venerdì 24 maggio 2013

IL CECCHINO


Il capitano Mattei sta per arrestare una famigerata gang di rapinatori di banche, quando un cecchino appostato sul tetto di un edificio spara contro i poliziotti per permettere ai complici di fuggire. In seguito al grave ferimento di uno di loro, i rapinatori si trovano costretti a cambiare i propri piani, rifugiandosi presso lo studio di un medico corrotto e rimandando in questo modo la spartizione della refurtiva. Mentre il capitano Mattei organizza una feroce caccia all'uomo per catturare i criminali, emergono progressivamente dei particolari che connettono strettamente i destini dei tre protagonisti e dei coprotagonisti - tra cui Anna e Nico - in un vortice di misteri e uccisioni che risale sino alla guerra in Afghanistan (dal pressbook). 

Occorre riconoscere a Michele Placido applicazione e dedizione nel misurarsi con un genere storicizzato e strutturato come il polar: esplicitamente indicato dai due sceneggiatori Cédric Melon e Denis Brusseaux quale regista d’elezione, l’autore di Romanzo criminale si avvicina con cautela e deferenza alla tradizione del poliziesco/noir francese, assegnando a Daniel Auteil il grado di commissario e il nome Mattei (gli stessi di Bourvil in I senza nome), nonché filigranando il personaggio in chiave melvilliana (i modi insinuanti e faziosi con cui conduce gli interrogatori rievocano quelli del commissario interpretato da François Périer in Frank Costello faccia d’angelo). Su questa base ossequiosamente melvillienne s’innesta il gusto tipico del neopolar per l’azione concitata e crepitante - a riguardo si veda la prima stagione di Braquo (2009), cofirmata da Olivier Marchal e Frederic Schoendoerffer - e una concezione dei faccia a faccia di chiara impronta manniana (le dinamiche degli incontri tra Auteil e Kassovitz richiamano quelle tra Al Pacino e De Niro in Heat).

Sbalzata dai cromatismi bluastri e biancheggianti di Arnaldo Catinari e sagomata da un montaggio che alterna avvertitamente linee narrative e salti cronologici senza disgregarsi, la prima parte di Le Guetteur si mantiene in equilibrio tra studio dei personaggi, accelerazioni cinetiche e tradimenti all’insegna dell’opportunismo. Benché le spalle di Kassovitz siano troppo cadenti per reggere il gravoso ruolo di Vincent Kaminski, tireur d’élite convertitosi al crimine e, al contrario, Olivier Gourmet schiacci il personaggio del toubib Frank Vernon con un’interpretazione quasi laughtoniana, il film frequenta la retorica del genere ritagliandosi una sua singolarità compositiva. E se il sovraesposto Auteuil si cala con disinvoltura da professionnel nei panni del commissario Mattei, volti e corpi dei comprimari conferiscono il mordente d’insieme: non solo Francis Renaud nella parte del morfinomane Eric e Jérôme Pouly in quella del granitico complice David, ma anche Arly Jover (l’avvocato Kathy, ex amante di Vincent), Luca Argentero (Nico, il solo membro della gang ferito durante la rapina) e Violante Placido (Anna, la moglie di Nico) imprimono al film un timbro ossessivo percorso da una vena di romanticismo soffocato.

Per quanto corroso da un malinteso senso dei silenzi e del non detto (anziché suggerire mistero, la laconicità di Vincent sbraita una reticenza di prammatica), Il cecchino, per quarantacinque minuti buoni, dispiega una narrazione a focalizzazione variabile dignitosamente padroneggiata: ciò che sa un personaggio non coincide mai con le informazioni possedute dagli altri o dallo spettatore, e in virtù di queste discrepanze cognitive l’intreccio rastrella ambiguità, sospetti e doppi giochi in predicato di vendetta. A guastare la parziale riuscita della pellicola arriva però, esattamente a metà film, la svolta tragico-orrorifica che scaraventa la narrazione nelle sabbie mobili del fardello familiare (il figlio di Mattei deceduto durante una missione segreta in Afghanistan, vedi caso accoppato proprio da Kaminski) e della crudeltà straordinariamente inopinata (la ragazza imprigionata e torturata dal medico corrotto, che a questo punto si tramuta in un mostro sadico alla stregua di Peter Lorre). Da qui in poi Le Guetteur, tragicamente listato a lutto e imbrattato di emoglobina inacidita, inanella una serie di sequenze improbabili (il colloquio tra Mattei e Vernon in cella ha un che di surreale), che né l’apparizione di Fanny Ardant in un cameo a mano armata (pare sia stato tagliato nella versione italiana) né i tocchi coeniani del finale (l’attraversamento del Pont Neuf da parte di Vernon con tanto di chitarrista mariachi, i ragazzini che fanno skate poco prima del triello conclusivo) saranno in grado di risollevare. Menzione d’onore per le musiche originali di Nicolas Errèra, Evgueni e Sacha Galperine, oscillanti tra l’elettronica martellante e sibilanti rarefazioni sonore. Umorismo non pervenuto.

Pubblicata su www.spietati.it.
 

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