
Lena e Paola sono due sorelle. Un doppio lutto intreccia le loro
memorie. La fuga dell'una e la permanenza dell'altra raccontano due
percezioni diverse della realtà. Nel rifiuto del ricordo Lena viene
aggredita da quanto ha smarrito. A Paola resta in debito il dolore (dal
pressbook).

Non
è affatto facile, nel panorama cinematografico italiano, imbattersi in
entità filmiche dalle quali siano stati debellati i mali endemici della
produzione domestica: drammaturgia estorsiva, recitazione egotica,
narrazione segnaletica e ancillarità illustrativa della visione.
Sorprende dunque scorgere nel cortometraggio d’esordio di Domenico De
Orsi, classe 1978, una sostanziale immunità dalle infezioni di cui
sopra: quale misterioso antidoto lo avrà salvato dalla pandemia?
Un’ipotesi ragionevole è suggerita dalla latitudine che si percepisce
nel suo sguardo: il magistero di Antonioni, certo, ma anche le
propaggini orientali che questo ha sviluppato in anni meno remoti (Tsai,
tappa forzata). E, calcando la mano, persino le dislocazioni ottiche
del Kim Jee-woon di
Two Sisters. Una propensione al
decentramento e alla deriva, insomma, che svincola la messa in scena
dall’obbligo di sfogliare meccanicamente le pagine del racconto,
giocando al contrario sull’assottigliamento della dipendenza narrativa,
sulla rarefazione della sudditanza drammatica.

Vi è un evento tragico al centro di
Inassenza,
la scomparsa paterna che s’indovina dapprima nelle pieghe delle
immagini per poi oggettivarsi nella lignea levigatezza di un feretro:
nessuna inquadratura integrale della salma, la lacrimosa esposizione del
cadavere è scongiurata. Non si tratta semplicemente di arginare
l’impetuosità del dolore, ma, più precisamente, di suggerire il
sentimento strisciante dello smarrimento e osservare come questo sfoci
nelle reazioni divergenti di Paola (Livia Cocchi), la sorella stanziale,
e Lena (Valeria Alessandri) che invece rientra da Londra per il
funerale. Una difformità di atteggiamenti che si deposita in gesti
sfuggenti e silenziosi, in rari casi latori di una carica simbolica
vagamente ingombrante (la diapositiva paterna caduta a Lena che Paola
raccoglie e lascia cadere in acqua), senza tuttavia degenerare in
metafora stridente o insegna al neon. Di fatto, i quasi trenta minuti di
Inassenza configurano sì una vicenda costellata di
scarti emotivi e rimorsi paralizzanti, ma la tessitura del montaggio,
ordita dallo stesso De Orsi, si premura di ricomporre il continuum
fenomenologico grazie ad associazioni eminentemente materiche e
sensoriali (chiarori transitivi, nessi liquidi).

