso come immagine video), Ferrara prosciuga la messa in scena da ogni vezzo confusionista e, spalleggiato dal direttore della fotografia Ken Kelsch (al suo fianco da The Driller Killer), leviga la superficie delle immagini fino a raggiungere una consistenza quasi marmorea (i corpi stessi, sagomati dalle luci artificiali dell’hotel o scolpiti dall’illuminazione fredda delle celle, assumono una durezza statuaria). Rigorose, insistenti e preziosamente inclementi, le inquadrature di WTNY non frammentano lo spazio in funzione drammatica, ma osservano una distanza impassibile che privilegia la descrizione fenomenologica e asseconda una recitazione sul filo dell’improvvisazione: si pensi a tutta la parte carceraria con tanto di schedatura/perquisizione integrale e alla lunga sequenza del faccia a faccia tra Devereaux e Simone nel costoso appartamento newyorkese da lei affittato (definito sarcasticamente “our little prison”). È in frangenti come questi che le impressionanti doti performative di Gérard Depardieu, esaltate per contrasto dalla rigidità degli agenti e dalla respingente severità di Jacqueline Bisset, si palesano con cristallina intensità, dispiegando un ventaglio espressivo che va da tonalità infantili ad altezze totemiche passando per grugniti ferini. Sono passati quasi trent’anni da Police (1985, Maurice Pialat), la cui ultima inquadratura risuona intimamente nell’epilogo frontale di Welcome to New York, ma lo sguardo di Depardieu, parafrasando Il mistero della camera gialla, non ha perduto nulla del suo fascino né del suo enigmatico splendore.

Grazie a Cecilia Ermini per il contributo.

Pubblicata su www.spietati.it


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