domenica 4 maggio 2014

JIMMY P.

Alla fine della seconda guerra mondiale, Jimmy Picard, un nativo indiano della tribù dei Blackfoot che aveva combattuto in Francia, viene ricoverato all’Ospedale militare di Topeka, in Kansas: un istituto specializzato in malattie psichiatriche. Jimmy accusa sintomi diversi, come vertigini, cecità temporanea, perdita dell’udito. E si è chiuso in se stesso. In assenza di cause fisiologiche, viene diagnosticato come schizofrenico. L’ospedale, però, decide di sentire il parere di Georges Devereux, un antropologo francese che è anche psicoanalista e studioso della cultura degli indiani d’America (dal pressbook). 


Non mancherebbero affatto i motivi per apprezzare Jimmy P.: oltre all’anomalo testo di Devereux Reality and Dream: Psychotherapy of a Plains Indian (1951), di cui il film di Desplechin è essenzialmente una rispettosa illustrazione/riduzione, sarebbe sufficiente evocare i modelli cinematografici più o meno espliciti che lo innervano - il documentario Let There Be Light (1946) di John Huston e il misconosciuto The Exiles (1961) di Kent MacKenzie, con Truffaut aleggiante come al solito - e la sostanziale continuità con la filmografia del cineasta di Roubaix. Anche in questo caso la dimensione colloquiale del microcosmo (La Vie des morts), il passato come territorio da esplorare (La Sentinelle), il gioco di riflessi tra i personaggi (Comment je me suis disputé… (ma vie sexuelle)), il doloroso percorso di riconciliazione con la vita (I re e la regina) e le dinamiche familiari quali agenti traumatici (Racconto di Natale) costituiscono le ossessioni strutturanti della pellicola. Non solo: ricorrono i motivi dei sogni come enigmi da interrogare (Rois et Reine), il sangue che sgorga abbondantemente nei momenti di tensione (La Vie des morts) e la figura del flashback infantile in presenza del personaggio adulto che ricorda (Comment je me suis disputé…).

Se a un simile inventario di continuità aggiungiamo che alcuni stralci del libro Reality and Dream erano già stati utilizzati per I re e la regina, nel quale il nome di Devereux era eccentricamente assegnato a una influente psicanalista di origine africana, la banale osservazione che Desplechin è da sempre antropologo dei rituali di inclusione/emarginazione (La Sentinelle in questo senso è titolo imprescindibile) e la centralità dell’angoscia identitaria che assilla immancabilmente i suoi personaggi (non escluso il cineasta stesso: si pensi al documentario autobiografico L’Aimée), si comprende assai bene quanto Jimmy P. non rappresenti alcuno strappo nella poetica desplechiniana, poetica che oscilla tra racconto di formazione, scavo nella memoria, minaccia della follia e progettazione dell’identità. È evidente che Desplechin sia interessato soprattutto alla condizione di sradicamento che accomuna Jimmy Picard e Georges Devereux (Benicio Del Toro e Mathieu Amalric in un confronto che contrappone due modelli di recitazione tradizionalmente antitetici): il primo un Blackfoot di nascita e statunitense d’adozione ma mai pienamente integrato nella divisa americana, il secondo un ebreo ungherese in fuga dal paese natale, dalle origini familiari (risale al 1933 il cambio di nome da György Dobó a Georges Devereux) e portato a incrociare personalmente antropologia, etnologia e psicoanalisi, contribuendo alla nascita e all’affermazione dell’etnopsichiatria. Come osserva Élisabeth Roudinesco nella prefazione della riedizione francese di Reality and Dream: “la ricerca permanente di un posto era in lui il segno di una lacerazione originaria che lo conduceva tanto verso le seduzioni dell’anonimato quanto verso l’odio per se stesso o la rivendicazione identitaria”.

Sotto il profilo clinico a Devereux va riconosciuto il merito, nell’atipica relazione terapeutica con Jimmy, della collocazione dei sintomi nel sistema ontogenetico e sistemico del paziente. Discostandosi dalla diagnosi psicotica o schizofrenica, quale quella ventilata dai medici del Winter General Hospital, Devereux preferisce invece interpretare i sintomi di Jimmy Picard in chiave nevrotica, collegandoli a vecchie sofferenze, parlando con lui di traumi psichici e allontanandolo gradualmente dalla causa fisiologica in favore di quella psicogena. Nella descrizione del quadro clinico ciò che emerge è sostanzialmente la conversione di aspetti ansioso-depressivi in termini fisici: inserendo il paziente in maniera più equilibrata nella cultura da cui deriva e nella società americana contemporanea, Devereux sollecita Jimmy a individuare la sua storia personale di rimozione e negazione a partire da un trauma infantile che, nella fase adulta del suo ciclo vitale, ne modellerà la vita sentimentale.

Ma se consapevolezza clinica e continuità di poetica giocano a favore del film, a stridere è la rigidità della messa in scena: non più un punto di vista interno all’universo rappresentato e refrattario all’onniscienza, ma uno sguardo esteriore, perentorio e oggettivante. Con Jimmy P. Desplechin pare smentire quanto affermato da René Prédal in Le cinéma français depuis 2000 a proposito della sua filmografia fino a Rois et Reine: “la messa in scena non saprebbe adottare la staticità di colui che sa, spiega il senso della vita ed espone la sua visione del mondo. Quella di Desplechin costituisce l’oggetto della sua ricerca. Così, gli esseri sono raramente ripresi in primo piano ma colti in movimento, seminascosti dagli altri, dagli ostacoli che dirottano la loro corsa, sbarrano la strada o impediscono di vedere. Ogni scena si frammenta, i percorsi si perdono nella confusione del reale”. Soffocate da un tono insolitamente asseverativo, la tecnica del chiaroscuro e la composizione contrappuntistica vengono qui rimpiazzate da un’impostazione schematica e da un fraseggio visivo palesemente convenzionale, la scioltezza di scrittura sacrificata sull’altare di un rigore classicheggiante compiaciuto nel suo anacronismo (risulta evidente l’intento di riproporre forme e modi del cinema americano coevo alla vicenda rappresentata). Certo, sarebbe assurdo rimproverare a Desplechin di aver spostato provvisoriamente le coordinate del suo cinema, eppure, secondo chi scrive, in Jimmy P. il progetto di rivitalizzazione fallisce per eccesso di deferenza nei confronti di una tradizione contemplata da una distanza tanto adorante quanto paralizzante.

Un ringraziamento a Elisa Schiavi per il contributo tecnico.

Pubblicata su www.spietati.it.

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