Dilatata
da un sound design poroso e tangibile, la sensorialità tende a
conquistare il ruolo di forza portante: lo sfregamento tattile,
l’esplorazione visiva e il contatto olfattivo plasmano una sfera
percettiva propizia ad accogliere l’angosciosa intermittenza della
memoria, il suo flusso circolare e discontinuo. Progressivamente, si
delineano i contorni di una composizione concentrica che rivela un
disegno narrativo cronologicamente stratificato: segni disseminati nel
testo come inviti discreti a ricomporre le tessere sparse sullo schermo.
Ma, al di là della destrezza con la quale De Orsi conduce il gioco, ciò
che rileva maggiormente nel suo lavoro è l’autonomia dello sguardo, la
nitidezza con cui si affranca dai modelli per declinare una visione
singolare e non incrostata da marche di
gender: quello di
Inassenza
è uno sguardo che, neutralizzando una connotazione sessuale definita,
scavalca la dicotomia maschile/femminile per inoltrarsi nella zona
ibrida e sconfinata del cinema. La sola dimensione che, per chi scrive,
sia veramente degna d’interesse.
Conversazione con Domenico De Orsi
La domanda preliminare che devo porti riguarda la visibilità del
tuo cortometraggio. In quali manifestazioni è stato presentato e,
soprattutto, i nostri lettori potranno recuperarlo in qualche modo?
Inassenza è stato presentato in anteprima al Festival Arcipelago, quest'anno ospite del Bari International Film Festival.
Un'anteprima di cui sono particolarmente orgoglioso perché nei suoi
vent’anni di vita la selezione curata da Stefano Martina ha sempre
dimostrato la capacità d’intercettare alcuni fra gli sguardi più
autonomi della produzione internazionale di breve durata. Ad aprile
siamo stati in concorso al Festival del Cinema Europeo di Lecce e adesso
attendiamo i risultati delle prossime selezioni. Forse anche a causa
della sua durata, quasi 30 minuti, Inassenza risulta un
oggetto di difficile collocazione. Fra qualche mese, quando si sarà
esaurita la spinta dei festival, inizieremo a pensare a come renderlo
visibile ai più. Naturalmente il web è lo scenario più probabile. Ma per
adesso restiamo una visione da festival.
Corre l’obbligo di chiederti qualcosa sulla vicenda produttiva di Inassenza: come nasce e si sviluppa il desiderio di girare questo corto? Quali difficoltà hai incontrato nel realizzarlo?
Inassenza
nasce da quasi un decennio di mie meditazioni, attraverso la
professione di montatore, sulla natura delle immagini e sulla loro
possibilità di combinarsi in un racconto. La necessità di rapportarmi a
una dimensione narrativa e intima, l’elaborazione del lutto, è andata di
pari passo con il desiderio di iniziare a mettere a punto una
riflessione sul cinema come memoria del reale. Una riflessione il cui
stimolo principale sta nella lunga frequentazione con il produttore di
Inassenza, il regista Angelo Amoroso d'Aragona che del film è anche sceneggiatore.
Mi è difficile palare di difficoltà produttive. Per certi versi ho
assistito a un piccolo miracolo, fatto di incontri, di talento e di
intelligenza. Soprattutto di ascolto. Quando si ha la possibilità di
riempire un furgone di attrezzature cinematografiche, viveri, stoviglie,
scenografie e si parte per Londra attraversando in due giorni tutta
Europa, insieme al direttore della fotografia e all’operatore, le
difficoltà produttive sono presto superate dalla vita che eccede il set.
Il film è stato prodotto grazie a un contributo della Regione Puglia e
al sostegno di soggetti privati. Per la distribuzione nei festival
abbiamo realizzato una campagna di crowdfunding di discreto successo.
Sergio Grillo, direttore della fotografia e coproduttore di
Inassenza,
ha radunato intorno a sé una piccola squadra di talentuosi giovani
pugliesi, in grado di competere in quanto a maestria e inventiva con i
presunti e presuntuosi professionisti della capitale.
Sotto il profilo tecnico il tuo lavoro non presenta i limiti che
si riscontrano abitualmente nelle produzioni indipendenti: che tipo di
equipaggiamento hai utilizzato?
Come molte troupe indipendenti abbiamo girato con una Canon 5D. Avevo
però imposto un piccolo “dogma”: utilizzare un solo obiettivo, un 100mm
macro. Una sfida raccolta con entusiasmo e preoccupazione dal direttore
della fotografia e che rispondeva alla duplice esigenza di contenere il
budget e di raggiungere una dimensione fotografica particolarmente
incisa e materica, nel rispetto dell'impronta fotografica tenue, dai
contrasti accennati, di Sergio Grillo.
Il fatto che il film non presenti molti dei limiti che si riscontrano
nelle produzioni a basso costo è probabilmente legato all’approccio
“analogico” del nostro lavoro. Meditato, studiato, attento. La cura in
post produzione, da parte del graphic designer Efisio "Maxette" Scanu,
nel correggere i consueti difetti di un fotogramma compresso come quello
della 5D, è stata ai limiti della maniacalità.
Nel tuo corto colpisce immediatamente l’ampiezza del compasso
visivo. Puoi parlarci dei riferimenti cinematografici - e non solo - che
hanno in qualche modo contribuito a delineare il tuo sguardo?
Mentre facevo dei sopralluoghi mi ritrovai coi piedi affondati del
fango per almeno dieci centimetri. Pensavo che il cinema io volevo farlo
coi piedi.
Naturalmente questo evocava in me lo spettro di Herzog e del suo cinema canagliesco. Anche se Inassenza
è lontanissimo dall’universo del regista bavarese, l’idea che fare un
film sia in qualche modo un atto criminale, ancorché inutile, mi ha
sempre animato.
Antonioni è forse il regista sul quale ho meditato maggiormente,
avendogli dedicato la mia tesi di laurea. Al pensiero fenomenologico
devo la suggestione che solo la descrizione di una superficie sia
possibile. Che la descrizione si possa spingere in profondità quanto
vuole ma rimane per natura esclusa da quella profondità cava e
misteriosa che è il reale.
Poi ci sono i maestri dell’est, vicino e lontano, Béla Tarr e Tsai
Ming-liang, Wong Kar-wai e Kieslowski. Ma sono essenzialmente un
montatore e penso a Kim Arcalli e all’irriverenza coi cui faceva a pezzi
sontuosi piani sequenza, per l'insaziabile voglia di raccontare altre
storie dentro una stessa storia.
Pubblicato su www.spietati.it.